Il contributo esamina la recente riforma del regime di adempimento collaborativo introdotta dal D.Lgs. n. 221/2023, soffermandosi in particolare sulle criticità applicative e sistematiche che emergono dal nuovo impianto normativo.
Negli ultimi anni il legislatore si è sforzato di accompagnare le imprese in un percorso di compliance fiscale con numerosi interventi normativi volti ad agevolare i contribuenti sia negli ordinari adempimenti sia nella spontanea correzione degli errori. Tra tutti gli istituti introdotti allo scopo, quello a cui sono stati di recente dedicati i maggiori sforzi resta, senza dubbio, il regime di adempimento collaborativo. La sua recente riforma, con il D.Lgs. n. 221/2023, si proponeva l’obiettivo di rendere il regime uno strumento capace di garantire ad un tempo certezza del diritto ai contribuenti e stabilità di gettito all’erario.
A poco più di un anno dalla riforma del regime di adempimento collaborativo si può azzardare una prima valutazione sul complesso disegno perseguito dal legislatore e, forse, anche sull’effettivo raggiungimento degli ambiziosi obiettivi che, con le modifiche normative, ci si proponeva di raggiungere.
Dal momento in cui le disposizioni recate dal D.Lgs. 221/2023[1] sono entrate in vigore, si sono susseguiti una serie di atti di normazione primaria e secondaria che hanno chiarito, interpretato, a volte modificato, l’impianto originario della riforma del regime di adempimento collaborativo.
Nonostante l’obiettivo dichiarato di semplificare i rapporti tra imprese e fisco (ma negli ultimi anni quante modifiche normative, almeno nelle intenzioni del legislatore, non solo tributario, avevano questo scopo?), la proliferazione di norme, regolamenti e direttive ha creato disorientamento e preoccupazione nei contribuenti.
Un esempio eclatante degli effetti di questa tendenza è rappresentato dalla vicenda dell’obbligo, per i contribuenti aderenti al regime, di sottoscrizione del Codice di condotta approvato con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze del 29 aprile 2024, obbligo poi revocato con un successivo decreto[2].
1. Le linee guida sulla costruzione del TCF per l’accesso al regime di adempimento collaborativo
La recente emanazione delle linee guide sulla costruzione del TCF e sulla certificazione dei modelli[3] ai fini dell’accesso al regime di adempimento collaborativo offre l’occasione per evidenziare alcune delle criticità relative all’impianto complessivo della riforma, nonché per sviluppare qualche riflessione su alcuni aspetti che pongono degli interrogativi, non solo di ordine concettuale ma anche pratico.
Una prima criticità, che dovrebbe apparire evidente anche a chi non sia particolarmente esperto di sistemi di controllo aziendali, è rappresentata dalla complessità del nuovo assetto della disciplina del regime di adempimento collaborativo delineato dalla riforma. Disciplina che, inserita in un quadro di rigidità regolamentare, come si evince dalle linee guide emanate dall’Agenzia delle entrate, renderà per le imprese più complesso e dispendioso, in termini finanziari ed organizzativi, sia l’accesso al regime sia la gestione di procedure e processi relativi al funzionamento del TCF.
Ma è soprattutto la standardizzazione dei modelli di controllo a suscitare le maggiori perplessità.
Secondo quanto si evince dalle linee guida per la compilazione della mappa dei rischi e dei controlli fiscali, al momento rilasciate solo per i contribuenti del settore industriale, l’Agenzia delle entrate propone (rectius, impone) alle imprese di conformarsi ad una mappatura dei processi che potrebbe non essere, e verosimilmente non sarà, coerente con quella effettivamente elaborata nelle singole esperienze aziendali, con la conseguenza di renderne sicuramente più complicata la descrizione all’interno della risk and control matrix[4].
Senza contare che, nei casi di disallineamento, presumibilmente frequenti, per rispettare i requisiti di redazione della mappa dei rischi e dei controlli imposti dalle linee guida, si renderà necessaria, in alternativa, l’introduzione di laboriosi strumenti di raccordo o l’abbandono delle precedenti modalità organizzative e descrittive dei processi aziendali.
E questo fa emergere un secondo, poco meditato, aspetto critico della riforma del regime di adempimento collaborativo, conseguente la scelta di standardizzare i modelli di controllo del rischio fiscale.
In molti casi, i soggetti che hanno adottato e che vorranno adottare il tax control framework con lo scopo di accedere al regime di adempimento collaborativo hanno già in funzione altri sistemi di controllo di secondo di livello dei rischi di compliance in ambiti diversi da quello fiscale, ad esempio, tra i più diffusi, i modelli organizzativi implementati ai sensi del D.Lgs. n. 231/2001.
Questa situazione è piuttosto normale in settori come quello degli intermediari finanziari o delle assicurazioni, ma può realisticamente realizzarsi per tutti i soggetti che sono tenuti ad implementare il regime di attestazioni che fanno capo alla figura del Dirigente preposto, previsto dalla legge 262/2005 o, per quelli che, in ambito internazionale, devono attivare la struttura di controlli interni richiesta dal Sarbanes-Oxley Act.
È evidente che tali modelli di controllo potrebbero discostarsi molto dai requisiti previsti dalle linee guida; ad esempio, non è affatto detto che la correlazione tra processi ed attività coincida, o che i criteri di valutazione dei rischi inerenti o residui siano sovrapponibili o, ancora più banalmente, che le fasi dei processi mappati o addirittura la loro denominazione siano le stesse.
2. L’integrazione con gli altri modelli di controllo e la certificazione
Anche a prescindere dal fatto che proprio l’Agenzia delle entrate, e prima ancora il legislatore, richiede che il tax control framework sia integrato nel complessivo sistema di controllo dei rischi, appare evidente che qualsiasi impresa, prima di tutto per ragioni di economia di gestione e poi per garantire una coerente rappresentazione agli organi amministrativi di vertice e agli organi di controllo, avrà la necessità elaborare ed adottare standard uniformi, che trasmettano con immediatezza e senza equivoci le informazioni essenziali in merito al livello di rischio a cui l’impresa è esposta nelle varie aree di attività[5].
La situazione descritta, come si è detto, sarà comune a molte imprese e renderà problematica qualsiasi ipotesi di integrazione, costringendo sia gli aderenti al regime sia gli aspiranti a sostenere costi aggiuntivi ed oneri organizzativi supplementari.
Alla fine, il passaggio dal “Modello Aperto” di TCF, in cui, come spiegano le linee guida[6], le scelte organizzative delle società che lo realizzavano erano libere, fatta salva l’approvazione successiva da parte dell’Agenzia delle entrate, al “TCF certificato”, redatto in base alle Linee guida e caratterizzato da una puntuale individuazione della Mappa dei Rischi fiscali, potrebbe rappresentare un serio ostacolo all’ingresso nel regime, e in futuro, quando sarà richiesto l’adeguamento anche ai soggetti già aderenti, alla permanenza nello stesso.
Peraltro, non si comprende bene quale sia il beneficio per l’Amministrazione finanziaria dal momento che, avendo delegato ad altri il compito di certificare la funzionalità del modello, non sarà nella condizione di trarre vantaggio dalla teorica semplificazione delle procedure di controllo, che prima della riforma era necessario superare per ottenere l’ammissione al regime.
D’altronde, l’introduzione dell’obbligo di certificazione da parte di un professionista diverso da quello incaricato di assistere il contribuente nella costruzione del TCF, se da un lato certamente soddisfa le esigenze di imparzialità e indipendenza di giudizio, dall’altro costituisce un innegabile ulteriore aggravio per i contribuenti.
Infatti, le istruzioni contenute nelle linee guida disciplinano minuziosamente l’attività del certificatore, almeno per quanto riguarda la governance dei rischi fiscali, la c.d. company level, richiedendo la puntuale verifica della corretta declinazione e funzionamento nell’ambito del TCF dei cinque componenti del controllo interno e dei correlati diciassette principi previsti dal COSO Framework.
Un’applicazione rigorosa delle istruzioni delle linee guida in materia di regime di adempimento collaborativo richiederà al professionista incaricato della certificazione di ripercorrere tutte le scelte organizzative adottate dall’impresa e, presumibilmente, di rivedere i processi decisionali, le connesse responsabilità, i criteri sui quali si basano i meccanismi di individuazione e di valutazione di rischi e presidi; analisi che necessariamente richiederà la ripetizione di adempimenti complessi già svolti, poco tempo prima, al momento della costruzione del TCF, come ad esempio le interviste al personale, al management, agli organi di governo e di controllo, l’esame dei documenti etc., che costituiscono attività a forte impatto sulla normale operatività aziendale.
Tali implicazioni sembrano essere sfuggite sia al legislatore sia all’Agenzia dell’entrate, che di recente ha espresso pubblicamente[7] la propria contrarietà all’ipotesi che il requisito di certificazione del TCF possa considerarsi assolto attraverso alternative forme di assurance, ritenendo che siffatto adempimento non possa considerarsi assolto dalla “…certificazione del bilancio di sostenibilità essendo necessario a tali fini che l’impresa ottenga una specifica certificazione redatta in conformità alle prescrizioni contenute nel citato decreto interministeriale”.
Un altro aspetto critico non secondario, che anche in questo caso non pare essere stato preso in considerazione, potrebbe emergere in relazione alla sostituzione del processo di validazione da parte dell’Agenzia delle entrate, previsto in precedenza, con la certificazione del professionista, richiesta dalla normativa vigente.
In passato era stata la stessa Amministrazione finanziaria, attraverso uno dei suoi organi di controllo, la Guardia di Finanza, con la circolare n. 216816/2020, a ipotizzare che “il positivo giudizio espresso dall’Agenzia delle Entrate ai fini dell’ammissione all’adempimento collaborativo possa costituire un utile elemento di valutazione dell’efficacia esimente del modello previsto dal decreto legislativo n. 231/2001, da rimettere alle autonome valutazioni della competente Autorità Giudiziaria”.
Sembra altamente probabile che questa pur prudente forma di “affidamento”, che derivava dalla ragionevole fiducia accordata alla valutazione effettuata da un organo della Pubblica amministrazione, presumibilmente dotato dei poteri investigativi e delle competenze professionali atte ad esprimere un giudizio altamente affidabile, sia destinata a declinare rapidamente, considerato lo scarso peso che viene attribuito normalmente alle valutazioni ed ai pareri tecnici resi dai professionisti, considerati alla stregua di mere allegazioni difensive.
3. La conformità ai principi contabili del nuovo regime di adempimento collaborativo
Collegato al nuovo adempimento della certificazione, nonché al requisito dell’integrazione dei sistemi di controllo interni, è il tema ampiamente enfatizzato della “conformità ai principi contabili” e dell’obbligo di mappatura dei rischi fiscali “derivanti dai principi contabili applicati dal contribuente”.
Per chi ha esperienza nella costruzione e nella gestione del TCF, rischiano di apparire un po’ sorprendenti i reiterati richiami ai controlli contabili contenuti nei provvedimenti legislativi e regolamentari e nelle istruzioni dell’Amministrazione finanziaria, fino alle recenti linee guida.
Pur senza volersi addentrare nello spinoso percorso attraversato dal dibattito sulla legittimazione dell’Amministrazione finanziaria ad esercitare un potere di rettifica “contabile” in assenza della preventiva dichiarazione di nullità del bilancio da parte dell’autorità giudiziaria ordinaria – dibattito che, peraltro, dopo i numerosi interventi sull’articolo 83 del TUIR, sembra sempre più destinato ad essere confinato nell’ambito delle dispute puramente accademiche – è ragionevole ritenere che qualsiasi responsabile della funzione fiscale, così come il professionista che lo assiste, si ponga il problema della correttezza e genuinità del dato contabile che viene assunto come presupposto dell’adempimento fiscale.
A maggior ragione la costruzione di un sistema di rilevazione, controllo e prevenzione dei rischi fiscali necessariamente deve prevedere meccanismi e presidi che garantiscano che il dato contabile trasmesso al responsabile finale dell’adempimento fiscale sia attendibile.
Nei soggetti che applicano le disposizioni previste dalla legge 262/2005 o dalla SOX, è naturale fare affidamento sull’esito dei controlli che vengono esperiti in quegli ambiti e, di fatto, già quei presidi vengono normalmente integrati nella risk & control matrix redatta ai fini fiscali.
Peraltro, è presumibile che (almeno) i contribuenti che soddisfano il requisito soggettivo dimensionale dispongano di bilanci certificati, senza contare che molti soggetti sono sottoposti a specifici controlli da parte di autorità preposte alla vigilanza del loro specifico settore di attività (banche, assicurazioni, società quotate).
Risulta, quindi, di non immediata comprensione il motivo per cui il professionista incaricato della certificazione del TCF non dovrebbe fare affidamento su valutazioni effettuate da controllori quanto meno altrettanto qualificati.
D’altra parte, anche i soggetti che hanno adottato il TCF senza avere l’obbligo di implementare specifiche strutture di controllo di secondo livello sotto il profilo contabile, caso non infrequente, hanno – non potrebbero non avere – la consapevolezza di dover prevedere adeguati controlli di primo livello sulla corretta applicazione dei criteri di rilevazione, qualificazione, imputazione temporale e classificazione in bilancio, previsti dai princìpi contabili applicati.
In ogni caso, l’Agenzia delle entrate non sembra fornire delle chiare indicazioni sulle modalità con cui dovrebbero essere presidiati i rischi di natura contabile, in assenza di quello che le linee guida definiscono “sistema di controllo autonomo in materia di informativa finanziaria/contabile (“Modello 262”, “Modello Sox” o altro modello analogo)”.
Viene formulata una piuttosto generica richiesta di predisporre specifici presidi contabili “integrati” nel TCF, mediante la formalizzazione di controlli chiave standard sui principali processi operativi e rischi financial associati, opportunamente evidenziati, unitamente ai relativi rischi, nella Risk and Control Matrix del TCF.
D’altra parte, anche nei modelli 262, così come nei modelli Sox, sono presenti controlli c.d. chiave, che riguardano direttamente attività di natura fiscale o comunque riconducibili a rischi fiscali, dalle verifiche sui versamenti IVA a quelle sulla corretta applicazione delle procedure di ammortamento sui cespiti, fino all’esame della legittimità e della regolarità delle transazioni.
Resta da capire se la presenza di questo genere di controlli, che sono sicuramente presenti anche nel TCF dei soggetti non tenuti ad adottare modelli di controllo sull’informativa economico-finanziaria, sia sufficiente a soddisfare le richieste del legislatore o se, come appare più probabile, non sia invece necessario introdurre anche quei controlli di carattere più generico che nel Modello 262 dovrebbero garantire l’affidabilità delle registrazioni contabili, la conformità ai principi contabili adottati nonché l’adeguatezza sotto il profilo dell’economicità delle attività più significative esercitate dall’impresa.
Chiaramente, questa seconda interpretazione comporterebbe l’onere aggiuntivo di dotarsi di una struttura di controlli simile, se non del tutto sovrapponibile, a quella che fa capo al Dirigente preposto nel modello previsto dalla legge 262/2005.
Ora, se il soddisfacimento di questa condizione appare particolarmente onerosa per quei contribuenti che, pur avendo avuto accesso al regime erano esclusi dall’applicazione della SOX o della legge 262/2005, diventa assolutamente proibitiva per i contribuenti che volessero aderire al c.d. regime opzionale previsto dall’art. 7-bis del D.Lgs. n. 128/2015.
In teoria, a tali soggetti dovrebbe essere riservato un percorso facilitato nella costruzione del modello, ma in pratica, a dispetto delle caratteristiche dimensionali e organizzative, essi devono soddisfare gli stessi requisiti dei soggetti ammessi al regime “ordinario”.
Peraltro, per concludere i commenti relativi ai modelli di controllo contabile, siano essi quelli previsti dalla L. 262/2005 o quelli di matrice SOX, e alla loro importanza nell’ambito del TCF, non sembra che sia stato adeguatamente valutata la circostanza che gli stessi hanno la caratteristica di attivarsi in relazione a soglie di materialità che raramente sono coerenti con quelle che, in ambito fiscale, individuano i rischi più significativi.
È probabile, infatti, che il rischio di una violazione fiscale che configuri un reato tributario ai sensi del D.Lgs. n. 74/2000 debba essere valutato come significativo, a prescindere dal valore economico dell’attività ad esso associata, soprattutto nel caso in cui si tratti di reati presupposto ai fini della responsabilità amministrativa dell’ente, in relazione ai quali la cui disciplina sanzionatoria, generalmente, non prevede limiti quantitativi o li prevede fissando soglie di rilevanza molto esigue.
4. Il presidio al rischio di disallineamento da ibridi
Per i soggetti aderenti al regime, l’obbligo di disclosure in relazione ai potenziali rischi di disallineamento da ibridi era già previsto prima dell’introduzione delle disposizioni in materia di documentazione, avvenuta ad opera dell’art. 61 del D.Lgs. n. 209/2023, e delle istruzioni recate dal D.M. 6 dicembre 2024.
Tali rischi erano, infatti, già inclusi tra i fenomeni di “pianificazione fiscale aggressiva”[8] che il contribuente ammesso al regime doveva impegnarsi a comunicare in modo tempestivo ed esauriente[9].
Tuttavia, l’art. 12 del D.M. del 6 dicembre 2024, di attuazione delle disposizioni in materia di documentazione dei disallineamenti da ibridi, sembrerebbe suggerire che, per i soggetti aderenti al regime, l’adozione degli oneri documentali ai sensi del comma 6-bis dell’art. 1 del D.Lgs. n. 471/1997 rappresenti un obbligo, piuttosto che una scelta[10].
Viene così imposto, anche ai soggetti che ritengano di non aver realizzato operazioni che possano ragionevolmente generare un disallineamento da ibridi rilevante, di predisporre la documentazione idonea, di dotarsi di processi aziendali atti ad identificare i disallineamenti importati, le transazioni rilevanti e i gruppi omogenei, e, non ultimo, di dare evidenza, nella risk & control matrix , dei rischi delle transazioni rilevanti e dei gruppi omogenei di valore inferiore alla soglia di materialità concordata con l’Agenzia delle entrate.
Peraltro, la stessa definizione della soglia di materialità presenta aspetti ambigui. Il D.M. prevede che la materialità venga declinata sotto un duplice aspetto, quantitativo e qualitativo.
Se sul primo aspetto non sembrano sorgere particolari dubbi, posto che è previsto, come per le soglie di rilevanza del c.d. delta tax nell’ambito del processo di valutazione del rischio interpretativo, l’instaurazione di un apposito contraddittorio attraverso il quale giungere alla determinazione di una soglia quantitativa di rilevanza, l’aspetto qualitativo appare meno intuitivo.
Non viene specificato – e appare difficile fare previsioni in proposito – quali saranno i parametri utilizzati per valutare questa materialità “qualitativa”.
Probabilmente, l’Amministrazione finanziaria vorrà riservarsi la prerogativa di graduare la pericolosità delle varie fattispecie, ma sarebbe opportuno che i criteri utilizzati per individuare le situazioni che si ritiene siano in grado di generare livelli di rischio più elevati, ad esempio perché connotati da comportamenti potenzialmente decettivi, venissero esplicitati.
Il tema assume particolare rilevanza per la potenziale connessione con la disciplina penale tributaria, considerato che la formulazione dell’art. 61 del D.Lgs. n. 209/2023 prevede espressamente la protezione dall’applicazione delle sole sanzioni amministrative, mentre l’Agenzia delle entrate nella circolare 2/2022 ha ritenuto i disallineamenti da ibridi capaci di innescare la responsabilità penale del contribuente[11].
In base alla formulazione della disciplina, quindi, l’assolvimento degli adempimenti previsti dal D.M. 6/12/2024 non sembra garantire il contribuente dai rigori della norma penale, per evitare i quali sarebbe comunque necessario attivare una delle procedure di comunicazione preventiva previste dall’art. 6, comma 4, del D.Lgs. n. 128/2015, cioè l’interpello “abbreviato” o le comunicazioni di rischio.
5. Le vere esigenze dei contribuenti
È indubbio che l’introduzione del regime di adempimento collaborativo nel nostro ordinamento abbia rappresentato una straordinaria opportunità di dialogo tra contribuenti e Amministrazione finanziaria, sotto certi aspetti, ancorché limitata ad una platea tutto sommato modesta di soggetti, addirittura più significativa del principio di contraddittorio preventivo, che continua ad incontrare resistenze ad una sua compiuta applicazione sul piano pratico.
Resta, però, da capire se la recente riforma si stia muovendo nella direzione giusta e contribuisca a rafforzare quelle condizioni di reciproca fiducia e di trasparenza che sono alla base di una convinta, spontanea adesione da parte delle imprese ai loro obblighi di compliance.
Per il momento, l’introduzione di nuovi adempimenti e una preoccupante attitudine alla burocratizzazione rischiano di creare un’angusta gabbia di regole, limiti e prescrizioni, per cui potrebbe rivelarsi sempre più complicato non solo accedere al regime, ma anche rimanervi.
[1] L’art. 3, comma 1, del Decreto legislativo 30/12/2023, n. 221, recante disposizioni in materia di adempimento collaborativo, ne ha previsto l’entrata in vigore il quindicesimo giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana. Le norme sono entrate in vigore dal 18 gennaio 2024.
[2] Con il Decreto ministeriale 03/10/2024, Modifica del decreto 29 aprile 2024 concernente l’approvazione del codice di condotta per i contribuenti aderenti al regime di adempimento collaborativo, è stato eliminato l’obbligo di sottoscrizione del codice di condotta che il Decreto ministeriale 29/04/2024, Approvazione del codice di condotta per i contribuenti aderenti al regime di adempimento collaborativo, aveva previsto sia per i soggetti richiedenti l’ammissione al regime, sia per i contribuenti già ammessi, rispettivamente per i primi all’art. 1, comma 2, contestualmente all’ammissione, per i secondi all’art. 2 comma 1, entro centoventi giorni dalla data di entrata in vigore del decreto, cioè, entro il 5 ottobre 2024. La modifica è intervenuta in prossimità della scadenza dei termini originariamente fissati per l’adempimento.
[3] Cfr. provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate, del 10 gennaio 2025, prot. n. 5320/2025, Approvazione delle linee guida per la predisposizione di un efficace sistema di rilevazione, misurazione, gestione e controllo del rischio fiscale in attuazione dell’articolo 4, comma 1-quater del decreto legislativo 5 agosto 2015, n. 128. Il Provvedimento specifica che le linee guida sono costituite dai seguenti documenti: a) Linee guida per la redazione del documento che disciplina il sistema di rilevazione, misurazione, gestione e controllo del rischio fiscale (c.d. Tax Compliance Model – TCM) e per la certificazione del sistema, e relativi allegati; b) Linee guida per la compilazione della Mappa dei Rischi e dei Controlli Fiscali dei contribuenti del settore industriale, e relativo allegato.
[4] Nel documento “Linee guida per la compilazione della mappa dei rischi e dei controlli fiscali dei contribuenti del settore industriale”, allegato al Provvedimento del 10 gennaio 2025, si legge: “I processi, le attività e i rischi fiscali standard individuati nell’ambito della RCM sono quelli “minimi” ordinariamente e generalmente riscontrabili nell’operatività delle imprese operanti nel settore industriale. Essi dovranno necessariamente essere inclusi nella Mappa anche qualora non riscontrabili in concreto in capo all’impresa”.
[5] Al contrario le Linee guida per la compilazione… sembrano richiedere l’applicazione di criteri di valutazione e di graduazione del rischio inerente che non lasciano margini di discrezionalità al contribuente. Vi si legge, infatti, che “Nel campo intitolato “Rischio inerente” andrà inserita la gradazione dello stesso (“alto”, “medio”, “basso”) determinata ad esito della combinazione delle valutazioni inserite nel campo “Impatto”, rappresentativo della magnitudo degli effetti derivanti dal manifestarsi del rischio, e nel campo “Probabilità”, riferito alla probabilità di accadimento del rischio”. L’integrazione dei modelli di controllo di secondo livello, che, peraltro è già un’esigenza sentita ed un obiettivo perseguito dalla maggior parte dei soggetti aderenti al regime, richiede alle imprese di uniformare le scale di valutazione dei rischi a quelle in già in uso. Applicare nell’ambito del TCF criteri non coerenti rappresenterà certamente una complicazione, sia nella gestione dei singoli modelli sia nella rappresentazione, agli organi amministrativi di vertice e agli organi di controllo, dei livelli di rischio a cui è esposta complessivamente l’impresa.
[6] Nel documento “Linee guida per la redazione del documento che disciplina il sistema di rilevazione, misurazione, gestione e controllo del rischio fiscale (c.d. Tax Compliance Model – TCM) e per la certificazione del sistema” si legge: “Il modello di TCF fino ad oggi adottato dalle imprese aderenti può essere definito come un “Modello Aperto”, i cui contenuti sono rimessi alle scelte organizzative della società che lo realizza e alle valutazioni dell’Agenzia delle entrate alla quale viene sottoposto”.
[7] Risposta a Telefisco 2025.
[8] L’art. 1 § 1.1 del Provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate del 26/05/2017, prot. 101573, alla lettere l) recita: “Per “pianificazione fiscale aggressiva” si intende una o più costruzioni, di carattere nazionale o transnazionale, che producano conseguenze fiscali che il contribuente è ragionevolmente in grado di comprendere e che contengano i seguenti elementi: i) siano suscettibili di generare effetti fiscali in contrasto con lo scopo delle disposizioni invocate, anche derivanti da asimmetrie esistenti fra i sistemi impositivi delle eventuali giurisdizioni coinvolte; ii) determinino fenomeni di doppia deduzione, deduzione/non inclusione e doppia non imposizione.”
[9] Cfr. il successivo art. 3 § 3.2, lett. a), “Il contribuente ammesso al regime si impegna a comunicare, in modo tempestivo ed esauriente, le situazioni suscettibili di generare rischi fiscali significativi e le operazioni che possono rientrare nella pianificazione fiscale aggressiva e a condividere con l’Agenzia delle entrate le informazioni relative al proprio sistema di controllo interno, incluse l’architettura generale, l’implementazione e l’efficacia dello stesso”.
[10] L’art. 12 del DM, rubricato Rapporto con la procedura di adempimento collaborativo, stabilisce: “ Per i soggetti ammessi al regime dell’adempimento collaborativo disciplinato dal Titolo III del decreto legislativo 5 agosto 2015, n. 128, la predisposizione, corretta e tempestiva, della documentazione e la tempestiva comunicazione del suo possesso all’Agenzia delle entrate, costituiscono il corretto adempimento degli obblighi di comunicazione e trasparenza previsti dal paragrafo 3.2, compresi quelli di cui al punto 3.2, lettera d), n. iii), del provvedimento del direttore dell’Agenzia delle entrate, prot. 101573, del 26 maggio 2017”. Va, peraltro, notato che il precedente art. 7 comma 3, sembra solo precludere l’accesso agli effetti premiali della disciplina nel caso in cui non venga data evidenza, nella mappa dei rischi fiscali, dell’esistenza di processi aziendali idonei a identificare, rispetto ai disallineamenti da ibridi rilevanti, le transazioni rilevanti e i gruppi omogenei.
[11] La rilevanza penale delle violazioni relative ai disallineamenti da ibridi suscita notevoli perplessità. Non sembra che la violazione possa innescare il reato di infedeltà dichiarativa e questo a prescindere dall’adesione al regime degli oneri documentali di cui all’art. 61 del D.Lgs. 209/2023, in quanto l’ultimo periodo del comma 1-bis dell’art. 4 stabilisce che ai fini penali non si debba tener conto della violazione dei criteri di determinazione dell’esercizio di competenza, della non inerenza, della non deducibilità di elementi passivi reali. Tuttavia, la circolare 2/2022, che non individua la disposizione di riferimento nell’ambito del D.Lgs. n. 74/2000 e che si è espressa sul punto prima dell’introduzione del regime premiale dell’art. 61, sembra ignorare totalmente il comma 1-bis dell’art. 4, circostanza di difficile interpretazione che si spera non implichi che l’Amministrazione finanziaria ritenga che la fattispecie integri altro e più grave delitto rispetto all’infedeltà dichiarativa.