(*)1. Il lungo ma inesorabile processo di modificazione formale e sostanziale delle istituzioni della nostra economia, accompagnato da corrispondenti mutamenti nell’impalcatura normativa di istituti quali il contratto e il mercato, testimonia della bontà della costruzione di Francesco Galgano del c.d. periodo rosso che coerentemente applica l’assunto di ispirazione notoriamente Marxiana che le Istituzioni giuridiche seguono quelle economiche e non viceversa.
Le ultime modifiche legislative in tema di risoluzione delle crisi bancarie, che per larga parte hanno ispirato le soluzioni adottate dal Governo per salvare i quattro istituti di credito in crisi, costituiscono l’ultimo tassello del menzionato processo. Sicuramente imputabili alla crisi economica esplosa nel 2008 che, con riferimento al mercato creditizio, ha reso necessarie iniezioni di ingenti dosi di danaro pubblico, certo è che tali modifiche assai bene esprimono la logica sottostante ai provvedimenti normativi di derivazione comunitaria in materia di governo dell’economia, anzitutto volti a limitare al minimo gli interventi diretti dell’Autorità pubblica anche in un settore, come quello del credito, coperto dalla garanzia costituzionale.
Dal 2008 al 2013, anno al quale data l’ultima delle comunicazione della Commissione europea in materia di aiuti di Stato alle misure di sostegno alle banche nel contesto della crisi finanziaria, molto è cambiato con riguardo alle condizioni di ammissibilità dell’intervento pubblico ai fini del salvataggio bancario. Le maglie si sono ristrette attraverso una progressiva specificazione di principi, alcuni dei quali già genericamente menzionati nei primissimi provvedimenti in materia, nonché attraverso l’adozione di nuove regole procedurali che collocano il riconoscimento della legittimità dell’intervento pubblico all’esito della approvazione del piano di ristrutturazione.
In questo nuovo quadro, che si presenta quale risultato della stratificazione di una serie di provvedimenti – le Comunicazioni della Commissione, il regolamento europeo sul meccanismo unico di risoluzione n. 804 del 2014 e, da ultimo, la direttiva del 15 maggio 2014, n. 59 che istituisce un quadro di risanamento e risoluzione degli enti creditizi –, spicca un principio, anch’esso invero già presente in alcune Comunicazioni antecedenti a quella del 2013, la cui portata tuttavia ai fini della ammissibilità dell’intervento pubblico viene ulteriormente specificata soltanto nel 2013: si tratta del principio di condivisione degli oneri.
Con la Comunicazione del 2013 la Commissione senza mezzi termini afferma che «prima di concedere aiuti per la ristrutturazione a favore di una banca, gli Stati membri dovranno […] garantire che gli azionisti e i detentori di capitale subordinato di detta banca provvedano a fornire il necessario contributo oppure costituire il quadro giuridico necessario per ottenere tali contributi». Sicché il rispetto di tale principio diventa chiaramente condizione dell’ammissibilità dell’intervento pubblico ai fini del salvataggio bancario. Ciò, laddove le ragioni che ne giustificano l’adozione starebbero anche nella sua strumentalità a limitare le condotte c.dd. di moral hazard, ossia i comportamenti opportunistici di chi ha poteri gestori.
La ricetta elaborata per superare la crisi bancaria dall’Unione Europea è dunque chiara: anzitutto internalizzazione dei costi attraverso la riduzione, la conversione o l’azzeramento prima delle azioni e poi delle obbligazioni subordinate; di quei titoli, insomma, che tradizionalmente vengono collocati nel c.d. capitale di rischio e in quello, che sia pure criticabilmente, viene definito quasi capitale. E nel rispetto del seguente, ulteriore, principio: che «i creditori subordinati non dovrebbero […] ricevere, in termini economici, meno di quanto sarebbe valso il loro strumento in caso di mancata concessione di aiuti di Stato».
2. Il c.d. decreto salva banche non ricorre al bail in; non coinvolge, cioè, nella operazione di salvataggio tutti i creditori dell’istituto di credito. Ciò nondimeno, dà attuazione al principio di condivisione degli oneri, prevedendo l’azzeramento delle azioni e delle obbligazioni subordinate.
Le trattative sfociate nella adozione di questo decreto sono state a dir poco serrate e sicuramente testimoniano del rilievo dato dai vertici dell’Unione Europea esattamente al principio di condivisione degli oneri. È noto che la prima proposta di salvataggio è stata bocciata. Essa prevedeva l’intervento del Fondo interbancario di tutela dei depositi senza che però nulla fosse detto sulla compartecipazione alle perdite da parte degli azionisti e degli obbligazionisti subordinati. Parimenti note sono le ragioni della bocciatura: da una parte, la qualificazione in termini di aiuti di Stato dell’intervento del Fondo (e l’orientamento su tale punto della Commissione Europea, giusto o sbagliato che sia, non è di oggi ma risale al 2013), dall’altra, proprio la mancata attuazione del principio di condivisione degli oneri.
Né, d’altro canto, la menzionata bocciatura avrebbe dovuto destare stupore ove si ponga mente a un altro provvedimento della stessa Commissione Europea, questa volta riguardante direttamente l’Italia: la decisione preliminare del 27 febbraio 2015 sulla compatibilità delle misure di sostegno messe a disposizione della Banca Tercas. Già in quella decisione la Commissione manifestò il fondato timore che l’intervento del Fondo interbancario previsto dal piano di salvataggio confezionato dalle Autorità costituisse aiuto di Stato – intervento il quale si sarebbe vieppiù tradotto in un comportamento distorsivo del mercato atteso che il medesimo Fondo non avrebbe agito alla stregua di un operatore di mercato – e neppure nascose le sue perplessità sulla compatibilità di un tale aiuto con la disciplina europea anche alla luce della assenza di indizi in ordine alla attuazione di misure che assicurassero il rispetto del principio di condivisione degli oneri. La decisione preliminare è stata poi confermata con il provvedimento del 23 dicembre 2015.
Si è così giunti al d.l., 22 novembre 2015, n. 183.
Cosa esso preveda è assai noto: previo azzeramento delle azioni e delle obbligazioni subordinate, la costituzione di quattro banche (c.dd. enti ponte) cui vengono trasferite tutte le attività e le passività, escluse quelle rappresentate dai crediti deteriorati, degli Istituti di credito in crisi al fine di assicurare la continuità nello svolgimento delle funzioni essenziali precedentemente svolte e di procedere alla relativa vendita quando le condizioni del mercato si rivelino adeguate; la messa in liquidazione delle quattro banche in crisi attraverso la cessione dei crediti a soggetti specializzati; l’applicazione dell’esenzione fiscale per i versamenti effettuati dal fondo di risoluzione all’ente ponte.
Il costo complessivo dell’operazione dovrebbe ammontare a circa 3,6 miliardi per ora anticipati dai tre maggiori Istituti di credito nazionali: Intesa San Paolo, Unicredit e Ubi Banca. Una parte di questa somma dovrebbe essere restituita attraverso le contribuzioni del sistema bancario al neo istituito Fondo di risoluzione. La restante parte del prestito dovrebbe rientrare grazie alla liquidazione della bad bank, i cui crediti in sofferenza sono stati svalutati – secondo la Comunicazione di Banca d’Italia – a 1,5 miliardi di euro. È anche prevista una garanzia della Cassa Depositi e Prestiti per l’ammontare di 400 milioni.
Quali, dunque, i costi e i benefici? E, soprattutto, su chi ricadono i costi?
Cominciamo dai benefici immediati, gli unici allo stato valutabili.
Sicuramente dell’operazione si avvantaggiano i creditori non subordinati delle quattro banche: dunque, depositanti, correntisti e obbligazionisti senior. Il decreto salva banche, infatti, li sottrae alla scure del bail in.
Sui benefici per il cittadino contribuente è difficile allo stato fare previsioni. La socializzazione delle perdite parrebbe in effetti ridotta al minimo, sostanziandosi per adesso con certezza nella esenzione fiscale riconosciuta alle anticipazione del Fondo di risoluzione. C’è però la garanzia della Cassa Depositi e Prestiti. Quanto essa possa pesare sul debito pubblico non è ancora chiaro: dipende anzitutto dall’esito delle operazioni di liquidazione dei crediti in sofferenza. Profilo non secondario è, poi, quello del costo della garanzia. Anche da esso dipende il quantum di socializzazione delle perdite.
3. E così, dai benefici si arriva ai costi.
A pagare è certamente il sistema bancario nel suo complesso, attraverso il fondo di risoluzione. A pagare per primi sono però azionisti e obbligazionisti subordinati, alla fine dei conti, senza distinzione alcuna.
James Gordley scriveva in un divertente articolo sulla teoria della persona giuridica negli Stati Uniti che se il giuseconomista si interroga in prima istanza sulla efficienza delle regole – ciò laddove per efficienza debba ovviamente intendersi il risultato in termini di rapporti tra costi e benefici cui si perviene per mezzo dell’applicazione della regola – il giurista tradizionale, al contrario, non valuta in termini di efficienza ma, piuttosto, in termini di giustizia.
Sulla efficienza della regola che prescrive il sacrificio degli azionisti e degli obbligazionisti subordinati non si dovrebbe dubitare secondo la Commissione Europea. Strumentale alla incentivazione alla adozione di condotte prudenti da parte degli operatori economici, essa assicurerebbe la stabilità dei mercati. Qualcuno, tuttavia, dubita seriamente della sua efficienza, attesa la sua idoneità a minare la fiducia dei risparmiatori nel mercato creditizio.
E sulla sua equità?
A fronte degli orientamenti dei vertici Europei, non necessariamente condivisibili, che ne costituiscono il presupposto di adozione, per gli azionisti sembra si possa rispondere affermativamente. Gli azionisti investono nella attività e partecipano totalmente al rischio di imprese. Vi partecipano, è vero, anche a prescindere dall’effettivo ricorrere di un potere di indirizzo sulla attività dell’impresa. È pure vero però che il sacrificio dei loro interessi rispetto a quello dei creditori dell’impresa è bilanciato, nell’ipotesi in cui ai primi non facciano capo poteri gestori, dalla responsabilità limitata.
Al fondo vi è l’essenza della disciplina della responsabilità, anzitutto tesa a individuare su chi debbano ricadere le conseguenze dell’evento dannoso. Dinanzi a determinate attività, tra le quali rientra anche l’attività di impresa, il criterio di imputazione è oggettivo. Prescinde cioè dalla colpa.
La posizione degli obbligazionisti subordinati è diversa.
Segnatamente, rispetto a questa tipologia di obbligazione, che è anzitutto uno strumento di finanziamento dell’impresa, la regola della responsabilità connota qualitativamente il titolo; ciò nel senso che proprio dalla menzionata regola dipende la sua redditività. A questa stregua, il coinvolgimento dell’obbligazionista subordinato nel salvataggio dell’impresa bancaria che si traduca nella sostanza nell’azzeramento della sua stessa posizione per assorbire le perdite non dovrebbe contraddire detta regola di responsabilità. Sempre che – ed è questa condizione imprescindibile della bontà del ragionamento – all’obbligazionista non sia riservato un trattamento deteriore rispetto a quello che gli sarebbe spettato in caso di messa in liquidazione dell’impresa.
L’ingiustizia della soluzione, tuttavia, si manifesta con tutta la sua forza ove si ponga mente alla tipologia di clientela cui viene venduto il prodotto: nel caso delle quattro banche da ultimo salvate si è trattato di clienti il cui profilo di rischio non avrebbe dovuto consentire simili operazioni.
È, dunque, ingiusto il loro sacrificio?
A questo proposito sembra opportuno distinguere due piani: quello della disciplina dell’attività dell’impresa bancaria, al quale afferisce altresì il profilo della responsabilità per la medesima attività, e quello del rapporto tra intermediario e cliente, senza dimenticare che si sta ragionando di una soluzione a fronte di presupposti concettuali dati, che sono quelli comunitari, sui quali non necessariamente si deve convenire.
Sul piano della disciplina dell’attività, cui afferisce anche il profilo della responsabilità per la medesima attività, il sacrificio degli obbligazionisti subordinati, in seguito a quello degli azionisti, potrebbe anche essere considerato coerente con l’essenza stessa dell’operazione di investimento, pure quando tale sacrificio si sostanzi nella perdita del capitale investito, se strumentale alla tutela delle altre categorie di investitori, le volte in cui costituisca un tassello di un procedimento più ampio diretto al risanamento della medesima impresa e senza il quale l’istituto di credito sarebbe stato sottoposto a liquidazione coatta.
In tale prospettiva, un sì fatto bilanciamento di interessi potrebbe anche essere considerato una delle tante possibili modalità di attuazione del principio della tutela del risparmio, forse non la migliore ma pur sempre una delle possibili, atteso che lega coerentemente le sorti dell’investimento alla sua rischiosità.
I termini del ragionamento, però, mutano se dal piano della disciplina dell’attività si passa a quello della disciplina del rapporto: in particolare, del rapporto tra cliente e intermediario. È chiaro, infatti, che su tale piano la soluzione che vede sacrificati gli interessi degli obbligazionisti subordinati non può che apparire ingiusta allorquando il prodotto venga venduto a clienti che non presentano un adeguato profilo di rischio. In questo caso, si, il loro sacrificio contraddice senza dubbio il principio di tutela del risparmio. Piano di rilevanza, tuttavia, è quello della responsabilità contrattuale.
4. Altra è la questione della retroattività. Il c.d. decreto salva banche, ma anche il d.lgs. del 15 novembre 2016, n. 180, applicano il principio di condivisione degli oneri con efficacia retroattiva; anche, cioè, ai titoli obbligazionari emessi prima della sua entrata in vigore.
È noto che la regola tempus regit actum è posta anzitutto a tutela dell’affidamento maturato dai cittadini nella riconducibilità delle relative azioni a un ben individuato gruppo di regole. È perciò in prima istanza tale principio a fare da guida nella valutazione di legittimità della scelta in ordine alla retroattività di un provvedimento normativo.
Presupposto del ragionamento è in questo caso il carattere della irreversibilità della crisi dell’ente e l’assenza di alternative diverse dall’intervento dello Stato ai fini della relativa salvezza.
Ebbene, se si guarda al menzionato carattere, la scelta della retroattività potrebbe anche non essere considerata irragionevole. Il c.d. decreto salva banche interviene, appunto, in una fase di crisi irreversibile dei quattro istituti di credito. Già in amministrazione straordinaria, senza detto intervento sarebbero stati posti in liquidazione coatta amministrativa. I diritti degli obbligazionisti subordinati, con ogni probabilità, non avrebbero avuto sorte differente nell’ipotesi di applicazione delle regole all’uopo dettate dal Testo Unico Bancario. Differente, piuttosto, sarebbe stato il procedimento che avrebbe condotto al loro sacrificio. Resta peraltro vero il seguente dato e, cioè, la strumentalità del loro sacrificio alla salvezza delle ragioni degli altri creditori.
Non si può non prendere in considerazione, però, anche il fatto che, ove fossero stati concessi aiuti di Stato in linea con gli orientamenti della Commissione antecedenti al 2013, pure la posizione degli obbligazionisti subordinati sarebbe stata preservata, unitamente a quella degli altri creditori.
Il nodo è quindi proprio il mutamento delle regole e degli orientamenti della Commissione Europea in materia di aiuti di Stato; in particolare, l’idoneità di dette regole a fondare un affidamento legittimo la lesione del quale per mezzo della scelta della retroattività possa rivelarsi irragionevole.
Anche a questo proposito, è bene ribadirlo, si sta ragionando della praticabilità di una soluzione che ha la sua premessa in presupposti concettuali dati, che non è detto che siano i migliori.
Fatta questa premessa, forse si potrebbe affermare che l’affidamento nell’intervento dello Stato maturato sulla base di una prassi diffusa – ove per prassi si intendono le decisioni della Commissione Europea attuative dei suoi stessi orientamenti – da un punto di vista tecnico non necessariamente si deve considerare preponderante nel bilanciamento degli altri interessi coinvolti.
La prassi, è vero, crea affidamenti, ma non sempre crea diritti. Ciò, laddove l’affidamento di cui si discorre e che può imporsi quale freno alla scelta sulla retroattività, dovrebbe attenere all’applicazione di discipline poste a tutela di pretese giuridicamente rilevanti, qualunque sia la forma giuridica da esse assunta.
Da questo angolo visuale, il mutamento di regole in materia di condizioni legittimanti gli aiuti di Stato potrebbe anche rivelarsi inidoneo a incidere sull’affidamento maturato dagli obbligazionisti subordinati in ordine alla disciplina applicabile alla loro posizione in caso di crisi di liquidità dell’ente creditizio, attesa la mancanza di una pretesa giuridicamente rilevante del singolo a detti aiuti. Per il singolo, su un piano squisitamente tecnico, l’affidamento rilevante in queste ipotesi sembra essere quello nella applicabilità delle regole in materia di liquidazione coatta amministrativa.
Resta tuttavia senza dubbio aperta la questione della opportunità di una tale soluzione anche con riferimento alla realizzazione dell’obiettivo della stabilità dei mercati cui tanto sembra tenere la stessa Commissione Europea.
Passando al piano dei rapporti tra intermediari e clienti, le ragione tecniche che potrebbero indurre a escludere l’esistenza di un affidamento del cittadino negli aiuti di Stato, dovrebbero anche indurre a reputare che non possa essere valutata con minore rigore la condotta dell’intermediario che in epoca antecedente abbia venduto obbligazioni subordinate a clienti il cui profilo di rischio non si è poi rivelato adeguato. Decisivo ai fini di sì fatta valutazione sembra essere anzitutto la regola di responsabilità che connota qualitativamente il titolo e che vede postergato l’obbligazionista rispetto agli altri creditori dell’ente nel soddisfacimento delle proprie ragioni. Piano di rilevanza, di nuovo, è quello della responsabilità contrattuale.
5. Poche battute per concludere.
Le modalità del salvataggio dei quattro istituti di credito costituiscono il riflesso dei mutamenti degli orientamenti della Commissione europea in materia di aiuti di Stato. A tali mutamenti si deve la nuova disciplina in materia di risanamento e di risoluzione degli enti creditizi e delle imprese di investimento.
Gli obiettivi sono la stabilità dei mercati e il contenimento di comportamenti opportunistici da parte degli operatori. La strada tracciata per raggiungerli è l’imputazione delle perdite anzitutto agli azionisti e ai creditori dell’ente in crisi, nonché al sistema bancario nel suo complesso, sì da ridurre al minimo l’intervento dello Stato. Il processo di revisione è iniziato dal 2013; dal 2016 il nuovo regime è pienamente operante.
Si può discutere della tempistica; il passaggio – come è stato detto – avrebbe anche potuto essere più graduale. Certo è, si ripete, che l’approdo bene si inscrive nel più generale disegno delle strutture del mercato dell’Unione Europea. Al quale anche il mercato del credito, nonostante il ruolo strategico e sensibile che gli è proprio, non sembra fare eccezione. Le nuove regole in materia di aiuti di Stato costituiscono il risultato di un diverso bilanciamento tra principi: dal un lato, il principio di tutela del risparmio, dall’altro quelli di tutela della concorrenza e di sostenibilità finanziaria dell’agire pubblico, entrambi di derivazione comunitaria.
In questo mutato contesto, sicuramente vero si dimostra l’assunto che le istituzioni giuridiche seguono quelle economiche. Ma pure vero si dimostra anche l’altro assunto: che le soluzioni adottate in punto di bilanciamento di interessi in conflitto ancora più spesso sono serventi a logiche di potere date.
(*) Tenutosi a Trento, 12 febbraio 2016.