1. Una riforma troppo meditata: tempi applicativi eccessivamente ristretti e assenza di una cornice normativa stabile
Uno dei provvedimenti più attesi dal mondo della finanza sostenibile è stato il regolamento del 7 novembre 2019/2088 del Parlamento Europeo e del Consiglio relativo all’informativa sulla sostenibilità nel settore dei servizi finanziari.
Con l’emanazione da parte dell’ESAs (European Supervisory Authorities) della bozza di standard tecnici regolamentari (RTS), il 2 febbraio 2021, a più di un anno di distanza, quindi, il Regolamento comunitario è, quasi, del tutto applicabile.
In attesa che gli RTS vengano recepiti in un testo finale, la data di attuazione dei primi obblighi informativi da parte degli operatori è fissata a meno di un mese di distanza (10 marzo 2021): con evidenti profili critici per un’applicazione concreta e meditata della normativa.
A giocare in senso negativo sulla reale applicazione ed effettività del provvedimento pesa, oltre l’elemento temporale sopra riferito, l’assenza di un quadro normativo organico in grado di evitare duplicazione di oneri (con incremento dei costi di compliance) e disomogeneità di criteri applicativi.
Di particolare segno, in questa prospettiva, quanto prevede il Considerando 25 del Regolamento in merito alla “non idoneità”, per gli obblighi di trasparenza individuati nel Regolamento, dell’informativa non finanziaria (anche in materia di sostenibilità) prevista dalla direttiva 2013/34/UE (c.d. non financial directive) da parte degli emittenti. Sicuramente uno stesso apparato di dati e informazioni può, in sé considerato, non essere sufficiente ad un’informativa destinata a soggetti con formazioni e culture finanziarie diverse (i.e. l’investitore o il gestore, da un lato, e l’investitore retail, dall’altro lato), ma tanto non pare giustificare la creazione di un sistema a compartimenti stagni che fondano valutazioni su elementi e processi diversi.
Sotto lo stesso segno di notazioni, va registrato un mancato coordinamento anche con la direttiva in materia dei diritti degli azionisti 2007/36/Ue (nel testo modificato, in particolare, dalla direttiva 828/2017/UE, SRDII). Per gli aspetti qui rilevanti, la direttiva da ultimo citata richiede, alla maggior parte dei soggetti tenuti all’applicazione della SFRD, la creazione di politiche (anche di engagement) di lungo termine che tengano conto dei fattori ambientali, sociali e di governance (ESG). Del contenuto di tali politiche, il Regolamento SFRD non pare tenere conto.
Infine, va anche registrato (esemplificativamente per la traduzione italiana del provvedimento che traduce due diligence con “diligenza dovuta”) una scarsa precisione nella redazione delle norme che, di certo, non semplifica l’attuazione degli scopi del regolamento.
2. Gli obiettivi del regolamento e il percorso per il loro raggiungimento
Alzando l’angolo visuale, sono proprio forse gli obiettivi dello stesso regolamento, in qualche modo, a rappresentare un primo momento di arretramento rispetto al generale movimento (sociale e economico) propulsivo della sostenibilità.
Se, infatti, l’aspettativa del mondo finanziario era quella di una normativa atta a prevenire fenomeni di green washing e promuovere, attraverso il mercato finanziario, un’economia reale capace di attuare gli obiettivi dell’Agenda ONU 2030 e dell’Accordo di Parigi sul clima (queste, sono le dichiarazioni ricognitive anche dei considerando 1 e 2 del Regolamento), il Regolamento SFRD guarda in via prioritaria all’integrazione dei rischi di sostenibilità sulla “considerazione degli effetti negativi per la sostenibilità degli investimenti sostenibili, ovvero sulla promozione delle caratteristiche ambientali o sociali, nel processo decisionale e nei processi di consulenza”.
Il fine esposto nel considerando citato, in modo stilisticamente articolato, sembrerebbe richiedere agli operatori del mercato una disclosure sull’impatto che, a livello di politica di investimento, può avere un rischio di sostenibilità, definito, questo come “un evento o una condizione di tipo ambientale, sociale o di goverance che, se si verifica, potrebbe provocare un significativo impatto negativo effettivo o potenziale sul valore dell’investimento”.
Di contro, nel corpo del Regolamento, non vi è, a giudizio di scrive, un reale presidio a fenomeni di green washing né, tanto meno, strumenti di incentivazione a modelli di finanziamento dell’”economia sostenibile”.
Sotto il primo aspetto, la stessa definizione di “investimento sostenibile” si presenta molto generica tanto non avere, in sé e senza un concreto ancoraggio in termini di misurazione, una reale efficacia precettiva.
Il regolamento SFRD indica come sostenibile un investimento “in un’attività economica che contribuisce a un obiettivo ambientale, misurato, ad esempio, mediante indicatori chiave di efficienza delle risorse concernenti l’impiego di energia, l’impiego di energie rinnovabili, l’utilizzo di materie prime e di risorse idriche e l’uso del suolo, la produzione di rifiuti, le emissioni di gas a effetto serra nonché l’impatto sulla biodiversità e l’economia circolare o un investimento in un’attività economica che contribuisce a un obiettivo sociale, in particolare un investimento che contribuisce alla lotta contro la disuguaglianza, o che promuove la coesione sociale, l’integrazione sociale e le relazioni industriali, o un investimento in capitale umano o in comunità economicamente o socialmente svantaggiate a condizione che tali investimenti non arrechino un danno significativo a nessuno di tali obiettivi e che le imprese che beneficiano di tali investimenti rispettino prassi di buona governance, in particolare per quanto riguarda strutture di gestione solide, relazioni con il personale, remunerazione del personale e rispetto degli obblighi fiscali”.
Probabilmente, sarebbe stato maggiormente efficace, come peraltro parte della prassi di mercato ha già recepito, far riferimento ai 17 obiettivi dell’Agenda ONU 2030 che già offrono una maggiore diversificazione (lotta alla povertà, sconfiggere la fame, parità di genere etc) e includono altri elementi non presi esplicitamente in considerazione dalla definizione citata (es. pace e giustizia e istituzioni solide o la vita sott’acqua).
L’assenza di una normazione “incentivante” il mercato e di un ulteriore rischio di scarsa trasparenza, si riscontra, poi, in una differenziazione che il Regolamento SFRD e i criteri RTS pongono tra investimenti “light green” (articolo 8 del Regolamento) e “dark green” (Articolo 9 del Regolamento): i primi promuovono “tra le altre caratteristiche, caratteristiche ambientali o sociali, o una combinazione di tali caratteristiche a condizione che le imprese in cui gli investimenti sono effettuati rispettino prassi di buona governance”; i secondi, hanno “come obiettivo investimenti sostenibili”.
La linea di demarcazione tra strumenti che “promuovo” e strumenti che “hanno come obiettivo” sembra abbastanza labile di suo e, ancor più, in assenza di un criterio univoco e non autodeterminato dall’operatore finanziario. Inoltre, tale scelta porterà molti operatori ad un atteggiamento di prudenza iniziale, preferendo una qualificazione di tono minore (come prodotti light green), piuttosto che rischiare la violazione del regolamento.
Infine, in ossequio ad un principio “comply or explain”, non viene previsto un obbligo per gli operatori di integrare nella loro politica di rischi, i c.d. “rischi di sostenibilità”, ma viene fatta salva la possibilità di non prenderli in considerazione offrendo “una chiara motivazione di tale mancata considerazione comprese, se del caso, informazioni concernenti se e quando intendono prendere in considerazione tali effetti negativi”.
Tale ultimo elemento è davvero distonico anche rispetto alle scelte di politica economica prese dall’Unione Europea nell’ultimo anno (per tutte il c.d. Recovery Fund), attuative, per vero, dello stesso articolo 3 del Trattato UE: sembra più un momento di rinuncia del legislatore alla creazione di un ecosistema finanziario “sostenibile”, a vantaggio di una logica di “autoselezione” del mercato nella quale, tuttavia, i modelli virtuosi sono penalizzati in termini di costo di compliance.
3. La struttura degli obblighi informativi nel Regolamento SFRD
Passando a considerare la struttura degli obblighi informativi e di trasparenza posti dal Regolamento, questi si distinguono in quattro livelli: a) a livello di soggetto: con indicazione di come le loro strategie di investimento e di politica aziendale, anche di remunerazione, integrano il tema della sostenibilità e dei rischi associati; b) a livello di informativa precontrattuale; c) a livello di prodotto, distinguendo, come visto tra: (i) prodotti che tengono in considerazione un c.d. “rischio di sostenibilità”; (ii) prodotti che “promuovo caratteristiche ambientali e sociali” (light green”, articolo 8) e (iii) prodotti che hanno come obiettivo un investimento sostenibile (dark green, articolo 9)
Oltre quanto si osserverà trattando degli RTS, le disposizioni sull’informativa precontrattuale e quella societaria, si risolvono nell’indicazione ed esplicitazione della propria politica di investimento e, in sostanza, del risk appetite e della gestione del rischio, in relazione a temi ambientali, sociali e di governance, con un breve cenno ad eventuali politiche di enagagement ai sensi della SRDII. Manca, come osservato in incipit, alcuna indicazione di politiche attive verso gli stessi temi.
A livello di prodotto, quello a cui si assiste, è un incremento degli obblighi di compliance dai prodotti non green a quelli light e dark green.
Per i primi (non green), si richiede una “spiegazione chiara e motivata che indichi se e, in caso affermativo, in che modo un prodotto finanziario prende in considerazione i principali effetti negativi sui fattori di sostenibilità”.
Per i prodotti light green, il Regolamento impone di indicare come le caratteristiche ambientali e sociali sono rispettate e, in presenza di un indice di riferimento, “in che modo tale indice è coerente con tali caratteristiche”.
Infine, per i prodotti, dark green, si distingue a seconda che sia stato disegnato o meno un indice di riferimento: nel primo caso, gli obblighi di trasparenza si appuntano esclusivamente sull’indice imponendo la specificazione della coerenza dell’indice con l’obiettivo e della differenziazione con un indice generale di mercato; nel secondo caso si chiede di includere “la spiegazione del modo in cui tale obiettivo [climatico, sociale o di governance] è raggiunto”.
Oltre tali elementi, si prevede che per i prodotti light e dark green si proceda
- alla pubblicazione nel sito web del soggetto obbligato, ad una descrizione delle caratteristiche ambientali o sociali o dell’obiettivo di investimento sostenibile; e delle informazioni sulle metodologie utilizzate per valutare, misurare e monitorare le caratteristiche ambientali e sociali (con indicazione dei dati e dei criteri utilizzati) (articolo 10);
- Una rendicontazione periodica sui risultati conseguiti (articolo 11).
In via di prima conclusione, dunque, la scelta di “essere sostenibili” viene fortemente penalizzata in termini di costi di compliance, imponendo non solo un’ulteriore informativa a livello di prodotto, ma ulteriori due informative a livello aziendale e di rendicontazione, mentre per i prodotti non green la scelta dell’indicazione dei fattori di rischio ambientali e sociali viene, di fatto, lasciata alla discrezionalità dell’operatore.
4. Gli standard RTS
Gli standard tecnici elaborati dalle autorità di supervisione (ESMA, EBA, EiOPA, di seguito ESAs) se, da un lato, cercano di ridurre il costo di compliance, con ricorso ad una standardizzazione dei modelli di informativa, societaria e di informativa pre contrattuale, predisposti su schede (la soluzione però, anche rispetto agli SDG Starndars elaborati dalle NU, appare più farraginosa), dall’altro lato confermano la scarsa attitudine propulsiva al mondo della finanza sostenibile.
In dettaglio, per i temi di carattere ambientale, nei quali gli schemi di misurazione sono più rodati, gli RTS chiedono ai destinatari una reportistica sulle emissioni di Co2, sul rispetto della biodiversità e sul consumo di acqua, in linea con quella che ad oggi è la prassi nel mercato (pur senza declinare in modo ulteriormente specifico il tema della vita sott’acqua).
Con riguardo ai criteri sociali, si registra, come nel Regolamento, l’ “approccio di rimessa” prima evidenziato: così i principali obblighi di informativa hanno ad oggetto il rispetto della convenzione dei diritti umani, delle regole elaborate in sede OCSE per la buona governance, ed altre disposizioni di carattere transazionale e codici di condotta che, nel pensiero di chi scrive, dovrebbero rappresentare più un requisito di legalità, che l’esplicitazione di un effetto ulteriore (addizionalità, per usare la definizione degli SDG standards) nel raggiungimento degli obiettivi dell’Agenda ONU 2030.
Più efficace, invece, sembra l’informativa che a livello di prodotto gli operatori sono tenuti a dare per i prodotti light green e dark green. In questo ambito, la documentazione è strutturata in modo più lineare ed effettivamente intelligibile anche da un investore retail. Da valutare in senso positivo, l’indicazione delle principali società nel quale il prodotto green investe e l’obbligo di disclosure sul grado di impegno nel raggiungimento di obiettivi di impatto tra i diversi prodotti (: l’obbligo, in altri termini, di chiarire la “sfumatura” di verde del prodotto).
5. Conclusioni
Indubbiamente, i provvedimenti scontano, il ritardo nell’attuazione della tassonomia dei prodotti ad impatto ambientale e sociale promossa dalla Commissione Europea e sulla quale sono state espresse molte perplessità sia dal Parlamento Europeo da parte degli operatori e degli altri stakeholders.
Lo stesso vizio genetico, a monte, si riflette forse in un errore di prospettiva e di tecnica normativa incentrata in un intento definitorio del fenomeno “sostenibilità” che, probabilmente, contrasta e ingessa le dinamiche di un mercato in forte espansione.
In questa prospettiva, un approccio che pare preferibile potrebbe basarsi sul modello terorico delle esternalità (A. Pigou), negative o positive, che un’attività economica genera nel suo svolgersi e, soprattutto, nella definizione di un metodo di calcolo, il più omogeneo possibile, degli effetti positivi e negativi generati dall’attività di impresa.
Sulla base dell’acquisizione di dati che realmente siano in grado di rappresentare gli impatti degli operatori economici nella società e nell’ambiente, la normativa potrebbe rinunciare ad un approccio definitorio e basato su una stretta compliance, per aderire a modelli di normazione principles based (come quelli suggeriti in sede di Starndards SDG) dove sia l’investitore che l’emittente possono confrontarsi, anche all’interno di politiche di engagement, sui risultati prodotti dall’investimento.