Nei giudizi relativi a contratti di intermediazione finanziaria, al riscontro dell’inadempimento dei doveri di corretta informazione gravanti sull’intermediario consegue l’accertamento in via presuntiva del nesso di causalità tra detto inadempimento e il danno patito dall’investitore; presunzione che spetta alla banca superare, dimostrando che il pregiudizio si sarebbe comunque concretizzato quand’anche il cliente avesse ricevuto le informazioni promesse.
La prova contraria a carico dell’intermediario deve assumere pregnante concretezza: non può consistere nell’affermazione della generica propensione al rischio desunta da scelte pregresse del cliente (perché l’investitore, anche se speculativamente orientato, deve poter comprendere e valutare la singola scelta nell’ambito delle varie opzioni offerte dal mercato), e può a titolo esemplificativo essere costituita dalla dimostrazione che in altra successiva occasione lo stesso cliente, debitamente avvertito del rischio, abbia deciso di disporre un investimento analogo.
Sulla base di questi principi – desunti dalla disciplina di settore (v. già Cass. 3914/2018) – la Suprema Corte cassa una pronuncia della Corte d’Appello di Firenze che aveva rigettato le domande proposte da alcuni investitori, tra le altre cose affermando che su di essi gravava l’onere di provare il nesso di causalità (non assolto), e attribuendo particolare rilevanza alla prova offerta dall’intermediario circa precedenti investimenti rischiosi dei clienti.