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La Suprema Corte rammenta il pacifico orientamento in materia fallimentare in forza del quale, a fronte del fallimento del datore di lavoro, salvo che sia autorizzato l’esercizio provvisorio, il rapporto lavorativo eventualmente in essere entra in una fase di sospensione, conseguendone l’impossibilità per il lavoratore di insinuarsi allo stato passivo relativamente alle retribuzioni maturate tra la dichiarazione di fallimento e la facoltà riconosciuta al curatore ex art. 72 l. fall, in quanto il diritto alla retribuzione non sorge in ragione dell’esistenza e del protrarsi del rapporto di lavoro ma presuppone, in conseguenza della natura sinallagmatica del contratto, la corrispettività delle prestazioni.
Tale principio – precisa la Corte – presuppone la mancanza di ogni prestazione lavorativa. Nel caso, invece, di prosecuzione dell’attività lavorativa è altrettanto pacifico nella giurisprudenza di legittimità come i “rapporti di lavoro continuano con l’azienda in quanto tale”, poiché anche quando l’amministrazione della procedura concorsuale non opti per l’esercizio provvisorio dell’impresa, può ben permanere il bene giuridico azienda giacché la mera cessazione dell’attività per un periodo più o meno lungo, non implica di per sé il venire meno dell’organizzazione aziendale.
Infine, nel sistema anteriore alle riforme fallimentari al lavoratore spetterebbe, inoltre, l’indennità sostitutiva del preavviso, da soddisfarsi in prededuzione, allorché il rapporto sia continuato dopo il fallimento del datore di lavoro per esigenze relative al fallimento stesso.