1. Introduzione
Fin dall’inizio dell’emergenza sanitaria legata al Covid-19, il diritto della crisi di impresa è stato considerato uno dei primi settori di cui i legislatori avrebbero dovuto occuparsi al fine di gestire le situazioni di crisi e di insolvenza che il propagarsi del virus e l’adozione delle misure di lock down avrebbero inevitabilmente comportato.
Le finalità di tale intervento legislativo consistevano nell’evitare il proliferare di istanze di fallimento a carico di imprese non più in grado di far regolarmente fronte alle proprie obbligazioni e di cercare pertanto di salvaguardare, nei limiti del possibile, il risanamento delle imprese attraverso strumenti finalizzati a garantire la continuità dell’attività d’impresa.
Sotto un differente profilo, tali eventuali misure non dovevano però tradursi in un “vantaggio” per quelle imprese che si trovavano in situazione di crisi, o insolvenza, già prima che l’emergenza sanitaria si manifestasse e in relazione alle quali tale situazione eccezionale si poneva come mera “concausa” di uno stato di crisi, o insolvenza, già conclamato.
Nonostante l’emergenza sanitaria si sia diffusa in un primo tempo solo in Italia per poi estendersi ad altri Paesi europei (principalmente Spagna, Francia e Germania), il nostro Governo è stato l’ultimo ad adottare misure specificamente volte ad adattare le disposizioni in materia di procedure concorsuali all’emergenza sanitaria in corso. Invero, è solo con il D.L. 23/2020, emanato in data 8.4.2020 (di seguito, anche, il “Decreto Liquidità”), che sono state adottate le prime disposizioni rilevanti al riguardo, laddove Spagna e Germania erano già intervenute in tale materia nel corso dei primi giorni del mese di marzo e la Francia si è attivata mediante l’Ordonnance n. 2020-341 del 27.3.2020 (le cui disposizioni sono state poi successivamente chiarite dalla Circolare CIV/03/20 del 30.3.2020).
Di seguito, verrà fornita un’analisi preliminare delle disposizioni di cui al D.L. 23/2020 finalizzate ad adattare il diritto delle imprese in crisi all’attuale situazione di emergenza.
2. Il differimento dell’entrata in vigore del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza
L’art. 5 del D.L. 23/2020 ha disposto il differimento all’1.9.2021 dell’entrata in vigore del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza di cui al D. Lgs. 12.1.2019, n. 14 (“il “CCI”), originariamente prevista per il 15.8.2020 (decorsi cioè diciotto mesi dalla data di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale).
Nel quadro economico-finanziario che va delineandosi a causa dell’attuale emergenza epidemiologica, l’opportunità di disporre il rinvio integrale dell’entrata in vigore del CCI è giustificata, come si legge nella relazione accompagnatoria al decreto in commento, da tre ordini di motivazioni.
La prima si ravvede nella incompatibilità tra la straordinaria congiuntura economica a livello – addirittura – planetario con l’articolato impianto normativo delle misure di allerta previste dagli artt. 12 – 15 CCI. Tale disciplina rappresenta una tra le maggiori, e più attese, innovazioni del CCI, finalizzata ad offrire agli imprenditori – e agli organi amministrativi e di controllo dell’impresa – strumenti che li pongano in grado di rilevare tempestivamente la crisi e accedere, secondo necessità, a procedure stragiudiziali di composizione della stessa. Tali strumenti,finalizzati a una sollecita rilevazione dello stato di crisi e all’adozione delle misure più idonee alla sua composizione, sono individuati dall’art. 12 CCI negli obblighi di segnalazione posti a carico di alcuni soggetti qualificati e negli obblighi organizzativi posti a carico dell’imprenditore dal codice civile (v. art. 2086, comma 2, c.c.).
La sistematica degli strumenti di allerta è stata concepita dal legislatore della riforma nella prospettiva di un quadro economico stabile e caratterizzato da oscillazioni fisiologiche, all’interno del quale, dunque, il numero preponderante di imprese non sia colpito da crisi finanziaria. Va da sé che la recessione economica determinata dall’emergenza sanitaria si ritiene possa compromettere inevitabilmente, in un prossimo futuro, il regolare presentarsi degli indicatori di crisi, i quali non potrebbero svolgere alcun concreto ruolo selettivo, financo rischiando di essere controproducenti.
Sul punto, è doveroso comunque segnalare che il rinvio dell’entrata in vigore degli strumenti di allerta era stato anticipato, in prima battuta, dallo schema di decreto correttivo al CCI approvato dal Consiglio dei Ministri in data 13.2.2020, il quale contiene una previsione che differisce dal 15.8.2020 al 15.2.2021 l’operatività degli obblighi di segnalazione previsti dal CCI per le imprese più piccole (coincidenti, tendenzialmente, con quelle escluse dall’obbligo di dotarsi del collegio sindacale e dell’organo di revisione) e, successivamente, attuato da un altro provvedimento figlio della legislazione d’emergenza, ovverosia il D.L. n. 9/2020, recante “Misure urgenti di sostegno per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19”, che con l’art. 11 ha per l’appunto disposto, anticipando l’intervento correttivo, il differimento dell’operatività degli obblighi di segnalazione previsti agli artt. 14, co. 2, e 15 CCI al 15.2.2021 senza, peraltro, introdurre alcuna distinzione derivante dalla “dimensione” delle imprese destinatarie di detti obblighi.
La seconda ragione si fonda sull’incompatibilità dell’attuale situazione di crisi economica con l’obiettivo ispirante l’intero CCI, ovverosia favorire quanto più possibile la soluzione del salvataggio delle imprese e della continuità aziendale, rivestendo l’alternativa fallimentare (rectius, liquidatoria) il ruolo di extrema ratio da percorrere soltanto in assenza di alternative concrete. Risulta evidente che, in un ambito economico in cui potrebbe maturare una crisi degli investimenti e, in generale, delle risorse necessarie per procedere a ristrutturazioni delle imprese, il CCI finirebbe per non raggiungere gli obbiettivi per cui è stato pensato, così come delineati dalla legge delega n. 155/2017.
Il terzo motivo del differimento si collega all’esigenza, sentita dagli operatori ora come non mai, di certezza del diritto e di stabilità della normativa, che sarebbe stata minata dall’entrata in vigore – peraltro in pieno periodo feriale – di una disciplina in molti punti inedita e necessitante di una forte attività interpretativa, oltreché di un approccio innovativo.
Il differimento concede, inoltre, al legislatore maggior tempo per adeguare il CCI all’emananda normativa di attuazione della Direttiva (UE) 1023/2019 riguardante i quadri di ristrutturazione preventiva, l’esdebitazione e le interdizioni, nonché le misure volte ad aumentare l’efficacia delle procedure di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione.
Taluni commentatori hanno già salutato lo slittamento con favore, ritenendo una soluzione di buon senso quella attuata dal legislatore dell’emergenza che, congelando temporaneamente le novità della riforma, ha lasciato nelle mani degli interpreti strumenti giuridici ampiamente collaudati[1].
Peraltro, l’ingresso nel nostro ordinamento del CCI in assenza della strumentazione di allerta – che come visto sopra, era già stata preventivamente differita al 15 febbraio 2021 – avrebbe inevitabilmente depotenziato la portata innovativa della riforma.
Tuttavia, il rinvio non potrà rimanere esente da alcune riflessioni critiche. Ad esempio, si condividono le preoccupazioni sollevate da alcuni autori[2], secondo i quali il periodo transitorio – dilatatosi da 18 a 31 mesi – intercorrente tra la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del CCI (i.e. 14.1.2019) e la nuova data di entrata in vigore (i.e. 1.9.2021) sia ormai troppo lungo, tale da far perdere di valore le modifiche al codice civile in materia societaria, richiamate dall’art. 389, comma 2, CCI, già entrate in vigore e non oggetto di differimento.
Sorge, peraltro, negli interpreti il dubbio legittimo che, a colpi di rinvii, il CCI possa non entrare, perlomeno nella veste in cui lo conosciamo oggi, mai in vigore, anche in ragione del fatto che, come è plausibile aspettarsi, l’incertezza del quadro economico attuale – che come abbiamo visto è stata una delle ragioni del rinvio del CCI – si protrarrà sino alla prossima estate 2021, allorquando il CCI, rebus sic stantibus, entrerà in vigore.
A tal riguardo, la circolare del 15 aprile u.s. della Sezione II del Tribunale di Milano recante le “linee guida di comportamento” cui gli operatori della materia concorsuale sono invitati ad adeguarsi in questa fase emergenziale, offre interessanti spunti di riflessione. In particolare, si consideri quanto disposto in merito ai concordati preventivi: considerato che l’udienza di adunanza dei creditori presuppone un – perlomeno – potenziale assembramento di persone, la Fallimentare ha escluso di poterla tenere in forma de visu e dunque ha previsto che il voto debba esser manifestato per via telematica, anticipandone così implicitamente l’efficacia degli artt. 107 e ss. del CCI (che per l’appunto introduce l’innovazione dell’iter telematico sullo svolgimento delle operazioni di voto concordatarie).
3. La sospensione delle disposizioni in tema di riduzione del capitale e in materia di postergazione dei finanziamenti soci
L’art. 6 D.L. 23/2020 stabilisce che, a decorrere dal 9.4.2020 e fino al 31.12.2020, non si applicano le disposizioni in materia di riduzione del capitale sociale a causa di perdite di cui agli artt. 2446, commi 2 e 3, 2447, 2482, commi 4, 5 e 6, e 2482-ter c.c. Inoltre, nel corso del medesimo periodo non opera la causa di scioglimento della società per riduzione o perdita del capitale sociale di cui agli artt. 2484, comma 1, n. 4), e 2545-duodecies c.c.
La disposizione in commento non costituisce una vera e propria novità nel panorama giuridico italiano. Invero, già dal 2012, l’art. 182-sexies l. fall. ha previsto l’inapplicabilità delle disposizioni in tema di perdita del capitale sociale a partire dalla data di deposito, da parte del debitore, di un ricorso per l’accesso alla procedura di concordato preventivo (anche con riserva ai sensi dell’art. 161, comma 6, l. fall.), ovvero a una procedura di omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti ai sensi dell’art. 182-bis l. fall. (anche nel caso del particolare procedimento previsto dall’art. 182-bis, comma 6, l. fall.). Come nel caso dell’art. 182-sexies l. fall., restano però fermi gli obblighi previsti dagli artt. 2446, comma 1, e 2482-bis, commi 1, 2 e 3, c.c.: ne consegue che gli amministratori, in presenza di una perdita rilevante, saranno comunque tenuti a predisporre una situazione patrimoniale aggiornata dell’impresa e a sottoporla all’assemblea dei soci, senza che trovino però applicazione le disposizioni in tema di provvedimenti assembleari di ricapitalizzazione.
L’art. 6 del Decreto Liquidità estende, quindi, temporaneamente il principio già sancito dal richiamato art. 182-sexies l. fall. a tutte le società di capitali, a prescindere dalla circostanza che esse abbiano o meno deciso di accedere a una procedura di ristrutturazione del proprio indebitamento fondata sugli strumenti giuridici del concordato preventivo o dell’accordo di ristrutturazione dei debiti.
Fermo quanto precede, deve però rilevarsi che, proprio perché la norma in questione non collega più la sospensione delle disposizioni in tema di riduzione del capitale a causa di perdite al deposito di una domanda di concordato preventivo o di un ricorso per l’omologa di un accordo di ristrutturazione dei debiti, essa non comporta alcun affievolimento dei doveri previsti dalla legge a carico degli amministratori in presenza di situazioni di crisi o di insolvenza della società che essi amministrano. Pertanto, nonostante la predetta temporanea “sterilizzazione” delle disposizioni in tema di perdita del capitale sociale, gli amministratori dovranno comunque verificare tempestivamente se la società – anche a causa delle problematiche patrimoniali di cui sopra – versi o meno in una situazione di crisi o insolvenza e, in caso affermativo, dovranno comunque avviare le opportune procedure finalizzate a risolvere la suddetta situazione di crisi o insolvenza.
Da ultimo, si segnala che la disposizione si applica ratione temporis agli esercizi chiusi entro il 31.12.2020 e la Relazione Illustrativa al D.L. 23/2020 prevede che essa trovi applicazione in caso di “perdita del capitale dovuta alla crisi da Covid-19”, individuando così un nesso causale fra l’emergenza sanitaria e la crisi patrimoniale della società che nella disposizione di cui all’art. 6 non è espressamente contemplato.
L’art. 8 del D.L. 23/2020 prevede la sospensione temporanea fino al 31.12.2020 del meccanismo della postergazione ex lege del rimborso dei finanziamenti infragruppo, vale a dire quelli concessi alle società da parte dei soci (ai sensi dell’art. 2467 c.c.) ovvero da parte di chi esercita attività di direzione e coordinamento (ai sensi dell’art. 2497-quinquies c.c.), rispetto al soddisfacimento degli altri creditori. Con tale misura, pertanto, il legislatore ha inteso favorire l’accesso da parte delle società al credito, consentendo ai soci che effettuino tali finanziamenti di non essere più postergati rispetto agli altri creditori nel rimborso delle somme finanziate in un momento in cui il debitore era all’evidenza quantomeno in stato di crisi.
La disposizione in esame non ha alcun impatto sulle previsioni di cui all’art. 182-quater, comma 3, l. fall. che, alle condizioni e nella misura ivi previste, attribuiscono ai finanziamenti soci il rango di crediti prededucibili nei limiti dell’80%.
Ciò detto, la sospensione temporanea del meccanismo della postergazione ex lege non pare in ogni caso consentire ai soci, una volta concesso il finanziamento e quantomeno per la durata dell’emergenza sanitaria in corso, di richiederne e ottenerne la restituzione indipendentemente dalla valutazione delle condizioni economico/finanziarie della società: tale condotta, pur non violando espressamente le previsioni degli artt. 2467 e 2497-quinquies c.c., potrebbe invero assumere rilevanza sotto vari profili di responsabilità in caso di aggravamento della situazione finanziaria della società e conseguente sottoposizione a procedura concorsuale.
Infine, la sospensione del meccanismo di postergazione ex lege dei finanziamenti soci non sembra escludere la possibilità che i soci concordino, in via contrattuale, con la società stessa o con altri soggetti terzi (es. banche finanziatrici) la subordinazione dei finanziamenti erogati dai soci rispetto ai finanziamenti erogati da terzi qualificati (ad es., nel caso delle clausole cc.dd. di non-disturbance).
4. Le misure in tema di proroga dei termini di esecuzione dei piani di ristrutturazione e dei termini delle procedure in corso
L’art. 9 del D.L. 23/2020 detta una serie di misure indirizzate alle imprese che hanno già intrapreso percorsi di ristrutturazione basati sugli strumenti giuridici del concordato preventivo o dell’accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis l. fall. e i cui termini e condizioni (già omologati o, a seconda dei casi, ancora in corso di predisposizione) potrebbero subire un significativo pregiudizio a causa della crisi economica innescata dal Covid-19 e dalle conseguenti misure di confinamento[3].
La prima misura consiste nella proroga di diritto di 6 mesi dei termini di adempimento dei concordati preventivi e degli accordi di ristrutturazione già omologati scadenti fra il 23.2.2020 e il 31.12.2021 (art. 9, comma 1, D.L. 23/2020).
La disposizione si applica pacificamente ai soli concordati preventivi e accordi di ristrutturazione già omologati[4]. E’ stato in radice escluso qualsiasi intervento in favore delle imprese che abbiano avuto accesso allo strumento giuridico degli accordi in esecuzione di un piano di risanamento di cui all’art. 67, comma 3, lett. (d), l. fall. Non è la prima volta che il legislatore effettua una distinzione fra il concordato preventivo e l’accordo di ristrutturazione, da un lato, e il piano attestato di risanamento di cui all’art. 67, comma 3, lett. (d), l. fall. (si pensi, ad esempio, al caso già richiamato dell’art. 182-sexies l. fall.), dall’altro lato. Nel caso di specie, però, l’esclusione non trova alcuna spiegazione nella Relazione Illustrativa al D.L. 23/2020 e, a dire il vero, non sembra vi siano ragioni oggettive per giustificare tale disparità di trattamento, posto che – come vedremo – le esigenze cui la misura di cui all’art. 9, comma 1, D.L. 23/2020 cerca di dare una risposta sono comuni a tutte le imprese, quale che sia il percorso di ristrutturazione intrapreso, se non la circostanza per cui concordato e accordi di ristrutturazione sono strumenti che sono passati al vaglio dell’autorità giudiziaria, laddove il piano attestato resta una misura interna all’imprenditore su cui non è stato esercitato alcun controllo giudiziale.
Non è chiaro quale sia stato il criterio utilizzato dal legislatore per individuare il periodo temporale di applicazione della norma in questione. Con riguardo al termine iniziale (i.e. il 23.2.2020) la Relazione Illustrativa precisa che essa coincide con il momento del“palesarsi dell’emergenza epidemiologica determinata dal diffondersi del COVID-19”; tuttavia, resta poco chiaro per quale motivo altre disposizioni del D.L. 23/2020 (ad esempio l’art. 10 in materia di improcedibilità delle istanze di fallimento) prendano come punto di riferimento date diverse (ad esempio il 9.3.2020). Nessuna spiegazione è invece fornita con riguardo al termine finale di tale periodo temporale (31.12.2021), la cui determinazione pare quindi arbitraria[5].
La proroga stabilita dalla disposizione in commento si applica a tutti i termini (siano essi finali o intermedi) previsti dal piano di concordato (o di ristrutturazione) scadenti nel periodo di tempo ivi considerato e ciò in via automatica[6] (vale a dire che non v’è bisogno di alcun atto o provvedimento che la recepisca). Tenuto conto della durata della proroga in questione, sarebbe stato preferibile prevedere uno scrutinio del Tribunale sull’applicabilità o meno della proroga, e ciò al fine di verificare se l’emergenza sanitaria in corso abbia effettivamente avuto un impatto negativo sui piani di concordato (o di ristrutturazione) in corso. La scelta del legislatore rischia infatti di porre a carico dei creditori, per un periodo di tempo molto ampio, la ristrutturazione del proprio debitore e ciò in forza di un vero e proprio atto jure imperii non sottoposto ad alcun controllo.
La seconda misura prevista dall’art. 9 D.L. 23/2020 consiste nel diritto per il debitore, nei procedimenti di omologa dei concordati preventivi o di accordi di ristrutturazione dei debiti pendenti alla data del 23.2.2020, di depositare, fino all’udienza di omologa, un’istanza al Tribunale competente per la concessione di un nuovo termine, non superiore comunque a 90 giorni, per il deposito di un nuovo piano e di una nuova proposta di concordato o di un nuovo accordo di ristrutturazione. La norma precisa che il termine decorre dalla data del provvedimento del Tribunale e non è prorogabile, mentre l’istanza non è ammissibile se il concordato non sia stato approvato dai creditori con le maggioranze previste dall’art. 177 l. fall. (art. 9, comma 2, D.L. 23/2020).
Tale disposizione si presta ai seguenti commenti:
- il tenore letterale della disposizione fa riferimento ai “procedimenti per l’omologazione” e, pertanto, per quanto concerne la procedura di concordato preventivo, sembrerebbe applicarsi solo alle procedure in cui si sia già svolta l’adunanza dei creditori. Tuttavia, alcuni commentatori hanno osservato come tale interpretazione possa apparire di scarsa utilità atteso che non si comprenderebbe per quale motivo il debitore – dopo aver ottenuto il voto favorevole dei creditori – debba modificare il proprio piano di concordato e sottoporsi nuovamente al voto dei creditori invece di fare semplicemente ricorso alla misura (che verrà analizzata successivamente) di cui all’art. 9, comma 3, D.L. 23/2020 che gli consentirebbe di modificare solo i termini di adempimento del piano senza passare per un nuovo scrutinio dei creditori[7]. Sarebbe al riguardo auspicabile un intervento da parte del legislatore in sede di conversione del Decreto Liquidità, tenuto conto che, per altro verso, è altrettanto vero che l’art. 172, comma 2, l. fall. consente al debitore di modificare il piano di concordato fino a 15 giorni prima dell’adunanza dei creditori, sicché la norma di cui all’art. 9, comma 2, D.L. 23/2020 sembrerebbe rispondere all’esigenza di attribuire al debitore un diritto che, secondo le regole generali, non sarebbe più esercitabile;
- in secondo luogo, tenuto conto di quanto già detto sopra sub (i), con riferimento alla procedura di concordato preventivo, la disposizione in esa deroga pacificamente all’art. 172, comma 2, l. fall. (secondo cui le proposte di concordato concorrenti, ivi inclusa quella del debitore, possono essere modificati fino a 15 giorni prima dell’adunanza dei creditori)[8];
- in terzo luogo, poiché nella procedura di omologa degli accordi di ristrutturazione non è prevista alcuna udienza per l’omologa, non è possibile desumere in modo univoco quale possa essere il termine finale di presentazione dell’istanza di concessione del nuovo termine (a tal fine si potrebbe ipotizzare che tale termine coincida con lo spirare del termine previsto dall’art. 182-bis, comma 4, l. fall., atteso che, decorso tale termine, il Tribunale può decidere in camera di consiglio sull’omologa)[9];
- ove si acceda all’interpretazione estensiva adottata da alcuni commentatori e indicata sub (i), resta da comprendere quale potrebbe essere il termine iniziale di presentazione dell’istanza di proroga. Orbene:
– con riferimento al procedimento di omologa degli accordi di ristrutturazione, parrebbe ragionevole ritenere che esso coincida con la data di deposito del ricorso per l’omologa dell’accordo o – se successiva – con la data di iscrizione dell’accordo nel competente registro delle imprese;
– con riferimento al concordato preventivo, sembrerebbe ragionevole ritenere da un lato, che, per formulare tale istanza, il debitore debba già avere depositato un piano (il che porta a escludere l’ammissibilità dell’istanza nella fase di concordato preventivo con riserva) e, dall’altro, che la procedura di concordato possa essere considerata pendente e che, pertanto, il debitore debba essere già stato ammesso alla procedura di concordato[10]; - pare indubbio che il nuovo piano debba essere accompagnato da una nuova relazione di attestazione e che il deposito di tale piano comporti la necessità di una nuova votazione da parte dei creditori;
- da ultimo, nel silenzio della norma, si ritiene che il Tribunale possa assegnare un termine più breve dei 90 giorni indicati nella norma, mentre non pare rispondere all’obiettivo della disposizione in commento l’attribuzione al Tribunale del potere di respingere l’istanza del debitore[11].
Con la terza misura si attribuisce al debitore, che intenda unicamente modificare i termini di adempimento indicati nel piano di concordato o nel piano di ristrutturazione, il diritto di depositare sino all’udienza di omologa una memoria che contenga l’indicazione dei nuovi termini e le ragioni a supporto di tale richiesta, restando comunque inteso che il differimento dei termini non potrà essere superiore di 6 mesi rispetto alle scadenze originarie. Si prevede, inoltre, che il Tribunale competente (acquisito, nella procedura di concordato preventivo, il parere del Commissario Giudiziale) riscontrata la presenza dei requisiti di legge, omologhi il concordato o l’accordo di ristrutturazione dando atto delle nuove scadenze (art. 9, comma 3, D. L. 23/2020).
Anche questa misura sembra trovare applicazione ai procedimenti (di concordato preventivo o per l’omologa di accordi di ristrutturazione) pendenti alla data del 23.2.2020, ma, a differenza di quanto previsto nell’art. 9, comma 2, D.L. 23/2020, essa sembra applicabile solo al caso in cui il debitore intenda presentare (non un nuovo piano, bensì) una mera modifica dei termini di adempimento della proposta previsti nel piano ancora oggetto del procedimento.
Al riguardo, circa i tempi di presentazione di tale richiesta vale in gran parte quanto già detto con riferimento all’art. 9, comma 2, D.L. 23/2020. La norma in esame non sembra però richiedere che, ove si sia già svolta l’adunanza dei creditori, questi debbano essere nuovamente chiamati a votare, atteso che si prevede una valutazione diretta da parte del Tribunale (acquisito il parere del Commissario Giudiziale), il cui giudizio dovrà essere poi espresso nel provvedimento di omologa. Ciò significa, in altri termini, che i creditori subiranno passivamente la richiesta di proroga dei termini del debitore.
L’ultima misura prevista dall’art. 9 del D.L. 23/2020 è rappresentata dal diritto per debitore che abbia presentato una domanda di concordato con riserva il cui termine sia già stato prorogato dal Tribunale competente, di beneficiare di una nuova proroga di massimi ulteriori 90 giorni (anche nel caso in cui sia stato depositato un ricorso per la dichiarazione di fallimento) a condizione che depositi una memoria volta a dimostrare che la proroga è richiesta a fatti sopravvenuti dovuti all’emergenza sanitaria legata al Covid-19 e fermo restando che spetterà al Tribunale valutare la sussistenza di tali giustificati motivi a sostegno della proroga (art. 9, comma 4, D.L. 23/2020).
L’ambito di applicazione soggettivo è quindi limitato ai debitori il cui termine per il deposito del piano di concordato sia già stato prorogato e che, pertanto, non possano beneficiare di alcuna ulteriore proroga[12]. In tal caso, però, è stato ragionevolmente previsto un controllo da parte del Tribunale volto a verificare che, effettivamente, l’ulteriore proroga sia dovuta all’emergenza sanitaria legata al Covid-19.
Il medesimo diritto è poi attribuito al debitore che abbia ottenuto il termine ex art. 182-bis, comma 7, l. fall. per il deposito del ricorso per l’omologa dell’accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis, comma 1, l. fall. In questo caso, la norma non richiede che il termine sia già stato prorogato, circostanza questa singolare, tenuto conto che la prassi dei Tribunali è nel senso di ritenere che anche il termine ex art. 182-bis, comma 7, l. fall. possa essere prorogato, in analogia con quanto previsto dall’art. 161, comma 6, l. fall.
5. L’improcedibilità delle istanze di fallimento
L’art. 10, comma 1, del Decreto Liquidità ha dispostol’improcedibilità di tutti i ricorsi volti alla dichiarazione di fallimento e dello stato di insolvenza, ai sensi degli artt. 15 e 165 l. fall. e 3 D. Lgs. n. 270/1999, depositati nel periodo tra il 9.3.2020 e il 30.6.2020. Il blocco si estende a tutte le ipotesi di ricorso e, dunque, anche ai ricorsi presentati dagli imprenditori in proprio[13].
Si tratta, evidentemente, di una misura eccezionale e temporanea giustificata in primis dalla difficoltà di distinguere le situazioni in cui lo stato di insolvenza è determinato – quantomeno in misura preponderante – dall’emergenza epidemiologica in corso, e ciò sebbene nel nostro ordinamento sia consolidato il principio della c.d. “rilevanza oggettiva” dello stato di insolvenza[14], con la conseguente irrilevanza del fallimento “incolpevole” dovuto a cause di forza maggiore non addebitabili all’imprenditore[15].
Il legislatore d’urgenza ha optato, dunque, per una previsione generale di improcedibilità delle istanze che coinvolgono imprese soggette al fallimento, alla liquidazione coatta amministrativa o all’amministrazione straordinaria, di dimensioni tali da non rientrare nell’ambito di applicazione del D.L. n. 347/2003 (c.d. “Legge Marzano”). Non è ben chiara la ratio sottostante a tale ultima scelta, ovverosia quella di ammettere la procedura di amministrazione straordinaria soltanto perle “grandissime” imprese in stato di insolvenza, ricadenti nell’ambito di applicazione della Legge Marzano, e non anche per le “grandi” imprese in stato di insolvenza.
L’improcedibilità, come si legge nella relazione accompagnatoria al Decreto Liquidità, è ispirata da un duplice ordine di finalità: (i) da un lato, evitare di sottoporre il ceto imprenditoriale alla pressione crescente delle istanze di fallimento di terzi e sottrarre gli stessi imprenditori alla scelta di presentare istanza di fallimento in proprio in un quadro economico distorto, nel quale lo stato di insolvenza può non derivare da circostanze interne all’impresa; e (ii) dall’altro lato, evitare l’ingolfamento dei tribunali fallimentari in una situazione in cui gli uffici giudiziari si trovano in fortissime difficoltà di funzionamento.
L’unica eccezione è limitata ai ricorsi presentati dal P.M. che contengano la richiesta di emissione dei provvedimenti cautelari o conservativi a tutela del patrimonio o dell’impresa ex art. 15, co. 8, l. fall., al fine di non avvantaggiare eventuali condotte dissipative del patrimonio aziendale a detrimento del ceto creditorio.
Il comma 3 dell’art. 10 del Decreto Liquidità prevede, infine, la sterilizzazione del periodo di “sospensione eccezionale” ai fini del calcolo dei termini stabiliti dall’articolo 69-bis l. fall. per la proposizione delle azioni revocatorie quando alla dichiarazione di improcedibilità faccia seguito il fallimento, sì da evitare che tale sospensione venga a riverberarsi in senso negativo sulle forme di tutela della par condicio creditorum. Al fine di evitare la presentazione di istanze nei confronti delle imprese cancellate, il comma 3 prevede la sterilizzazione del periodo di sospensione altresì ai fini del calcolo dell’anno decorrente dalla cancellazione dal registro delle imprese. La norma soffre di una formulazione poco felice: è difatti evidente che, in tali ipotesi, la dichiarazione di fallimento non potrà che conseguire a istanze procedibili o perché presentate dal P.M. e accompagnate dalla richiesta dell’emissione di provvedimenti cautelari e conservativi, o perché presentate al termine del periodo di sospensione. Dunque, la consecuzione tra la dichiarazione di improcedibilità e il fallimento deve probabilmente essere interpretata come un mero susseguirsi di eventi sul piano temporale, quando cioè a una dichiarazione di improcedibilità di un’istanza con cui si chiede la dichiarazione dello stato di insolvenza di un’impresa segua, in dipendenza di un procedimento di accertamento validamente istituito, il fallimento della stessa.
La previsione di una improcedibilità “assoluta” si riverbera inoltre, con effetto retroattivo, sulle istanze presentate prima della pubblicazione del Decreto Liquidità, quando cioè l’istante non aveva la possibilità di conoscere (o prevedere) la causa di improcedibilità (ma, a quanto pare, tutto è concesso al legislatore d’urgenza). In assenza di strumenti giuridici di opposizione alla dichiarazione di improcedibilità, non vi è modo di far salvi, al termine del periodo di sospensione, gli effetti del procedimento (definitivamente) interrotto dall’improcedibilità ex art. 10, Decreto Liquidità: il creditore istante dovrà dunque ripresentare – sostenendone nuovamente i costi – l’istanza di fallimento caduta sotto la scure della dichiarazione di improcedibilità. Appare, invero, difficile poter sostenere che l’istanza di fallimento presentata nel periodo di sospensione possa essere considerata “latente” ed essere esaminata a partire dall’1 luglio 2020[16], se non – come adombrato da autorevole dottrina – al prezzo di una forzatura del lessico adoperato dal legislatore, che accosti l’improcedibilità ex art. 10 Decreto Liquidità a quella tipica del procedimento di mediazione previsto dal D.lgs. 28/2010.
Il “blocco” disposto dal comma 1 dell’art. 10 del Decreto Liquidità ha, come detto, una valenza solo temporanea: vale a dire che, una volta scaduto il periodo di sospensione, le istanze per la dichiarazione dello stato di insolvenza potranno essere nuovamente presentate. Se, da un lato, la previsione ha l’effetto immediato di evitare il sovraccarico dei tribunali e sottrarre le imprese alla minaccia di istanze di fallimento cui si ricollegherebbe il pericolo di dispersione del patrimonio produttivo senza alcun corrispondente vantaggio per i creditori, dall’altro lato la soluzione adottata dal legislatore non appare idonea, da sola, a garantire il dichiarato obiettivo della decretazione d’urgenza di offrire misure normative a sostegno del sistema produttivo nazionale. Invero,in un secondo momento i tribunali si troveranno inesorabilmente a dover verificare stati di dissesto determinati, o comunque aggravati[17], dall’emergenza sanitaria senza poter fare altro, in assenza di alternative concretamente attivabili, che dichiarare l’insolvenza, con tutte le conseguenze annesse e connesse. Sarà forse questo il vero banco di prova delle altre misure adottate dal Decreto Liquidità al fine di garantire alle imprese la liquidità necessaria per far fronte alla crisi economica determinata dall’emergenza sanitaria e dalle misure restrittive adottate in risposta alla stessa.
6. Le norme in materia di liquidità alle imprese
Il Decreto Liquidità prevede inoltre la concessione nel corso del 2020 (da parte di SACE o di Cassa Depositi e Prestiti, con controgaranzia dello Stato) di garanzie per finanziamenti alle imprese italiane colpite dall’emergenza sanitaria.
L’iniziativa nasce dalla constatazione che l’epidemia Covid 19, le misure adottate per fronteggiarla e l’incertezza sulla durata e sulle future evoluzioni della crisi hanno pesantemente inciso sulle attività e le condizioni economico-finanziarie delle imprese e reso più difficile e comunque più oneroso il ricorso al credito. Una vera e propria situazione di “fallimento di mercato”, che rende necessario (da noi come già in altre giurisdizioni) un intervento statale, per evitare l’insolvenza di imprese sane con grave danno per l’economia e l’occupazione.
Le previsioni del Decreto Liquidità vanno lette, per quanto riguarda le garanzie offerte da SACE, anche alla luce dei recentissimi accordi intervenuti tra la SACE stessa e l’ABI per il loro rilascio.
L’intervento di SACE prenderà la forma di garanzie parziali a prima domanda su singoli finanziamenti concessi, in qualsiasi forma tecnica e dopo l’entrata in vigore del decreto, a imprese italiane (diverse dalle banche e da altri soggetti autorizzati all’esercizio del credito), che presentino determinate caratteristiche e che siano state colpite dall’epidemia Covid 19.
A erogare i finanziamenti assistiti dalla garanzia SACE possono essere “banche, istituzioni finanziarie nazionali e internazionali e altri soggetti abilitati alla concessione del credito in Italia”: questo sembra allargare il novero dei possibili canali di finanziamento anche a soggetti ulteriori rispetto alle banche e intermediari finanziari (e così e.g. fondi o società per la cartolarizzazione dei crediti), così confermando un trend di apertura a questi operatori in atto da diversi anni.
Per ricevere i finanziamenti, l’impresa deve avere sede in Italia, deve essere stata colpita dall’epidemia Covid 19 e presentare entrambi i seguenti requisiti: (a) al 31 dicembre 2019, non rientrare nella categoria delle imprese in difficoltà ai sensi del Regolamento (UE) 651/2014 della Commissione, del 17 giugno 2014, del Regolamento (UE) 702/2014 del 25 giugno 2014 e del Regolamento (UE) 1388/2014 del 16 dicembre 2014, e (b) al 29 febbraio 2020 non risultare presente tra le esposizioni deteriorate presso il sistema bancario, come definite ai sensi della normativa europea. Questi ultimi due requisiti sono stati inseriti per indirizzare la misura verso imprese che non fossero già in difficoltà prima de (e a prescindere da) la crisi[18].
Invertendo la tendenza alla separazione di iniziative che sembrava essere stata intrapresa con il Decreto “Cura Italia”, l’intervento è aperto sia alla piccola e media impresa[19], sia alla grande impresa. Peraltro:
- per quanto riguarda la piccola e media impresa: (i) viene riservato alla stessa almeno il 15% delle risorse disponibili[20], ma (ii) si richiede che l’impresa abbia prima già pienamente utilizzato la propria capacità di accesso al fondo di cui all’art. 2, comma 100, lettera (a), l. 662/1996 (la cui operatività è stata potenziata dal precedente decreto “Cura Italia”); mentre
- per quanto riguarda le imprese con più di un certo fatturato o numero di dipendenti, è prevista una istruttoria più strutturata che tenga tra l’altro conto del ruolo che l’impresa svolge in Italia in termini di contributo allo sviluppo tecnologico, appartenenza alla rete logistica e dei rifornimenti, incidenza su infrastrutture critiche e strategiche, impatto sui livelli occupazionali e mercato del lavoro e peso specifico nell’ambito di una filiera produttiva strategica.
Con riguardo alle dimensioni e alle condizioni economiche del finanziamento, il Decreto Liquidità e gli accordi intervenuti tra la SACE e l’ABI prevedono che:
- i finanziamenti abbiano, per l’impresa beneficiaria (o, in caso di impresa appartenente a un gruppo, del gruppo su base consolidata)[21], un importo non superiore al maggiore tra: (1) il 25% del fatturato annuo in Italia per il 2019; e (2) il 200% dei costi del personale in Italia relativi al 2019[22];
- i finanziamenti abbiano durata non superiore a 6 anni, con possibilità di beneficiare di preammortamento sino a 24 mesi;
- i finanziamenti debbano: (1) essere erogati in un’unica soluzione, entro il 31 dicembre 2020 e comunque entro un determinato termine dalla concessione della garanzia (30 o 45 giorni, a seconda delle dimensioni dell’impresa richiedente); e (2) rimborsati (dopo l’eventuale periodo di preammortamento) tramite rate trimestrali a quota capitale costante; e
- l’impresa debba pagare una commissione annua gradualmente crescente per il rilascio della garanzia[23], ma, per il resto: (1) le commissioni del finanziatore siano limitate al recupero dei costi; e (2) il costo dei finanziamenti sia inferiore a quello che sarebbe stato applicato per operazioni con le medesime caratteristiche ma prive della garanzia[24].
La previsione di un’erogazione poco dopo la concessione della garanzia e in un’unica soluzione sembra indirizzare l’intervento verso la gestione di necessità immediate di cassa delle imprese richiedenti, più che verso la creazione di spazi di liquidità per la gestione di bisogni futuri. Il graduale aumento delle commissioni dovrebbe per contro spingere le imprese che ne abbiano la possibilità (anche a seguito di un auspicato graduale ritorno alla normalità dopo la fase più acuta dell’emergenza sanitaria in atto) a rimborsare il finanziamento in tempi più brevi dei massimo sei anni previsti.
Si prevedono inoltre i seguenti impegni a carico dell’impresa finanziata: (a) il finanziamento garantito deve essere destinato a sostenere costi del personale, investimenti o capitale circolante impiegati in stabilimenti produttivi e attività imprenditoriali localizzate in Italia; (b) l’impresa deve assumere l’impegno (per se e per ogni altra impresa del gruppo con sede in Italia) di non approvare o procedere alla distribuzione di dividendi o al riacquisto di azioni nel corso del 2020 a decorrere dal 9 aprile 2020; e (c) l’impresa deve assumere l’impegno di gestire i livelli occupazionali attraverso accordi sindacali. In caso di violazione di tali impegni, la garanzia SACE rimane (come logico) valida e efficace, mentre l’impresa perde il beneficio economico legato all’intervento statale: in particolare, è previsto che il finanziatore ricalcoli, su indicazione di SACE e con decorrenza dalla data di erogazione del finanziamento stesso, l’importo del corrispettivo annuale del finanziamento adeguandolo alle condizioni di mercato e versi la differenza a SACE (dopo averla recuperata dall’impresa). Ci si è chiesti se il divieto di approvazione e distribuzione di dividendi e di riacquisto di azioni si applichi anche al rimborso di finanziamenti infragruppo, più o meno subordinati. Una lettura letterale della norma potrebbe portare a escluderlo, ma non possono essere escluse interpretazioni estensive volte a colpire comportamenti visti come elusivi: sul punto sarà quindi consigliabile muoversi con prudenza.
Il Decreto prevede infine che:
- la garanzia copra solo parte del credito[25], con concorso paritetico e proporzionale tra garante e garantito nelle perdite per mancato rimborso del finanziamento; e
- l’esposizione complessiva del finanziatore verso l’impresa dopo il rilascio del finanziamento garantito debba essere superiore rispetto alla data di entrata in vigore del decreto (salve le riduzioni delle esposizioni intervenute tra le due date in conseguenza del regolamento contrattuale stabilito tra le parti prima dell’entrata in vigore del decreto).
La portata di queste norme sembra essere stata intesa in modo particolarmente rigoroso dalla SACE, tanto che: (i) il recentissimo manuale operativo pubblicato dalla stessa il 20 aprile 2020 specifica espressamente che non sono ammesse all’intervento operazioni di rifinanziamento né i proventi del finanziamento possono esser utilizzati per acquisizione di partecipazioni sociali, e (ii) le condizioni generali per la concessione della garanzia aggiungono un ulteriore obbligo per il finanziatore a “non procedere a riduzioni delle esposizioni nei confronti dell’Impresa Beneficiaria, fatte salve le riduzioni intervenute in conseguenza del regolamento contrattuale stabilito tra le parti o per decisione autonoma dell’Impresa Beneficiaria, nei 12 (dodici) mesi successivi all’avvenuta erogazione ai sensi del Contratto di Finanziamento assistito dalla Garanzia SACE”. In questo modo, le previsioni, oltre a mirare ad assicurare un allineamento di interessi tra banca finanziatrice e garante pubblico, sembrano ancora una volta indirizzare l’intervento esclusivamente verso nuove e addizionali necessità delle imprese.
Sotto altri due profili che hanno fatto discutere in altre giurisdizioni:
- il Decreto Liquidità permette al finanziatore di richiedere garanzie ulteriori rispetto alla garanzia SACE; le condizioni generali per la concessione della garanzia specificano però che deve trattarsi di garanzie generali per l’intero finanziamento (e di cui quindi benefici anche SACE indirettamente) e non riferite alla sola quota di finanziamento non garantita da SACE; e
- è ammesso il trasferimento del beneficio della garanzia SACE, purché assieme ai crediti inerenti il finanziamento garantito e “in favore di (i) banche, istituzioni finanziarie nazionali e internazionali, altri soggetti abilitati all’esercizio del credito in Italia, aventi sede in paesi non sanzionati e non ad alto rischio riciclaggio e finanziamento del terrorismo e che abbiano aderito alle presenti Condizioni Generali ai sensi del successivo Articolo 13 (Modalità di adesione alle Condizioni Generali) nonché (ii) Banche Centrali e Banca Europea per gli Investimenti” e a condizione che delle suddette cessioni sia data comunicazione a SACE. Non è chiarissimo quanto questa previsione permetterà (o sarà di ostacolo) alla successiva cartolarizzazione dei crediti derivanti da questi finanziamenti e questa resta una preoccupante area grigia, considerata la crescente importanza che questa tecnica finanziaria ha per le banche.
Va infine segnalato che con decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze potranno essere in futuro disciplinate ulteriori modalità attuative e operative ed eventuali elementi e requisiti integrativi.
L’intervento della Cassa Depositi e Prestiti prenderà per contro la forma di una garanzia (anche nella forma di garanzia prima perdita) su portafogli di finanziamenti concessi, in qualsiasi forma, da banche e da altri soggetti abilitati all’esercizio del credito in Italia alle imprese con sede in Italia che abbiano sofferto una riduzione del fatturato a causa della emergenza sanitaria e che prevedano modalità tali da assicurare la concessione da parte dei soggetti finanziatori di nuovi finanziamenti in funzione dell’ammontare del capitale regolamentare liberato per effetto delle garanzie stesse.
[1] Ambrosini, La “falsa partenza” del codice della crisi, le novità del decreto liquidità e il tema dell’insolvenza incolpevole, in www.ilcaso.it; v. anche Irrera – Fregonara, La crisi d’impresa e la continuità aziendale ai tempi del coronavirus, in www.ilcaso.it; cfr. Panzani-Corno, I prevedibili effetti del coronavirus sulla disciplina delle procedure concorsuali, in www.ilcaso.it.
[2] Colnaghi, Il CCII entrerà in vigore il 1° settembre 2021, salvo quanto previsto dal secondo comma dell’art. 389: riflessioni a margine, in www.ilfallimentarista.it.
[3] Per un primo commento a tale disposizione, si veda Irrera – Fregonara, La crisi d’impresa e la continuità aziendale ai tempi del coronavirus, cit.; De Filippis, L’esecuzione del concordato preventivo ai tempi del coronavirus, in www.ilcaso.it; Lamanna, Le misure temporanee previste dal Decreto Liquidità per i concordati preventivi e gli accordi di ristrutturazione, in www.ilfallimentarista.it; Ambrosini, La “falsa partenza” del codice della crisi, le novità del decreto liquidità e il tema dell’insolvenza incolpevole, cit…
[4] In tal senso, Ambrosini, La “falsa partenza” del codice della crisi, le novità del decreto liquidità e il tema dell’insolvenza incolpevole, cit., il quale precisa che il comma in commento “riguardaquindi la fase esecutiva del concordato o dell’accordo, rispetto alla quale essa ha sicuramente l’effetto di ridurre i rischi di risoluzione dell’uno e dell’altro”.
[5] In tal senso, Lamanna, Le misure temporanee previste dal Decreto Liquidità per i concordati preventivi e gli accordi di ristrutturazione, cit..
[6] Sul punto la dottrina citata è unanime.
[7] Così Irrera – Fregonara, La crisi d’impresa e la continuità aziendale ai tempi del coronavirus, cit. , p. 8.
[8] In tal senso, Lamanna, Le misure temporanee previste dal Decreto Liquidità per i concordati preventivi e gli accordi di ristrutturazione, cit..
[9] In tal senso, Lamanna, Le misure temporanee previste dal Decreto Liquidità per i concordati preventivi e gli accordi di ristrutturazione, cit.; Irrera – Fregonara, La crisi d’impresa e la continuità aziendale ai tempi del coronavirus, cit., p. 9.
[10] In tal senso, Lamanna, Le misure temporanee previste dal Decreto Liquidità per i concordati preventivi e gli accordi di ristrutturazione, cit..
[11] In tal senso, Lamanna, Le misure temporanee previste dal Decreto Liquidità per i concordati preventivi e gli accordi di ristrutturazione, cit.. In senso parzialmente contrario, Ambrosini, La “falsa partenza” del codice della crisi, le novità del decreto liquidità e il tema dell’insolvenza incolpevole, cit., il quale evidenzia che il meccanismo in questione “noncontempla alcuna valutazione da parte del Tribunale, che è quindi tenuto a concedere il termine richiesto, salvo il caso di cui si diceva, di inammissibilità dell’istanza”.
[12] La norma non sembra, dunque, applicarsi ai procedimenti di concordato preventivo prenotativo appena avviati, per i quali non sia ancora scaduto il termine inizialmente concesso dal tribunale per il deposito della proposta concordataria o dell’accordo di ristrutturazione. Vero è, però, che il debitore che si trovi in questa fase della procedura usufruisce automaticamente della “sospensione feriale eccezionale” a decorrere dal 9.3.2020, inizialmente prevista fino al 22.3.2020 dall’art. 1, comma 2, del D.L. 8.3.2020, n. 11, e poi prorogata per ben due volte dal D.L. 17.3.2020, n. 18, e da ultimo dal D.L. 8.4.2020, n. 20, fino alla data dell’11 maggio 2020 (per un totale, quindi, di 64 giorni).
[13] Sul punto diversi autori non hanno mancato di rilevare come la misura vada a negare all’imprenditore il c.d. “diritto a fallire”. V. Irrera – Fregonara, La crisi d’impresa e la continuità aziendale ai tempi del coronavirus, eGalletti,Il diritto della crisi sospeso e la legislazione concorsuale in tempo di guerra, inwww.ilfallimentarista.it.
[14] Cfr. Ambrosini, La “falsa partenza” del codice della crisi, le novità del decreto liquidità e il tema dell’insolvenza incolpevole, cit.
[15] Sul punto, cfr. Limitone, La forza maggiore nel giudizio sull’insolvenza, in www.ilcaso.it. L’A. auspica l’introduzione, nell’art. 5 l. fall., di una ipotesi di esclusione della dichiarazione di fallimento nei casi in cui l’inadempimento alle proprie obbligazioni sia stato determinato da causa di forza maggiore o da elementi che, in quanto straordinari e imprevedibili, determinino una oggettiva incapacità di provvedere.
[16] Ambrosini, ibidem.
[17] Aggravamento che, come correttamente rileva Ambrosini (cit.), stante la sterilizzazione delle istanze in proprio non potrà, per il periodo in questione, essere addebitabile all’imprenditore.
[18] Questa preoccupazione è comune a molte giurisdizioni e regole analoghe sono state introdotte e.g. in Francia, Germania e Gran Bretagna.
[19] Tra queste, il decreto include espressamente i lavoratori autonomi e i liberi professionisti titolari di partita IVA.
[20] Almeno trenta dei duecento miliardi disponibili.
[21] Ulteriori regole sono dettate per il caso in cui l’impresa o il gruppo beneficino di più finanziamenti o altre garanzie pubbliche.
[22] Nel caso di imprese che abbiano iniziato la propria attività nel corso del 2019 si fa riferimento ai costi del personale attesi per i primi due anni di attività, come documentato e attestato dal rappresentante legale dell’impresa.
[23] La commissione è inizialmente fissata a 25 punti base per le piccole medie imprese e a 50 punti base per le altre imprese, ma destinata a raddoppiare dopo la fine del primo anno e poi ancora dopo la fine del terzo anno del finanziamento.
[24] Tale minor costo deve essere almeno pari alla differenza tra il costo che sarebbe stato richiesto dal finanziatore per operazioni con le medesime caratteristiche ma prive della garanzia ed il costo effettivamente applicato all’impresa.
[25] Il 90% dell’importo del finanziamento per imprese con meno di 5.000 dipendenti in Italia e valore del fatturato fino a 1,5 miliardi di Euro, l’80% dell’importo del finanziamento per imprese con valore del fatturato tra 1,5 miliardi e 5 miliardi di Euro o più di 5.000 dipendenti in Italia, ovvero il 70% dell’importo del finanziamento per imprese con valore del fatturato superiore a 5 miliardi di Euro. Nel caso di imprese appartenenti a gruppi, si fa riferimento ai valori consolidati di gruppo. Le percentuali si applicano sull’importo residuo dovuto, in caso di ammortamento progressivo del finanziamento.