Diversi sono i temi affrontati nel provvedimento in epigrafe dalla Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi sui ricorsi presentati da più imputati condannati per molteplici fatti di bancarotta societaria da falso in bilancio. Con riguardo alla posizione di taluni ricorrenti il carattere comune delle doglianze giustifica la trattazione unitaria di queste ultime da parte degli Ermellini che ritengono opportuno fornire – in risposta alle censure mosse – importanti precisazioni in diritto, alcune delle quali sono di seguito esaminate perché ritenute maggiormente di rilievo.
Una delle questioni affrontate è quella relativa alla qualificazione del fallimento come “evento” nelle fattispecie di bancarotta[1], specificamente in quella di bancarotta fraudolenta patrimoniale.
Sul punto, il Collegio afferma di condividere la consolidata giurisprudenza che ha invece abbandonato tale concezione sulla base di molteplici considerazioni: i fatti di distrazione, intervenuta la dichiarazione di fallimento, assumono rilevanza penale in qualunque tempo essi siano stati commessi (e quindi anche se la condotta si è realizzata quando ancora l’impresa non versava in condizioni di insolvenza); per nessuna delle ipotesi alternative previste dalla norma – che si realizzano attraverso condotte che determinano una diminuzione patrimoniale pregiudizievole per i creditori – è richiesto un nesso causale o psichico tra comportamento realizzato dall’agente e dissesto dell’impresa; quando il Legislatore ha ritenuto necessario in materia fallimentare tale nesso lo ha espressamente previsto (si pensi alle condotte specificamente volte a cagionare il dissesto economico della società ex art. 223, comma II); infine, la fattispecie di bancarotta fraudolenta per distrazione è reato di pericolo ed è quindi irrilevante che al momento della consumazione l’agente non abbia la consapevolezza dello stato d’insolvenza dell’impresa perché lo stesso non si è ancora manifestato. A prova di ciò, inoltre, si rammenta che dal punto di vista soggettivo il reato non richiede infatti il dolo specifico bensì quello generico, ossia la consapevolezza di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa da quella di garanzia delle obbligazioni contratte.
Altra questione emersa attiene poi al rapporto tra la regola dei vantaggi compensativi di cui all’art. 2634, comma III, c.c. ed il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione infragruppo.
A riguardo, si rammenta che rispetto alla diversa fattispecie di infedeltà patrimoniale la regola appena menzionata opera nel senso di escludere la rilevanza dell’atto depauperatorio in presenza, appunto, dei vantaggi dei quali la società apparentemente danneggiata ha fruito o è stata in grado di fruire in ragione della sua appartenenza ad un gruppo. Si osserva allora come tale meccanismo possa senz’altro applicarsi anche alle condotte sanzionate dalla disciplina fallimentare e, segnatamente, a fatti di disposizione patrimoniale contestati come distrattivi o dissipativi. Più precisamente, i Giudici puntualizzano che nel reato di bancarotta fraudolenta per distrazione infragruppo “la regola del vantaggio compensativo esclude la rilevanza penale del fatto solo in quanto sia dimostrato che le operazioni contestate abbiano prodotto uno specifico vantaggio, anche indirettamente derivante da quello riferibile al gruppo nel suo complesso, idoneo a compensare efficacemente gli effetti immediatamente negativi delle operazioni stesse”. In altri termini, l’interesse che può escludere l’effettività dell’atto distrattivo non può ridursi al mero fatto della partecipazione al gruppo, né identificarsi nel vantaggio della società controllante, in quanto il collegamento tra le società e l’appartenenza ad un più ampio gruppo è solo la premessa da cui partire per individuare un puntuale e concreto vantaggio per la società che compie l’atto di disposizione del proprio patrimonio, perdurando l’autonomia soggettiva di ciascun ente giuridico facente parte del gruppo. Da ciò consegue che se il fatto di bancarotta si riferisce a rapporti infragruppo, “solo il saldo finale positivo delle operazioni compiute nella logica e nell’interesse del gruppo può consentire di ritenere legittima l’operazione temporaneamente svantaggiosa per la società sacrificata, nel qual caso è l’interessato a dover fornire la prova di tale circostanza”.
Viene poi fornito un chiarimento dalla Suprema Corte in merito alla controversa interpretazione della normativa in tema di falso in bilancio.
Dopo aver ricordato i tre orientamenti delineati in materia (il criterio del “vero legale”, del “vero relativo” e quello della “conformità tra il prescelto o dichiarato”) gli Ermellini ribadiscono che, ai fini della configurazione del reato previsto dall’art. 2621 c.c. per come riformulato dalla L. n. 69/2015, la falsità è rilevante se riguarda dati informativi essenziali e ha la capacità di influire sulle determinazioni dei soci, dei creditori o del pubblico. La fattispecie è inoltre configurabile in relazione alla esposizione in bilancio di enunciati valutativi se l’agente, in presenza di criteri di valutazione normativamente fissati o criteri tecnici generalmente accettati, se ne discosta consapevolmente e senza fornire un’adeguata giustificazione, in modo concretamente idoneo ad indurre in errore i destinatari delle comunicazioni.
Si tratta dei principi affermati dalle Sezioni Unite della Corte che, con sentenza del 31 marzo 2016, hanno sostanzialmente aderito ad una combinazione tra il criterio del “vero legale” e quello della “corrispondenza tra il prescelto e il dichiarato”. Nella motivazione della pronuncia indicata, infatti, si è statuito non solo che spetta al Giudice esprimere un giudizio prognostico sulla idoneità decettiva dell’informazione figurante nel documento contabile, nell’ottica di una potenziale induzione in errore in incertam personam, ma che tale potenzialità ingannatoria ben può derivare – oltre che dalla esposizione in bilancio di un bene inesistente o dalla omissione di un bene esistente – dalla falsa valutazione di un bene che pure è presente nel patrimonio sociale. Rileva quindi quale “falso qualitativo” l’impropria appostazione di dati veri e l’impropria giustificazione causale di “voci”, pur reali ed esistenti, potendo entrambe le condotte avere una attitudine ingannatoria e un’efficacia fuorviante per chi legge il bilancio.
[1] Secondo tale orientamento nel reato di bancarotta fraudolenta per distrazione “lo stato di insolvenza che dà luogo al fallimento costituisce elemento essenziale del reato, in qualità di evento dello stesso, e pertanto deve porsi in rapporto causale con la condotta dell’agente e deve essere, altresì, sorretto all’elemento soggettivo del dolo” (Così Cass. Pen., Sez. V, Sentenza n. 47502/2012, Corvetta)