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Qualificazione delle indemnities nell’ambito delle acquisizioni societarie

18 Luglio 2023

Massimo Desiderio, Partner, Cisternino Desiderio & Partners

Christian Cisternino, Partner, Cisternino Desiderio & Partners

Di cosa si parla in questo articolo

Il presente contributo analizza il tema della qualifica patrimoniale o reddituale delle somme riconosciute dal venditore all’acquirente in ragione di clausole di “indemnity” nel contesto delle acquisizioni societarie, alla luce dell’ultimo orientamento della Cassazione.


1. Premessa

L’ordinanza della Cassazione 5 aprile 2023, n. 9347, in tema di cessione di partecipazioni sociali, ha ad oggetto “la clausola del contratto che preveda l’adeguamento del corrispettivo fissato alle sopravvenienze passive successivamente accertate (ossia verificate dopo la cessione), facenti capo alla società target, per fatti accaduti prima del perfezionamento dell’accordo traslativo”.

Nel caso di specie, la Corte in definitiva riconosce che “Il verificarsi di tali sopravvenienze, secondo i criteri ivi stabiliti, influisce […] sulla misura definitiva del prezzo […]”.

Peraltro, prima di approdare a tale conclusione la Cassazione compie incidentalmente un percorso che ci porta a riflettere nuovamente su una questione che sembra non trovare pace, ossia la corretta qualificazione delle somme dovute dai venditori di una partecipazione societaria agli acquirenti della stessa nel caso in cui, successivamente all’efficacia della compravendita, siano emerse delle passività in capo alla società acquisita maturate prima dell’acquisizione.

In particolare, nel contesto delle acquisizioni societarie nella prassi legale si fa riferimento a (i) clausole di dichiarazioni e garanzie(representation and warranties), attraverso le quali il venditore della partecipazione garantisce all’acquirente la correttezza della gestione e determinate situazioni di fatto relative alla partecipata (in vari ambiti, tra i quali quello contabile, fiscale, del lavoro, ambientale ecc.) fino alla data del trasferimento della partecipazione e (ii) correlate clausole di “indennizzo” (indemnity), che prevedono una specifica manleva a favore dell’acquirente della partecipazione societaria nel caso in cui la società oggetto di compravendita incorra (successivamente al trasferimento della partecipazione) in passività derivanti da eventi in contrasto con le menzionate dichiarazioni del venditore.

In questo contesto, la questione in analisi è se le somme riconosciute dal venditore rappresentino un aggiustamento del prezzo della partecipazione ovvero un indennizzo. Su tale distinzione, appunto, l’ordinanza n. 9347/2023 si diffonde in una ricognizione di argomenti che meritano di essere analizzati in quanto forieri, a nostro avviso, di possibili equivoci.

La tematica è particolarmente rilevante, tra l’altro, in considerazione delle sue implicazioni fiscali.

Più precisamente, le somme in questione, (i) se si qualificano come aggiustamento del prezzo delle partecipazioni non hanno una immediata rilevanza reddituale in capo all’acquirente ma riducono il valore fiscalmente riconosciuto della partecipazione compravenduta, (ii) mentre, nel diverso caso in cui si qualificassero come indennizzi, concorrerebbero alla formazione del reddito imponibile del percettore, a seconda della posizione fiscale di quest’ultimo. Pertanto, se il percettore fosse una società di capitale fiscalmente residente in Italia, la qualifica di indennizzo ne comporterebbe l’imposizione come sopravvenienza attiva ai sensi dell’art. 88 TUIR.

Sul punto non si sono formate ancora nitide categorie di giudizio e si registra una certa disomogeneità di orientamenti.

E’ noto che sotto il profilo civilistico si agitano numerose e importanti questioni, perlopiù discendenti dal fatto che il contratto di acquisizione, nella sua atipicità, da un lato, ha un oggetto composito (immediato, se si pensa alla partecipazione sociale trasferita, mediato se si guarda al patrimonio della società target, che non cambia di titolarità) e, dall’altro, ha una disciplina giuridica che “si ferma all’oggetto immediato […] mentre non si estende alla consistenza od al valore dei beni costituenti il patrimonio”. Ciò “a meno che l’acquirente, per conseguire tale risultato, non abbia fatto ricorso ad una espressa clausola di garanzia” (Cass. 19 luglio 2007, n. 16031)[1].

Senza alcuna pretesa di esaustività, ripercorriamo quindi le posizioni di maggior interesse per gli immediati riflessi fiscali assunte dall’Agenzia delle Entrate e dalla Cassazione, per poi (i) evidenziare le contraddizioni emerse nella pronuncia della Cassazione qui in esame e (ii) cercare di tratteggiare una soluzione interpretativa coerente.

2. La tesi “patrimoniale”

Dopo una posizione alquanto ambigua (espressa con la Risposta 566/2020), un’importante apertura dell’Agenzia delle Entrate si ritrova nella risposta ad istanza di interpello n. 132/2022.

In quest’ultima occasione, l’istanza di interpello era volta a chiarire la natura (reddituale o patrimoniale) dell’indennizzo riconosciuto dal venditore all’acquirente di una partecipazione in ragione di passività concretizzatesi in capo alla società target per fatti accaduti nel periodo ante-cessione.

Al riguardo, l’Agenzia ha innanzitutto valorizzato la finalità stessa della clausola di indennizzo posta alla sua attenzione; finalità individuata nella tutela dell’acquirente della partecipazione che ha l’interesse “di veder preservato nel tempo il rapporto sinallagmatico tra il corrispettivo di cessione e il valore della partecipazione acquistata”.

La Risposta è estremamente sintetica ma la linea interpretativa che sembra essere stata seguita dall’Agenzia delle Entrate appare lineare e volta a ricercare la “causa concreta del contratto, ossia la finalità economico-sostanziale perseguita dalle parti; finalità da individuare nella volontà di bilanciare (ex post) la posizione del venditore e dell’acquirente una volta che siano emerse delle passività in capo alla società compravenduta che non erano conosciute (come da specifiche dichiarazioni del venditore) al momento della fissazione del corrispettivo della partecipazione e che trovano origine nella gestione della partecipata antecedente alla data di trasferimento della partecipazione stessa.

Su queste basi, l’Agenzia ritiene “ragionevole” che le somme corrisposte dal venditore (ancorché definite contrattualmente come “indennizzo” e rilevate in bilancio tra i proventi di conto economico) siano da considerare ai fini impositivi come una riduzione del costo della partecipazione (senza, quindi, immediato impatto reddituale ai fini IRES)[2].

La stessa linea interpretativa si ritrova nella risposta a interpello n. 956-2412/2021, con la quale l’Agenzia ha confermato la natura patrimoniale degli indennizzi dovuti dal venditore all’acquirente di una partecipazione societaria per l’emersione di passività pregresse, ricordando che già la Corte di Cassazione – con sentenza n. 16963 del 24 luglio 2014  – chiamata a pronunciarsi sul termine di prescrizione dell’azione collegata alle clausole qui in analisi – aveva chiarito che “in tema di cessione delle partecipazioni sociali, le clausole con le quali il venditore assume l’impegno di tenere indenne l’acquirente dal rischio connesso al verificarsi, successivamente alla conclusione del contratto, di perdite o di sopravvenienze passive della società hanno a oggetto obbligazioni accessorie al trasferimento del diritto oggetto del contratto, che sono volte a garantire l’esito economico dell’operazione”.

In termini ancora più chiari, la stessa sentenza ha specificato che con le clausole in esame le parti perseguono il fine di “assicurare che il prezzo pattuito corrisponda al valore della società di cui siano trasferite le quote di partecipazione”.

Tuttavia, l’orientamento in seno alla Cassazione non può essere considerato univoco, come dimostra la Sentenza 17011 del 10 febbraio 2020 e l’ordinanza della stessa Cassazione 9347/2023 qui in analisi.

3. La tesi “reddituale”

Con la citata sentenza 17011/2020, la Cassazione ha ritenuto che la clausola contrattuale in base alla quale il venditore di una partecipazione è tenuto a riconoscere al compratore un indennizzo a fronte dell’emersione di passività dovute alla gestione pregressa della società partecipata è una clausola di manleva che non rappresenta un aggiustamento del prezzo ma ha una “funzione sostanziale di garanzia, di tipo assicurativo.

Ciò detto, dal punto di vista fiscale, la Cassazione nel 2020 ne fa conseguire che l’indennizzo incassato, in esecuzione della richiamata clausola “di garanziacostituisce “un componente attivo del reddito imponibile della contribuente ai sensi dell’art. 88, terzo comma, lett. a), d.P.R. n. 917 del 1986”.

Soluzione diametralmente opposta rispetto ai menzionati chiarimenti resi dall’Agenzia delle Entrate.

Inoltre, il quadro si è infittito ancor di più con l’ordinanza della Cassazione n. 9347/2023, nella quale i giudici (al di là della conclusione relativa al caso specifico): (i) da un lato, correttamente evidenziano la concreta causa delle predette clausole di indemnity ma (ii) dall’altro lato, valorizzano alcuni elementi che rischiano di allontanare la qualificazione delle predette clausole dalla loro sostanza economica.

In particolare, sotto il primo profilo, nella citata ordinanza 2023 la Cassazione riconosce che “le clausole che attribuiscono rilievo alle sopravvenienze passive della società (società target), le cui partecipazioni siano cedute, “garantisc[ono]” una determinata situazione debitoria della società ovvero un determinato valore patrimoniale netto dell’azienda”.

In questo modo, si valorizza che l’indemnity riconosciuta dal venditore all’acquirente è finalizzata a ristabilire il sinallagma del contratto di compravendita di partecipazioni laddove questo sinallagma (tra prezzo e valore della partecipazione) sia inciso dalla sopravvenuta conoscenza di passività pregresse in capo alla società oggetto di compravendita.

In questo senso, l’ordinanza qui in esame chiarisce che “lo scopo di queste previsioni consiste nel dettare una specifica disciplina pattizia dei fatti che influiscono sul valore delle quote – o, più propriamente, sul patrimonio dell’azienda, che è indirettamente l’utilità che si prefigge di raggiungere la parte acquirente della totalità delle partecipazioni sociali”.

A ben vedere, si tratta della stessa premessa dalla quale l’Agenzia delle Entrate (nella citata Risposta 132/2022) trae linearmente la conclusione che, in capo all’acquirente, la somma in questione riduce il costo della partecipazione e non rappresenta invece un elemento positivo di reddito.

Tuttavia, nell’ordinanza del 2023 qui in esame la Cassazione opera dei distinguo che non aiutano la comprensione del fenomeno.

Infatti, innanzitutto i giudici ritengono che le clausole di aggiustamento del prezzo e quelle di indennizzo intervengono su piani diversi: le prime rappresenterebbero “un meccanismo fisiologico” attinente alla determinazione del prezzo, “sulla base degli inevitabili cambiamenti del <<valore rilevante>> della società target tra la data di <<riferimento>> e la data del closing”; le seconde opererebbero, invece, su un piano “patologico”, come previsione di una prestazione complementare a carico del venditore in caso di “violazione della garanzie convenzionali”.

In secondo luogo, l’ordinanza ritiene “decisiva” la circostanza che le sopravvenienze passive in questione “siano contemplate quale <<causa giustificativa>> della revisione del corrispettivo fissato in via provvisoria […] oppure si collochino quale fonte di un obbligo ulteriore di natura indennitaria-risarcitoria”; quasi ad intendere che la reale natura della clausola qui in analisi dipende dalle espressioni lessicali utilizzate a prescindere dalla reale funzione economica perseguita.

Infine, per riconoscere alle somme in questione natura di aggiustamento prezzo l’ordinanza 2023 sembra valorizzare la circostanza che (i) nel momento in cui è stato riconosciuto l’indemnity, il prezzo non era ancora stato interamente versato (e dunque era “provvisorio”) e (ii) il beneficiario delle somme in questione era l’acquirente e non la società ceduta.

Così il rischio è che prevalga un canone interpretativo eccessivamente formalistico, che allontana la qualificazione delle clausole in questione dalla loro “concreta causa”, laddove invece la reale finalità di queste ultime dovrebbe guidare l’interprete.

Ciò detto, senza alcuna pretesa di esaustività, si tratta ora di capire se sia possibile provare a tracciare un percorso interpretativo che possa aiutare gli operatori che si confrontano, sul campo, con la materia qui in analisi.

4. I criteri per la qualificazione della clausola di “indemnity

Le maggiori difficoltà nella qualificazione delle clausole di “indemnity” nel contesto delle acquisizioni societarie – oltre alla circostanza che si tratta di un istituto non di diritto italiano – sono dovute, come anticipato in premessa, al fatto che l’oggetto immediato della compravendita è un “bene di secondo grado” (la partecipazione), mentre l’oggetto “mediato” della compravendita è la quota parte del patrimonio sociale che tale partecipazione rappresenta.

Come visto sopra, nella prospettiva fiscale, il punto di interesse è quello di verificare se le somme riconosciute dal venditore all’acquirente a titolo di indemnity rappresentino un fenomeno patrimoniale (in termini di riduzione del costo della partecipazione) o se, invece, si tratti di un fenomeno reddituale (che dà luogo, in capo all’acquirente, ad una sopravvenienza attiva imponibile).

Ciò detto, i punti sui quali le due posizioni sopra richiamate sembrano convergere sono che (i) l’interpretazione delle clausole contrattuali deve basarsi sulla ricerca della loro causa concreta, al di là del nomen iuris, (ii) il vero interesse dell’acquisto di una partecipazione societaria totalitaria (o comunque di controllo) non è la partecipazione in sé ma è il patrimonio societario che la partecipazione rappresenta e (iii) le clausole di indemnity sono finalizzate a ristabilire il sinallagma economico (tra prezzo e valore della partecipazione) nel caso in cui, dopo il trasferimento della proprietà della partecipazione, siano emerse sopravvenienze passive in capo alla target dovute alla gestione societaria precedente e di cui non si è tenuto conto nella determinazione del prezzo della partecipazione.

Partendo da queste comuni condivisibili premesse, le posizioni poi divergono nelle conclusioni.

La citata ordinanza della Cassazione n. 9347/2023 sembra orientata a ritenere che vi possa essere un aggiustamento prezzo solo nei contratti in cui viene stabilito convenzionalmente (i) unprezzo provvisorio” e (ii) un meccanismo di adeguamento del prezzo in base a determinate grandezze patrimoniali o reddituali.

Con riferimento a quest’ultimo elemento, nella sentenza 17011/2020 la Cassazione sembra far riferimento alle clausole di earn-out, mentre nell’ordinanza 9347/2023 le clausole di aggiustamento prezzo sono individuate in un “meccanismo negoziale strumentale alla determinazione del prezzo definitivo di cessione delle azioni, ogni qualvolta quest’ultimo rappresenti l’espressione monetaria di un parametro patrimoniale (come il patrimonio netto o la posizione finanziaria netta) o reddituale (come il margine operativo lordo – EBITDA) della società target […], da calcolarsi alla data del trasferimento della proprietà delle azioni”.

Ciò detto, se è vero che queste appena descritte sono clausole di aggiustamento del prezzo, non convince l’idea che siano le uniche possibili ipotesi di revisione del prezzo e che per questa qualificazione sia necessario che il contratto preveda espressamente un prezzo “provvisorio” e un meccanismo di revisione e definizione del prezzo stesso.

Inoltre, i sostenitori della “tesi reddituale” – pur riconoscendo che “sotto il profilo economico, l’eventuale indennizzo che dovesse essere corrisposto dal venditore all’acquirente si risolverebbe, in pratica, in una riduzione del prezzo[3] – ritengono che sussistano “molteplici ed evidenti” differenze tra l’indennizzo e l’aggiustamento prezzo. In particolare, si fa riferimento (i) alla circostanza che “l’indennizzo presuppone un inadempimento del venditore o, comunque, una violazione o inesattezza delle r&w”; (ii) “il rimedio indennitario è posto essenzialmente a favore esclusivo dell’acquirente”, (iii) “[l]’obbligo di indennizzo del venditore è sempre convenzionalmente assoggettato a delle limitazioni di valore” e (iv) “[i]n caso di controversia tra le parti, la decisione in merito all’eventuale aggiustamento prezzo, trattandosi di calcoli e determinazioni di natura essenzialmente tecnico-contabile, è solitamente demandata ad un advisor indipendente  che […] renderà la propria determinazione in qualità di terzo arbitratore. Le eventuali controversie tra le parti relativamente all’esistenza di diritto all’indennizzo dell’acquirente, e la sua eventuale misura, sono invece devolute all’organo giudicante individuato nello SPA, collegio arbitrale o Tribunale ordinario, il quale dovrà pertanto giudicare sull’interpretazione e/o violazione delle norme contrattuali” (cfr. Stefano Cirino Pomicino, Clausola di aggiustamento prezzo, in Clausole negoziali, a cura di Massimo Confortini, Utet, 2017, p.1350).

Tuttavia, nessuno di questi elementi appare così forte da superare la sostanza delle clausole qui in esame, ai fini della loro qualificazione. In realtà, a ben vedere, al di là delle espressioni utilizzate nei contratti (espressioni come “indemnity” o “violazione delle rappresentazioni e garanzie”), le somme qui in questione non rispondono ad alcun inadempimento da parte del venditore[4] ma riflettono il minor valore del patrimonio della target rispetto a quello rappresentato all’acquirente al momento della determinazione originaria del prezzo.

Né risulta qualificante ai fini che qui interessano la circostanza che si tratta di ipotesi di aggiustamento solo a favore dell’acquirente. D’altronde, le clausole di earn-out (che generalmente prevedono un incremento del corrispettivo in funzione di determinati risultati futuri) rappresentano un aggiustamento del prezzo della partecipazione anche se sono previste esclusivamente a favore del venditore.

In questo quadro, fermo restando l’indubbia complessità della materia, si ritiene che – in assenza di una definizione normativa di “aggiustamento del prezzo” – la qualificazione delle clausole in esame dovrebbe essere guidata dalla loro concreta finalità, coerentemente con l’art. 1362 c.c. in base al quale “Nell’interpretare il contratto si deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole.

In particolare, è noto che ai fini della corretta interpretazione del contratto (propedeutica alla sua qualificazione) deve essere ricercata la causa concreta della clausola contrattuale di interesse e a questo fine, nel caso qui in analisi, è innanzitutto opportuno verificare se il prezzo della partecipazione – a prescindere dalla circostanza che sia o meno dedotto in contratto come “provvisorio” – sia stato determinato anche facendo affidamento sulla dichiarazione del venditore in merito alla correttezza della gestione societaria della target fino al momento di cessione della partecipazione.

In questo caso, anche se la sopravvenuta emersione di un onere in capo alla partecipata, dal punto di vista civilistico, non può essere considerata come un “vizio della cosa venduta” ai sensi dell’art. 1490 c.c.[5] – perché quest’ultimo si riferisce al bene oggetto immediato della cessione (ossia le azioni) – non vi può essere alcun dubbio che, nella sostanza, le passività determinate dalla gestione ante-cessione (i) viziano l’oggetto sostanziale della compravendita (ossia il patrimonio della target), (ii) incidono sul sinallagma iniziale tra il prezzo e il valore della partecipazione e (iii) richiedono, quindi, un ribilanciamento della posizione economica dell’acquirente rispetto al prezzo originario, a prescindere dal fatto che sia o meno già stato corrisposto.

In questo senso, come visto, la Cassazione (chiamata a pronunciarsi sui termini di prescrizione delle clausole di indemnity) ha chiarito che le clausole in esame sono finalizzate ad “assicurare che il prezzo pattuito corrisponda al valore della società di cui siano trasferite le quote di partecipazione” (cfr. par. 5 della sentenza della Cassazione 24 luglio 2014, n. 19963).

In altri termini, se è condiviso che l’oggetto sostanziale di interesse delle acquisizioni societarie qui in esame è il patrimonio della target (come chiarito dalla citata ordinanza 2023 della Cassazione) e che le clausole di indemnity sono concordate, a tutela dell’acquirente, per ristabilire il sinallagma economico tra il prezzo e il valore della partecipazione inciso dall’insorgenza di sopravvenienze passive pregresse (come chiarito dalla citata sentenza 2014 della Cassazione), allora è del tutto ragionevole ritenere che il prezzo della partecipazione deve essere considerato “provvisorio per tutto il periodo in cui opera la clausola di indemnity e che quindi ogni ammontare dovuto dal venditore all’acquirente in ragione di questa clausola definisce il prezzo (cfr. Elena Fiorina, Le clausole di garanzia nei contratti di cessione di partecipazione nella determinazione del reddito d’impresa, in Rivista Telematica di Diritto Tributario, 17 dicembre 2022).

In sostanza, ai fini che qui interessano dovrebbe considerarsi dirimente la finalità della clausola, che è quella di riequilibrare il prezzo rispetto al diverso valore assunto dalla partecipata per effetto dell’emersione di passività generatesi prima del closing ma non conosciute a quella data; passività che, se conosciute prima del trasferimento della partecipazione, avrebbero inciso direttamente sulla determinazione del prezzo.

In quest’ottica, appare del tutto condivisibile la posizione assunta dall’Agenzia delle Entrate che considera l’indemnity a riduzione del prezzo della partecipazione (cfr. i citati interpello n. 956-2412/2021 e Risposta 132/2022). In queste ipotesi, infatti, “non pare esserci alcun intento assicurativo-risarcitorio del compratore, come sostenuto dalla Corte di Cassazione nella sentenza in esame [n.d.r. n. 17011/2020], ma semplicemente la ricostruzione dei parametri di valutazione del prezzo, considerando semplicemente un minor valore della partecipazione gravata da una maggiore passività che al momento della cessione non era quantificabile nell’ammontare ma bensì prevista dalla clausola di garanzia (cfr. Elena Fiorina, Le clausole di garanzia nei contratti di cessione di partecipazione nella determinazione del reddito d’impresa, cit.).

In questa prospettiva, l’ulteriore punto da verificare è se questa linea interpretativa possa trovare applicazione anche nel caso in cui l’indemnity sia corrisposto – su indicazione dell’acquirente – direttamente alla società partecipata.

Al riguardo, come visto, nell’ordinanza 9347/2023 la Cassazione ha ritenuto dirimente – per poter qualificare una determinata clausola come aggiustamento prezzo – che il beneficiario del pagamento sia l’acquirente.

Tuttavia, anche questa posizione non convince, laddove – come generalmente avviene nella prassi negoziale – il pagamento dell’indemnity sia previsto a favore dell’acquirente, dando facoltà a quest’ultimo di chiedere al venditore della partecipazione di corrispondere le somme in questione alla target. Il che appare come una mera delegazione di pagamento[6].

In questo caso, il beneficiario dell’indemnity rimane l’acquirente, che ne dispone indirizzando le somme alla propria partecipata. D’altronde, allo stesso risultato si perverrebbe se le somme in questione venissero pagate dal venditore all’acquirente e quest’ultimo apportasse le stesse somme alla partecipata.

Ciò detto, è auspicabile che la tecnica contrattuale tenga conto delle menzionate incertezze interpretative e cerchi di indirizzare in modo chiaro la formulazione delle clausole di garanzia, evitando di utilizzare espressioni – importate da altri ordinamenti – che contribuiscono ad ingenerare confusione e qualificando le predette clausole in modo coerente rispetto alla loro concreta finalità.

 

[1] Le questioni toccano la natura stessa del patto di garanzia (se promessa di qualità del bene ex art. 1497 c.c., contratto “autonomo”, contratto “accessorio”, promessa del fatto del terzo ex art. 1381 c.c., contratto avente causa assicurativa) e l’applicabilità ad esso dei termini di decadenza e di prescrizione ex art. 1495 c.c.: per una dettagliata ricognizione, v. G. Salatino, Il “patto di garanzia” nei contratti di compravendita di partecipazioni sociali: prassi ed evoluzione, in Giur. Comm., 2021, I, pp. 996 ss.

[2] L’Agenzia delle Entrate ritiene invece rilevante ai fini IRAP la classificazione in bilancio degli indennizzi (cfr. Risposta 132/2022 e interpello 956-2412/2021

[3] Nello stesso senso è stato sostenuto che, se le dichiarazioni risultano violate, il venditore “sarà tenuto a pagare un indennizzo al compratore, cioè di fatto a restituirgli parte del prezzo” (cfr. De Nova, Il Sale and Purchase Agreement: un contratto commentato, Giappichelli, 2017, p. 39).

[4] Infatti, rispetto alla misrepresentation, non è dato individuare una prestazione dedotta nel contratto che risulterebbe “inadempiuta”. Inoltre, la configurazione di un tale inadempimento sarebbe problematica con riguardo alla necessaria “imputabilità” di questo, laddove “il socio/venditore si “obbliga” rispetto ad un qualcosa (il patrimonio sociale) che non è di sua titolarità” (v. G. Salatino, Op. loc. cit., pp. 1010 ss.).

[5] Come chiarito dalla Cassazione con la sentenza 24 luglio 2014, n. 16963

[6] In questi casi, sarebbe opportuno documentare tra le tre parti interessate che si tratta di una delega di pagamento, specificando anche la natura di apporto patrimoniale tra l’acquirente e la target

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