La prosecuzione di fatto dell’attività d’impresa dopo la dichiarazione di fallimento determina l’applicabilità dell’art.42 della L.Fall., in quanto gli atti ed i pagamenti compiuti dall’imprenditore non rientrano tra quelli inefficaci ex art.44 L.Fall., con la conseguenza che il curatore potrà reclamare l’acquisizione al fallimento del solo saldo attivo, detratte le passività incontrate.
Lo ha stabilito la Corte d’Appello di Catanzaro, con sentenza n. 1094 del 15 luglio 2014.
Una pronuncia del tutto peculiare, quella del Collegio calabrese, sul tema della applicabilità dell’art.42 L.Fall, in luogo dell’art.44 L.Fall. al caso dell’imprenditore che abbia proseguito l’attività dopo la sentenza dichiarativa di fallimento.
Questione controversa, soprattutto per la sorte dei pagamenti effettuati nel lasso di tempo intercorrente tra l’emissione della sentenza di fallimento e la conoscenza effettiva della stessa da parte dell’imprenditore (nel caso di specie, dell’amministratore della società fallita).
Nel caso sottoposto ai Giudici d’appello, una curatela fallimentare aveva convenuto in giudizio una Banca, ex art.44 L.Fall., al fine di ottenere la dichiarazione di inefficacia degli incassi di somme asseritamente di pertinenza della procedura, poiché avvenuti dopo la dichiarazione di fallimento.
Soccombente in primo grado, in quanto il Tribunale aveva ritenuto provato che l’attività di impresa fosse proseguita sino a data successiva alla dichiarazione di fallimento e che i pagamenti fossero stati effettuati nell’esercizio dell’attività produttiva, con la conseguente acquisibilità alla massa del solo saldo attivo del conto, la curatela ha proposto appello, riformulando le medesime doglianze.
Due sono le norme di riferimento, che appaiono invero di difficile coordinamento: l’art. 42, secondo comma, L.Fall, a mente del quale “sono compresi nel fallimento anche i beni che pervengono al fallito durante il fallimento, dedotte le passività incontrate per l’acquisto e la conservazione dei beni medesimi” e l’art.44 L.Fall., che sancisce l’inefficacia di “tutti gli atti compiuti dal fallito e i pagamenti da lui eseguiti dopo la dichiarazione di fallimento”, nonché l’acquisizione al fallimento (fermo il disposto di cui all’art.42 L.Fall.) di “tutte le utilità che il fallito consegue nel corso della procedura”.
È la stessa Corte a dare atto del conflitto interpretativo nascente dalla difficile interpretazione sistematica delle dette norme, frutto di orientamenti oscillanti anche in seno alla Suprema Corte.
Nel confermare la correttezza della decisione di primo grado, la Corte si è appuntata sulla prova dei plurimi incassi risultanti sul conto corrente bancario, nonché delle numerose operazioni bancarie effettuate tra l’emissione della sentenza di fallimento e l’effettiva conoscenza della stessa, per effetto delle tardive comunicazioni di rito, circostanze che hanno fatto ritenere dimostrata la prosecuzione dell’attività di fatto da parte della fallita.
Ne è discesa l’applicazione, al caso di specie, dell’art. 42 L.Fall, in luogo della dichiarazione di efficacia ex art.44 L.Fall., con il conseguente diritto della curatela ad acquisire il solo saldo attivo, detratte le passività incontrate.
Trattasi di pronuncia per molti versi innovativa nel panorama giurisprudenziale, che opera un bilanciamento tra la par condicio creditorum e l’effettiva conoscenza del fallimento da parte del fallito, da un lato, e dei terzi che vi si trovino ad intrattenere rapporti negoziali, dall’altro, non da ultimo salvaguardando l’interesse della Banca a trattenere le somme affluite sul cc. della società dopo la sentenza di fallimento con accessori e spese, costituenti le passività di quella attività imprenditoriale svolta post-fallimento.