L’Agenzia delle Entrate ricorreva avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale che aveva parzialmente accolto l’appello del contribuente nell’ambito di una controversia avente ad oggetto un avviso di accertamento con il quale l’ufficio accertatore aveva induttivamente determinato ex art. 39, comma 1, lettera d) del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 ricavi non contabilizzati derivanti da operazioni infragruppo nazionali.
In particolare, l’Agenzia delle Entrate rilevava una operazione di acquisto infragruppo di prodotti avvenuta ad un prezzo superiore a quello di mercato, con successiva rivendita ad un costo inferiore a quello di acquisto, senza alcun ricarico, ma con una perdita secca. Conseguentemente, procedeva ad emettere avviso di accertamento con il quale rettificava l’imponibile della società applicando una percentuale di ricarico media calcolata sulla base della media dei ricarichi applicati dalla società e dalle altre società del gruppo.
I giudici di merito avevano ritenuto insussistenti gli elementi indiziari di cui all’art. 39, comma 1, lettera d), D.P.R. 600/1973 perché lo sbilancio tra costi e ricavi non integrava di per sé una grave incongruenza ai sensi dell’art. 62 sexies d.l. 331/1993; ciò in considerazione sia della sua modesta entità, sia del periodo limitato di tempo in cui questo si è verificato.
Con un unico motivo di impugnazione l’Agenzia delle Entrate deduce la violazione o falsa applicazione dell’art. 62 sexies del D.L. 331/1993; dell’art. 39, comma 1, lettera d) D.P.R. 600/1973; dell’art. 54, comma 2 del D.P.R. n. 633/1972 anche nel relativo combinato disposto in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., in quanto affermava di aver correttamente accertato con il metodo analitico-induttivo l’entità del reddito dichiarato. Quest’ultimo, infatti, era in contrasto evidente con il comune buon senso e con le regole basilari della ragionevolezza. In particolar modo, nel caso di specie l’abnormità e l’irragionevolezza della percentuale di ricarico sono in re ipsa in presenza di un ricarico negativo.
A parere dell’Agenzia, la Società non era neanche stata in grado di fornire alcuna valida giustificazione in merito al suo comportamento antieconomico, non essendo meritevole di valutazione la circostanza per cui trattasi di una strategia infragruppo.
La Corte di Cassazione ritiene il ricorso infondato.
Innanzitutto, i giudici di legittimità rilevano che il caso di specie verte in una ipotesi di transfer price interno cui non è applicabile la disciplina del transfer price internazionale di cui all’art. 110, comma 7 del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917. A tal proposito, è intervenuto il legislatore che, con l’art. 5, comma 2 del d. lgs. n. 147/2015, ha dettato una norma di interpretazione autentica, in base alla quale la disposizione di cui all’articolo 110, comma 7 del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, si interpreta nel senso che la disciplina ivi prevista non si applica per le operazioni tra imprese residenti o localizzate nel territorio dello Stato.
Conseguentemente, la Corte specifica che le transazioni infragruppo tra società residenti nel territorio nazionale effettuate ad un prezzo diverso dal “valore normale” indicato dall’art. 9 del d.P.R. n. 917 del 1986 non sono indice, di per sé, di una condotta elusiva, rappresentando l’eventuale alterazione rispetto al prezzo di mercato solo un elemento aggiuntivo, di eventuale conferma, della valutazione di elusività dell’operazione, senza che possa applicarsi, in via analogica, la disciplina del “transfer price” internazionale recata dall’art. 110, comma 7, del d.P.R. cit., ostandovi il disposto – di interpretazione autentica – di cui all’art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 147 del 2015, donde l’estraneità all’ordinamento tributario della nozione di “transfer pricing” domestico (Cass., sez. 5, 25 giugno 2019, n. 16948; …).
Una volta esclusa l’applicabilità della disciplina del transfer pricing internazionale alle operazioni domestiche, i giudici di legittimità riconoscono, al contempo, in tema di transfer price interno, il potere dell’Amministrazione finanziaria, in presenza di una condotta antieconomica, di procedere ad un accertamento analitico-induttivo ai sensi dell’art. 39, comma 1, lettera d), D.P.R. 600/1973. In tal caso, lo scostamento dal “valore normale” può assumere rilievo quale parametro meramente indiziario. Pertanto, l’operazione che si pone al di fuori dei prezzi di mercato costituisce una possibile anomalia, sì da poter giustificare, in assenza di elementi contrari, l’accertamento, con conseguente onere in capo al contribuente di dimostrare che essa non sussiste.
Tuttavia, la Corte riconosce come si debba attribuire specifico rilievo al contesto di gruppo in cui l’operazione si inserisce quale importante elemento di valutazione del carattere antieconomico della transazione. Nel caso di specie, tale carattere è, infatti, escluso dai giudici di legittimità in considerazione del fatto che l’operazione contestata si collocava “all’interno di una strategia economica diretta a raggiungere un risultato nell’interesse di tutte le società del gruppo”.
Pertanto, la valutazione dell’antieconomicità deve tenere conto dell’interesse collettivo del gruppo non potendo la sola divergenza dal valore normale costituire elemento indiziario sufficiente ai fini dell’accertamento analitico-induttivo. In caso contrario, le contestazioni dell’Agenzia delle entrate si tradurrebbero in una mera non condivisibilità delle scelte imprenditoriali della società non avendo riscontrato nessun altro elemento di valutazione relativo all’elusività dell’operazione.
Per di più, la Corte ritiene condivisibili le conclusioni dei giudici di merito che non avevano riscontrato alcuna grave incongruenza nello sbilancio tra i costi ed i ricavi in quanto era non solo di modesta entità, ma si era verificato anche in un breve lasso temporale.
In conclusione, la Cassazione stabilisce che, nelle operazioni infragruppo nazionali, il mero scostamento del prezzo praticato dal valore normale, in particolar modo se di lieve entità e sussistente per un breve lasso temporale, non costituisce una falsa o inesatta indicazione nelle scritture contabili così grave, numerosa e ripetuta da giustificare l’accertamento analitico-induttivo ai sensi dell’art. 39, comma 1, lettera d) del D.P.R. 600/1973.