1. Sono entrate nel vivo le audizioni presso le Commissioni Finanza di Camera e Senato, nell’ambito dell’indagine conoscitiva per la riforma dell’imposta sul reddito delle persone fisiche. L’indagine, che dovrebbe concludersi per maggio, fornirà al Parlamento un quadro dei problemi dell’imposizione reddituale, in vista dell’annunciata riforma – secondo il motto einaudiano “conoscere per deliberare” (calendario e relazioni disponibili sul sito della Camera; v. pure Trovati, Fisco, in tre mesi dalle Camere una proposta bipartisan, in Il Sole 24 Ore, 11 febbraio 2021, p. 5).
I precedenti storici contano: anche la legge delega 825/1971, che preparò la grande riforma, era stata preceduta dagli studi di una commissione formata da esperti della materia (cfr. Stato dei lavori della Commissione per lo studio della riforma tributaria, Milano, 1964, per dettagli).
Questi interventi – di varia provenienza: accademia, istituzioni e parti sociali – dicono molto di come potrà cambiare il nostro sistema tributario, il cui ridisegno è fortemente condizionato dalla struttura dell’imposta reddituale, che è uno dei suoi assi portanti.
2. Come sottolineano gli esperti, tema centrale è la definizione della base imponibile (v. le audizioni di Stevanato, Liberati, Arachi, CNEL). Si tratta di decidere quale modello ideale perseguire: duale, che prevede la tassazione proporzionale dei redditi di fonte patrimoniale (finanziari e immobiliari) e progressiva dei redditi da attività, con trattamenti “misti” per i redditi provenienti sia da capitale sia da attività; onnicomprensivo, con imposizione progressiva di tutti i redditi, inclusi quelli finanziari, oggi tassati in via sostitutiva con aliquote proporzionali e non sempre omogenee.
Il primo modello richiederebbe interventi per lo più di riordino e coordinamento, essendo in gran parte già riflesso nel sistema vigente: si tratterebbe di razionalizzare la divisione tra redditi da attività e da capitale, collocando i primi nell’imposizione progressiva ed i secondi in quella proporzionale; allineare le aliquote dei regimi sostitutivi per i redditi finanziari ed immobiliari, coordinandole con quelle progressive (e tenendo conto dell’inflazione); inserire minimi esenti e forme di riconoscimento dei costi di produzione e delle imposte estere (oggi non detraibili dalle imposte sostitutive).
Il secondo modello pone invece al Parlamento scelte più difficili: su tutte, se includere nella base imponibile, tassata con aliquote progressive e in base a dichiarazione del contribuente, i redditi finanziari, già dal 1971 soggetti a tassazioni sostitutive di stampo proporzionale. Non è solo una questione di principio, come intuiva Cesare Cosciani che, in disaccordo sul punto, lasciò il Comitato ministeriale per l’attuazione della riforma tributaria: la progressività del sistema tributario, che dipende largamente dall’imposta reddituale, e con essa l’eguaglianza nell’imposizione, non possono realizzarsi compiutamente su di una base imponibile parziale.
Nonostante alcune non marginali voci favorevoli, specie tra gli economisti (Piketty e Bises), gli esperti per lo più escludono la tassazione progressiva dei redditi finanziari, per comprensibili timori di fughe di capitali, innescate dall’incremento del prelievo ma che bisognerebbe quantificare, e per le conseguenti difficoltà di accertamento, di fatto impraticabile senza intermediari. È dubbio che il pur notevole progresso dello scambio di informazioni tra amministrazioni finanziarie di diversi Paesi consenta accertamenti efficaci, una volta eliminati gli intermediari (Stevanato, Visco, Banca d’Italia, Guardia di Finanza e CNEL; meno scettico, ma comunque contrario, Arachi; favorevoli Liberati, per cui la progressività sui redditi finanziari sarebbe possibile, se più contenuta, e Agenzia delle Entrate). L’esigenza di equità, che presuppone la progressività, cede insomma di fronte alla (preziosa) semplificazione ed al contrasto all’evasione, che la tassazione tramite intermediari soddisfa.
Si potrebbe però discutere se i redditi finanziari non meritino effettivamente un trattamento a parte, che ne rispecchi le peculiarità strutturali e la maggiore capacità contributiva rispetto ai redditi di lavoro. È il nodo della discriminazione qualitativa dei redditi, che discende dal principio di capacità contributiva ma che l’attuale sistema secondo molti non rispetta, perché tratta più favorevolmente i redditi finanziari (cenni nell’audizione di Stevanato).
3. Ritorna, in alcune relazioni, l’idea di tassare i redditi finanziari nel periodo di maturazione e prevedere correttivi per compensare lo svantaggio che quel criterio arreca rispetto al rinvio della tassazione alla percezione (CNEL, Banca d’Italia, Muratori, Guerra; anche Oecd (2018), Taxation of Household Savings, Oecd Tax Policy Studies No. 25, Oecd Publishing, Paris, p. 184). Si prospetta la tassazione alla maturazione anche delle plusvalenze su partecipazioni societarie, che riflettono redditi prodotti (o producibili) e tassati (o tassabili) sulla società, ma non realizzati dal socio (Liberati).
L’argomento è antico presso gli economisti e riecheggia l’idea che un’imposta reddituale a base onnicomprensiva dovrebbe colpire anche gli incrementi patrimoniali solo maturati. Ma – anche a sottoporre questi incrementi all’imposta reddituale, come si è scelto di fare – il principio costituzionale di capacità contributiva impedisce di tassare ricchezze non effettive, salve esigenze di precisione e simmetria, che qui non ricorrono (come dimostra l’infelice esperienza dell’equalizzatore). Tanto è vero che pure il reddito d’impresa, che abbandona il criterio di cassa, resta comunque ancorato alla maturazione giuridica del diritto di credito (v. Lupi [1]). E l’unico regime che oggi prevede la tassazione alla maturazione dei redditi finanziari – il risparmio gestito, regolato dall’art. 7, d.lgs. 461/97 – è opzionale; come opzionale è l’imposta sostitutiva per le rivalutazioni di partecipazioni e terreni, che colpisce, di regola, anch’essa plusvalori non ancora realizzati. La volontarietà dell’opzione fa presumere che il contribuente disponga dei mezzi per far fronte ad un’imposta su redditi non percepiti e consente di superare altrimenti fondate censure costituzionali.
Più corretta è allora la proposta, formulata dall’Associazione dei Professori e studiosi di diritto tributario, di unificare la tassazione dei redditi di capitale e diversi, attualmente distinte, in un unico regime, che prevede l’imposizione alla percezione anche dei redditi da gestioni individuali di portafoglio (cui si applicherebbe il “risparmio intermediato”, proprio in sostituzione del risparmio gestito[2]).
4. Non è stato finora discusso il regime dei redditi da partecipazione a gestioni collettive del risparmio, come i fondi di investimento, che meriterebbe quantomeno una riflessione.
Col passaggio alla tassazione sull’investitore, nel 2011, questa disciplina ha infatti perso la sua originaria razionalità. In principio, ricalcava il regime del risparmio gestito, cui assomiglia, secondo il preciso disposto della legge delega 662/96: tassazione cedolare su alcuni redditi di capitale affluenti al fondo; determinazione unitaria del risultato di gestione presso il fondo, come somma algebrica di redditi di capitale e diversi; sua tassazione periodica alla maturazione, a livello del fondo, mediante imposta sostitutiva applicata dalla società di gestione.
L’imposizione su quanto percepito dall’investitore, che colmava ilgap di competitività creatosi con gli omologhi prodotti esteri, ha alterato questo disegno. Ne è derivato un regime spurio, che unisce aspetti del risparmio gestito – le ritenute d’imposta su alcuni redditi di capitale corrisposti al fondo – ad elementi del regime dichiarativo e del risparmio amministrato – la tassazione colpisce i proventi percepiti dall’investitore (non più il risultato maturato nel fondo). Con la particolarità che i proventi distribuiti dalla società di gestione esprimono la somma dei redditi di capitale e diversi prodotti nel fondo; mentre, in caso di investimento diretto con regime dichiarativo o di risparmio amministrato, l’imposizione sostitutiva riguarda i soli redditi diversi realizzati dall’investitore (che non si compensano coi redditi di capitale).
L’attuale disciplina dei redditi da investimento collettivo diverge, insomma, da quella dell’investimento diretto (dichiarativo, risparmio amministrato e gestito), senza – a parere di chi scrive – apprezzabili differenze di capacità contributiva dell’investitore.
La proposta dell’AIPSDT riequilibrerebbe il sistema, riportando alla tassazione sul percepito tutti i regimi applicabili ai redditi finanziari, derivino essi da investimento diretto o tramite fondi (od altri Oicr). Chissà cosa ne diranno gli economisti.
[1] Lupi, 18 febbraio 2011, su www.fondazionestuditributari.com
[2] Per dettagli, v. www.professoristudiosiditributario.it