La decisione C-425/19 della Corte di Giustizia sul caso Tercas non risolve, a me pare, il tema della natura e del perimetro di intervento dei sistemi di garanzia nella risoluzione delle crisi bancarie. Del resto, difetta nella latitudine argomentativa una valutazione tranchant in ordine alla qualificazione dell’intervento del fondo come “aiuto di stato”.
Sul piano tecnico, la decisione ruota intorno alla portata del “mandato pubblico” affidato al FITD e all’autonomia del Fondo nell’adozione dell’intervento, con particolare attenzione al ruolo della Banca d’Italia, della sua cabina di regia, come si diceva un tempo, “all’orecchio”.
Che gli interventi del fondo mirino principalmente a perseguire interessi privati dei partecipanti risulta chiaro. Come convincente appare la lettura del 96-bis tub là dove si confina il mandato pubblico al rimborso dei depositanti nei limiti dei 100.000 euro. Né ci sono elementi per affermare che esistano legami organici tra Fondo e Autorità italiane.
Ma è proprio su questi profili che la decisione è stata assunta: nel caso concreto, cioè, la Commissione non ha dimostrato che le risorse fossero “etero-dirette” dalle Autorità pubbliche e quindi fossero nella loro disponibilità. Il tema si viene, quindi, a dilatare nelle pieghe della motivazione. Al n. 70, la Corte, da una parte afferma che il Tribunale “si è limitato … a prendere atto … delle differenze oggettive esistenti tra una situazione in cui l’ente erogatore dell’aiuto è un’impresa pubblica e una situazione, in cui, come nel caso di specie, vale a dire il FITD, è privato”; e, dall’altra, dichiara però che “anche se si dovesse considerare che, nel caso di specie, le misure controverse non sono imputabili allo Stato italiano, tale circostanza non implicherebbe che una misura presa da un sistema di garanzia dei depositi non possa mai essere qualificata come aiuto di Stato … infatti, tale qualificazione resterebbe possibile, ma dipenderebbe dalle caratteristiche del sistema di garanzia dei depositi e della misura in questione” (n. 78).
Insomma, il Giudice ferma il principio che la natura privata del Fondo e l’utilizzo di soldi privati non escludono di per sé l’applicazione della disciplina degli aiuti di Stato. Con il risultato che i termini della questione rimangono aperti.
Il che, per il vero, non sorprende. Ché il tema specifico si lega inscindibilmente alla dialettica, particolarmente avvertita nel bancario, tra concorrenza e stabilità. Dialettica che si acuisce proprio con riguardo al salvataggio delle imprese bancarie in crisi. E si tratta, come noto, di un aspetto complessissimo che non si presta a soluzioni rigide venendosi a declinare con intensità e gradazioni diverse a seconda del contesto economico, politico e culturale, prima ancora che normativo.
In fondo, stabilità e concorrenza sono due interessi che innervano il sistema finanziario: ogni sacrificio della concorrenza in nome della stabilità e ogni sacrificio della stabilità in nome della concorrenza finiscono per disperdere risorse preziose, comunque.
In questa prospettiva, in un recente editoriale pubblicato sulla Rivista a firma di Aldo Dolmetta e Luca Lentini, si è correttamente osservato che la vicenda apre almeno due fronti di cui è necessario farsi carico. Il primo è quello delle prospettive “industriali”, “di mercato” di questo tipo di soccorso nel futuro prossimo. Il secondo investe, invece, le ricadute “giudiziali-risarcitorie” al di fuori dei soggetti coinvolti nella vicenda specifica (: Etruria, Chieti, Ferrara, Marche, banche venete, ecc.).
Quanto al primo versante – nonostante l’approccio “cerchiobottista” della Corte -, la decisione fornisce una diversa prospettiva di analisi del nuovo quadro normativo sulla gestione delle crisi, aprendo timidamente a nuovi strumenti di intervento. Forse non è allora azzardato osservare che il Fondo potrebbe diventare ganglio strategico dell’intero sistema bancario venendo ad assumere un ruolo da protagonista nelle scelte di indirizzo e governo del mercato. Tema questo, ha acutamente osservato Vittorio Minervini (La regolazione delle crisi bancarie dopo la sentenza Tercas, in Mercato Concorrenza Regole, 1, 2020), che si riallaccia al diritto antitrust e al rilievo di eventuali intese attuate da banche concorrenti sotto forma di consorzio di salvataggio costituito su base volontaria.
Il secondo versante si infrange con la prospettiva atomistica della Corte, che finisce per rendere spuntata, al di là dei profili tecnici, un’azione risarcitoria spiegata nei confronti della Commissione. Le strettoie processuali non devono però ostacolare un intervento “politico” orientato a colmare quella perdita di fiducia che inevitabilmente si accompagna al caso di cui si discorre. Intervento che deve originare da una dialettica tra Istituzioni italiane ed europee e declinarsi pragmaticamente nel suo significato economico-indennitario. Del resto, il processo di integrazione dei mercati finanziari europei non si realizza solo con un framework normativo ed istituzionale unitario ma anche, e direi soprattutto, con un favor culturale comune verso la fiducia dei cittadini del mercato.