Nell’ambito di un contenzioso che vedeva riunite una pluralità di cause ed avente ad oggetto la legittimità di un avviso di accertamento con cui l’Agenzia delle Entrate, per l’anno di imposta 2003, contestava un maggiore reddito da imputare, per il principio di trasparenza di cui all’art. 5 D.P.R. del 22 dicembre 1986, n. 917, ai soci di una società di persone, tra cui una società di capitali a ristretta base partecipativa, l’Agenzia stessa proponeva ricorso per la cassazione della sentenza di appello pronunciata nell’unico procedimento, tra quelli riuniti, che la vedeva soccombente.
Per quanto di interesse, l’Agenzia delle Entrate si doleva anzitutto della violazione e falsa applicazione dell’articolo 5 del Testo Unico delle Imposte sui Redditi, nella portata ed interpretazione definita dalla stessa Cassazione, per cui i redditi della società a ristretta base sono imputati a ciascun socio indipendentemente dalla sua percezione, e proporzionalmente alla quota di partecipazione agli utili.
Detta imputazione per trasparenza, nei confronti di soci di una società di persone in forma di società di capitali a ristretta base partecipativa, dovrebbe consentire, secondo l’Amministrazione finanziaria, l’applicazione della presunzione di distribuzione degli utili extracontabili ai soci di quest’ultima.
A tal riguardo inoltre, a giudizio dell’Amministrazione finanziaria, il giudice di appello avrebbe omesso l’esame di un fatto decisivo e controverso, avendo ritenuto non sussistenti gli utili extracontabili di una società a ristretta base partecipativa nel caso in oggetto, dove il maggior reddito era costituito non da ricavi occultati o costi inesistenti, bensì da costi non deducibili, a fronte dei quali non vi sarebbe stata alcuna provvista finanziaria occultata da poter distribuire.
A parere della Suprema Corte di Cassazione il ricorso proposto dell’Agenzia delle Entrate è da ritenersi fondato.
La Corte ricorda che, in linea generale, in caso di società a ristretta base partecipativa, è legittima la presunzione di attribuzione ai soci degli eventuali utili extracontabili accertati, rimanendo salva la facoltà del contribuente di offrire la prova contraria sul fatto che i maggiori ricavi non siano stati distribuiti ma accantonati o reinvestiti dalla società (Cass. nn. 5076/2011; 9519/2009; 7564/2003; 24534/2017).
Infatti, il fondamento logico della costruzione giurisprudenziale si rinviene nella “complicità” che normalmente caratterizza un gruppo societario composto da poche persone, sicché vi è la presunzione che gli utili extracontabili siano stati distribuiti ai soci nel corso dello stesso esercizio annuale, salva la prova contraria a carico del contribuente (Cass. n. 13485/2008).
Per l’operatività di tale presunzione il fatto noto non si rinviene nella sussistenza degli utili extracontabili, piuttosto nella ristrettezza della base sociale e dal vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci (Cass. n. 5581/2015).
In ragione di quanto sopra, i giudici di legittimità hanno ritenuto che i giudici di appello si siano discostati dai principi giurisprudenziali affermati nei precedenti della Corte e che il loro ragionamento costituisca una non corretta applicazione delle norme e, segnatamente, dell’art. 38 D.P.R. del 29 settembre 1973, n. 600.
La Corte di Cassazione, infatti, ribadisce quanto già in precedenza affermato (Cass. nn. 17959/2012 e 17960/2012) secondo cui i costi costituiscono un elemento rilevante ai fini della determinazione del reddito d’impresa, sicché quando essi siano “fittizi” o “indeducibili”, scatta la presunzione che il medesimo è maggiore di quanto dichiarato o indicato in bilancio, con la conseguenza che non può riscontrarsi alcuna differenza tra la percezione di maggiori ricavi e l’indeducibilità o inesistenza di costi.
Stante, quindi, l’indifferenza, ai fini della determinazione del reddito, tra costi inesistenti e indeducibili, anche se in quest’ultimo caso il costo sia stato effettivamente sostenuto con somme erogate in concreto dalla società, matura comunque un reddito di impresa di importo maggiore a quello dichiarato, con presunzione di distribuzione dello stesso ai soci di società a ristretta base partecipativa in proporzione della quota posseduta (similmente si vedano anche le recenti pronunce Cass. nn. 15895/2020 e 3980/2020).
Ciò proprio in ragione del fatto che i costi indeducibili, quale che sia la ragione di tale indeducibilità, comunque non possono essere considerati nel passivo del conto economico del bilancio, che, per il principio di derivazione di cui all’art. 83 D.P.R. 917/1986, è alla base del bilancio fiscale.
Conseguentemente, data la natura fiscalmente neutra dei costi non deducibili, di essi non è dato tenere conto nella determinazione della base imponibile (che risulterebbe altrimenti alterata) con inevitabile riflesso sulla quantificazione delle imposte.