I differenziali negativi su pronti contro termine cosiddetti di “impiego” – utilizzati per effettuare operazioni di investimento della liquidità – sono poste rettificative dei proventi finanziari cui si riferiscono e pertanto non sono soggetti al regime di (in)deducibilità degli interessi passivi.
Ciò è quanto afferma la CTP di Torino nella sentenza n. 1997, sez. 10, depositata in data 19 dicembre 2016, accogliendo il ricorso del contribuente e annullando l’avviso di accertamento emesso dalla DRE Piemonte per il periodo di imposta 2009.
Attraverso il contratto di pronti contro termine, un soggetto acquista “a pronti” titoli e si impegna a rivenderli alla medesima controparte “a termine” a un prezzo predeterminato. L’acquirente a pronti realizza un’operazione di investimento (“PCT di impiego”) mentre il venditore ottiene la disponibilità di liquidità proprio mediante la vendita dei titoli (cd. “PCT di raccolta”)[1].
In costanza di contratto, gli interessi cartolari maturati sui titoli sono attributi – anche ai fini fiscali – all’acquirente a pronti, che ne diventa il proprietario formale. Altro elemento che determina la redditività dei PCT assieme agli interessi è il cd. differenziale di prezzo – pari allo scarto tra il prezzo a pronti e il prezzo a termine – che ha la funzione di riallineare il rendimento attivo (sotto forma di interessi) degli assets finanziari scambiati a quello previsto contrattualmente dallo stesso PCT[2]. Qualora i titoli sottostanti abbiano una redditività superiore rispetto a quella prevista contrattualmente e gli interessi siano percepiti dall’acquirente a pronti, il differenziale non potrà assumere che segno negativo[3].
Ignorando l’economia dell’operazione di PCT, i verificatori hanno contestato la mancata applicazione ai differenziali negativi, quale posta autonoma, dei limiti di deducibilità di cui all’art. 96, comma 5-bis del TUIR allora vigente, consentita nella misura 96% a fronte della piena imponibilità degli interessi attivi.
I giudici di merito hanno invece ritenuto infondata la tesi dell’Agenzia osservando che tali differenziali devono assumere rilevanza fiscale unitamente agli interessi attivi in quanto la loro funzione economica “non corrisponde a quella tipica degli interessi passivi” derivando da un’operazione di investimento del capitale e non da una di finanziamento.
Ulteriore conferma di ciò si trae dalle regole di contabilizzazione, che rispecchiano la sostanza economica delle operazioni. Infatti, gli oneri derivanti dall’impiego di capitale, quali i differenziali negativi, devono essere iscritti nel conto economico a storno degli interessi attivi e non, proprio per questo motivo, tra gli interessi passivi su finanziamenti.
Sotto il profilo fiscale, alla stessa stregua, la medesima Amministrazione finanziaria, seppur in una risalente posizione (cfr. Circolare n. 73 del 27 maggio 1994), ha ammesso che lo scarto prezzo debba concorrere “a formare il reddito alla stregua di proventi e oneri finanziari” in quanto costituisce “un componente negativo o positivo riferibile alla linea capitale del titolo sottostante” e se di segno negativo “non soggiace alla disciplina prevista per la deducibilità degli interessi passivi” vigente all’epoca[4].
Come peraltro autorevolmente osservato da Assonime nella Circolare n. 42 del 10 marzo 1994, la natura dello scarto negativo legittima la sua diretta deduzione dall’ammontare degli interessi attivi in quanto conferma che tale differenza deve essere trattata unitariamente, anche se composta da due distinti elementi del corrispettivo contrattuale (scarto prezzo e interessi maturati sulle attività oggetto dell’operazione).
Medesime conclusioni si traggono per analogia dal regime tributario riservato ai flussi generati dai derivati di copertura che in ragione della loro funzione economica si devono considerare come un tutt’uno con le componenti di reddito pertinenti agli elementi coperti anche laddove i differenziali sui derivati siano evidenziati in bilancio in modo autonomo e contabilizzati a “saldi aperti”. In materia IRAP, la Risoluzione n. 56/E del 22 giugno 2010, relativa alla posizione di una holding industriale, ha chiaramente affermato che la limitazione della deducibilità nella misura del 96% prevista per gli interessi passivi dall’art. 6, comma 9, del D.Lgs. n. 446/1997 si applica al risultato netto dell’accorpamento dei differenziali generati dagli interest rate swap e dei flussi di interesse prodotti dal sottostante e non alle singole voci di reddito[5].
Non devono portare a diverse conclusioni le indicazioni circa il trattamento delle componenti di reddito dei pronti contro termine contenute nella Circolare n. 19/E del 2009 in materia di deducibilità degli interessi passivi. L’Amministrazione finanziaria affermando che gli interessi maturati sulle attività oggetto delle operazioni in parola non concorrono a formare il reddito (imponibile) del cedente a pronti e pertanto “sono da ritenersi esclusi ai fini della disciplina di cui all’art. 96 del TUIR” aggiunge che rientrano “fra gli oneri assimilati” soggetti ai limiti di deducibilità “il differenziale negativo esistente fra prezzo a pronti e prezzo termine”. Considerando la finalità dell’art. 96 del TUIR che mira a colpire i componenti reddituali che sottendono un rapporto di finanziamento, tale precisazione dovrebbe essere applicabile solo ai pronti contro termine di raccolta (e non anche a quelli di impiego) e nello specifico alla posizione del cedente a pronti.
È appena il caso di rammentare che tali conclusioni non sarebbero valide nel caso in cui il cessionario a pronti fosse stato una persona fisica. Infatti, la normativa fiscale per i soggetti Irpef impone l’autonoma rilevanza come reddito di capitale del provento derivante dalla negoziazione a termine dei titoli – vale a dire della differenza positiva (ma non anche negativa) tra il corrispettivo globale della cessione e quello dell’acquisto al netto degli interessi maturati – e degli interessi maturati nel periodo di valenza del “contratto a pronti contro termine” – soggetti alla ritenuta di cui all’art. 26, comma 1 del D.P.R. n. 600/1973 o all’imposta sostitutiva ai sensi del D.Lgs. n. 239/1996, se ricorrono le condizioni[6].
[1] Le operazioni c.d. “pronto contro termine” su titoli obbligazionari, come rilevato da Banca d’Italia nella nota del 11 maggio 1992, condividono, per la loro natura, “una duplicità inscindibile di caratteri”. Infatti, da un lato, nella loro articolazione si compongono di due distinte negoziazioni di titoli, mentre, dall’altro, unitariamente considerate sono diffuse tra gli intermediari creditizi quale strumento per reperire o impiegare liquidità. Sul punto, inter alia, cfr. G. Corasaniti, Diritto tributario delle attività finanziarie, Egea, Milano, 2012, pag. 385 e segg.; Ferranti, G. e Scafati, I., Redditi di natura finanziaria, Ipsoa, Milano, 2012, pag. 131 e segg.; C. Vecchio, Regime civilistico e fiscale delle operazioni di pronti contro termine alla luce delle nuove disposizioni di bilancio, Bollettino Tributario, n. 4/1993, pag. 297-301.
[2] L’impostazione fiscale si fonda sulla “ricostruzione giudica dell’operazione di “pronti contro termine” come doppia compravendita, con l’attribuzione degli interessi sui titoli all’acquirente a pronti” (cfr. Circolare ABI, serie Tributaria, n. 30 del 21 aprile 1994). Ai sensi dell’art. 89, comma 6 del TUIR, i predetti interessi cartolari concorrono a formare il reddito del cessionario per l’ammontare maturato nel periodo di durata del contratto. Lo scarto (positivo o negativo) tra il corrispettivo a pronti e quello a termine, al netto degli interessi maturati sulle attività oggetto dell’operazione nel periodo di durata del contratto, concorrono a formare il reddito per la quota maturata nell’esercizio. Sul punto, la Suprema Corte (cfr. Corte di Cassazione, sez. V, 31 marzo 2008, n. 8257) ha precisato che il cessionario a pronti non si deve limitare a rilevare i ratei maturati in vigenza del contratto ma ha l’obbligo di inserire tra i componenti di reddito positivi l’intera somma degli interessi qualora riscossi.
[3] A titolo esemplificativo, due soggetti stipulano un contratto di PCT di durata semestrale avente rendimento annuo del 2%. I titoli scambiati hanno un rendimento semestrale del 5%. Per semplicità la durata del contratto di PCT coincide con il periodo di stacco cedola. I titoli obbligazionari sono ceduti a pronti per un corrispettivo pari a 100 e riacquistati a termine a 96. La cedola maturata è percepita dal cessionario a pronti. Il rendimento del contratto per il cessionario a pronti (1) sarà pertanto pari alla somma algebrica tra il differenziale di prezzo (96-100) e gli interessi percepiti (5).
[4] Cfr. anche M. Leo, F. Monacchi, M. Schiavo, Le imposte sui redditi nel testo unico, Giuffrè, Milano, 2010, pag. 1561. Gli Autori rilevano anche che la stessa relazione al decreto legge n. 416 del 1994, affermando che “… alla differenza positiva o negativa, tra il corrispettivo a pronti e quello a termine (depurata degli interessi anzidetti) viene riservato il trattamento proprio dei proventi e degli oneri finanziari, che concorrono a formare il reddito per la quota maturata di esercizio”, sembrerebbe avvalorare la tesi della legittima compensazione tra gli interessi attivi maturati a favore del compratore a pronti e lo scarto di prezzo negativo.
[5] Come autorevolmente evidenziato da Assonime nella Circolare n. 27 del 5 agosto 2010, una diversa ricostruzione avrebbe generato a una “soluzione poco sistematica”. Infatti, l’artificiosa scissione tra i differenziali sui derivati e gli interessi coperti (alla medesima stregua, tra gli interessi maturati dal cessionario a pronti e il differenziale di prezzo dei PCT) avrebbe portato al paradosso di assoggettare al regime di deduzione limitata degli interessi negativi anche società prive di esposizione debitoria solo per effetto dei flussi prodotti dai derivati di copertura di segno negativo (o analogamente dallo scarto negativo di prezzo nei PCT).
[6] Sul punto vedasi, Corte di Cassazione, sez. V, 4 marzo 2015, n. 4299.