In un precedente intervento su questa rivista avevo sostenuto che la sostenibilità del c.d. recovery fund dipende in primo luogo dalla capacità di impiegare le relative risorse in modo efficiente. Nei mesi passati abbiamo sentito un po’ di tutto al riguardo, compresi impieghi molto peggiori di un contributo a fondo perduto pari alla capitalizzazione delle aziende, proposto dal presidente del CNDC.
La proposta si inserisce in un filone ormai quasi trentennale, che passa attraverso la DIT prima e l’ACE poi, di cui pure mi ero occupato su diritto bancario. Queste misure però riguardavano la tassazione dei redditi, non sovvenzioni a fondo perduto, avendo tuttavia in comune l’intuizione dell’importanza delle dimensioni aziendali. E’ una specie di grande è bello con cui in prima battuta si può solo concordare; la pandemia smentisce infatti ulteriormente la mitologia dell’imprenditorialità come qualità individuale, conforme alla personificazione dell’azienda, a proprietà familiare, anche se con migliaia di dipendenti, corrispondente al padronato della fine del secolo scorso. Le aziende sono invece aggregazioni sociali pluripersonali, tenute insieme dal prodotto, secondo più ampie sistematizzazioni svolte in altre sede da chi scrive [1]. Gli industriali ne sono consapevoli, senza però il tempo di socializzarlo, in quanto assorbiti appunto dalle contingenze del prodotto rispetto all’azienda ed in quanto pratici, senza tempo né modo per svolgere compiti da studiosi sociali, di fronte al deficit culturale generale sulle aziende. Esso si ritrova anche nelle proposte suddette, che sopravvalutano la prospettiva contabilistica delle dimensioni aziendali, guardando solo al patrimonio netto, non ai suoi impieghi in beni strumentali o altri investimenti. Per come è formulata la proposta suddetta, una sovvenzione pari alla capitalizzazione spetterebbe anche qualora alla capitalizzazione corrispondesse semplicemente ulteriore liquidità o attività finanziarie di breve periodo. E’ una notevole trascuratezza della proposta, rispetto alla tradizione dei precedenti incentivi; la carenza emerge ancor di più se si considera quanto la proposta si sofferma sulle modalità tecniche per evitare la duplicazione della sovvenzione nei gruppi di società. Una premessa è che la Dit e l’ACE non mi pare abbiano acceso particolari entusiasmi imprenditoriali, agevolando iniziative che si sarebbero svolte comunque. Rispetto ad esse, questa proposta è anche molto più costosa, non muovendosi in linea reddituale, ma patrimoniale; osservo incidentalmente, anche se la proposta non affronta il problema, che il contributo a fondo perduto dovrebbe essere classificato in bilancio come i saldi in sospensione d’imposta, imponibili sui soci in caso di distribuzione.
Tornando alla valutazione politica della proposta, mi pare che essa si collochi in un contesto in cui le buone iniziative imprenditoriali non faticano a trovare finanziamenti, visto il livello del tasso d’interesse. Ciò rende i tassi attivi sui finanziamenti sostanzialmente un mero “premio per il rischio”, intendendo per tale quello di mancata restituzione del prestito, il che mette in luce la vera natura della nostra crisi che non è di capitali, ma di organizzazione imprenditoriale.
La pandemia ha mostrato tutti i lati negativi di un’economia parcellizzata tra spontaneismi individuali, come quelli di ristoranti, alberghi, bar, locali notturni, spettacoli, e altre attività ludico-turistiche. Queste ultime sono certamente le benvenute, ma sono facilmente sostituibili, esposte a cambiamenti di gusti e di possibilità di movimento. Una produzione industriale di serie, di beni e servizi, essenziali per la domanda interna è per definizione meno volatile ed oggi, per essere competitiva, ha bisogno di grandi dimensioni organizzative, più che di grandi capitali. Agevolare la capitalizzazione delle aziende, con un contributo generoso come quello suggerito dal presidente del CNDC, non incide sul vero nodo dimensionale delle aziende italiane. Si tratta del passaggio da una proprietà personale e familiare ad una proprietà quantomeno frammentata tra più soggetti economici. Il vero collo di bottiglia del capitalismo familiare italiano, dove anche le grandi aziende sono piccole, è infatti la necessità di mantenere catene di comando brevi, perché la proprietà non vuole perdere il controllo, come possibilità di verificare personalmente, o tramite suoi fiduciari, tutti gli aspetti della gestione aziendale.
Sarebbe forse più stimolante il co-finanziamento pubblico degli aumenti di capitale qualora essi provenissero da terzi, introducendo quindi nell’azienda una governance effettivamente pluralista, oltre il capitalismo familiare. Quest’ultimo va infatti gradualmente abituato, man mano che lo spirito d’iniziativa delle famiglie imprenditoriali diminuisce, a condividere la gestione con altri soci, fidandosene e ispirando ad essi fiducia. La diffidenza e le gelosie, nelle deleghe e nella ripartizione del potere, sono infatti il vero ostacolo alla crescita delle aziende italiane, ben più della capitalizzazione. Quest’ultima non è nulla senza l’organizzazione, messa in crisi da adempimenti burocratici sproporzionati alla coesione di un gruppo sociale che vorrebbe solo dedicarsi serenamente al prodotto. Le aziende sono invece invischiate in una trama regolatoria senza fine, dove gli adempimenti tributari si affiancano a quelli antiriciclaggio, privacy, antinfortunistica, gestione dei rifiuti, sicurezza covid, responsabilità amministrativa delle società (modelli 231) e tanti altri. Essi sono in buona misura scaricati sui professionisti, da parte di uffici pubblici poco cooperativi e una giustizia imprevedibile prima che lenta. Tutto ciò distrae dalla mission ultima dell’azienda, cioè il prodotto, e provoca frizioni all’interno di compagini sociali variegate. La proprietà monolitica del capitalismo familiare italiano, con un decisore di ultima istanza, gestisce insomma meglio questi fastidi collaterali; al desiderio delle famiglie imprenditoriali di mantenere il potere sull’azienda, si aggiungono i vantaggi di una proprietà personalizzata, in una società che neppure capisce l’idea di azienda come organizzazione pluripersonale. Quest’idea di azienda non è stata diffusa in sede accademica, e di riflesso nella pubblica opinione, con un deficit culturale non colmabile da parte delle associazioni professionali, come quella dei dottori commercialisti; tali associazioni non riusciranno mai a sostituirsi dove gli studiosi di economia d’azienda hanno fallito. Il presidente del CNDC ha ragione ad affermare che i commercialisti accompagnano l’impresa, ma non sui sentieri della gestione, produttiva e commerciale. Essi infatti si occupano in prevalenza, come fiduciari dell’imprenditore, dei suddetti innumerevoli formalismi burocratici.
Proprio tali adempimenti dovrebbe partire l’inclusione sociale delle aziende, che prima di tutto è culturale, come comprensione degli innumerevoli compiti amministrativi esternalizzati su queste organizzazioni. Se il presidente del CNDC vuole proporre un impiego dei soldi del recovery fund in modo socialmente utile, e conforme agli interessi della categoria, un suggerimento sarebbe il co-finanziamento pubblico degli oneri impropri gravanti sulle attività economiche, in primo luogo per ragioni tributarie. Si potrebbe stabilire un credito d’imposta non per la capitalizzazione aziendale, ma per ogni attività di supplenza delle aziende in oggettive funzioni pubbliche, a partire da quella tributaria. Mi riferisco a una certa somma per ogni pratica gestita come sostituti d’imposta, per ogni cud caricato, per ogni adempimento svolto in sostituzione di pubblici uffici. Sarebbe il primo passo per spiegare socialmente che le aziende non sono commercianti o artigiani troppo cresciuti, ma organizzazioni pluripersonali che non solo producono beni e servizi, ma svolgono anche tante funzioni che altrimenti ricadrebbero sui pubblici uffici, come quelli tributari. Il riconoscimento di queste esternalità positive sarebbe il primo passo per l’inclusione sociale delle aziende, che a sua volta costituisce il presupposto per la loro crescita dimensionale.
[1] Le più attuali si trovano, in chiave di studio sociale, in L’economia pubblica si chiama diritto, in open access su didattica web o, in chiave più tecnica Diritto delle imposte, Giuffrè, 2020.