Il presente articolo si concentra sulla centralità del rispetto dei fattori ESG, introdotti dalla recente normativa europea, da parte degli amministratori delle imprese operanti nei settori regolati. Se da un lato non può negarsi la finalità di lucro perseguita dagli operatori, dall’altro la conformità della governance ai profili della sostenibilità ambientale e sociale appare sempre più indirizzata a preservare non solo la platea degli stakeholders, ma anche quella degli azionisti, in un contesto di mercato sempre più ispirato da e sensibile a tali tematiche. Affinché la tutela di entrambi i versanti venga garantita, nel prisma dell’effettività, l’Autore pone l’accento sulla necessità di una regolamentazione più chiara e puntuale e un’efficiente cooperazione tra meccanismi di vigilanza e interventi rimediali ex post.
The article focuses on the central role of the compliance with the ESG factors, enforced by the recent European legislation, from directors of those companies active in regulated sectors. On one hand there is not denying that profit purpose pursued by market players, but on the other hand the governance compliance with environmental and social sustainability by the governance body seems to be intended for preserving not only the stakeholders audience, but also the shareholders’ one, within a market context inspired by and close to these matters. In order to ensure the protection of both subjects, within the effectivity perimeter, the Author emphasizes on the need of a clearer and more punctual regulation and on an efficient cooperation between monitoring mechanisms and ex post remedial tools.
“Per il pane e per la pace”
V. Lenin
Sommario[*]: 1. Introduzione: mala tempora currunt. – 2. Considerazioni preliminari: “lo spettro del profitto si aggira per l’Europa”? – 3. I termini del dibattito giuridico-economico: dal particolare (le società) al generale (le regole). – 4. La posizione degli amministratori: doveri fiduciari e business judgment rule. – 5. Il caso di studio: i settori vigilati. – 6. Le possibili soluzioni tra pubblico e privato.
1. Introduzione: mala tempora currunt
È opinione diffusa – e condivisa – quella che legge nella transizione sostenibile del sistema economico l’obiettivo primario della regolamentazione europea dei mercati finanziario, bancario e assicurativo[1].
La proiezione verso un futuro attento a dinamiche ambientali, sociali e di governance, assurge infatti a tratto caratterizzante di strutture che, dopo avere dimostrato un discreto grado di “resilienza” in periodo epidemico[2], sono oggi chiamate a rispondere anche a fini “altri” e, a ben vedere, distinti dagli interessi storicamente connotanti i settori vigilati e gli attori sugli stessi operanti.
Se, per un verso, lo sforzo in tal senso profuso – e cioè le forze messe in campo in virtù di questa nuova policy – è poderoso, abbracciando e coinvolgendo, a monte, tutti i livelli delle autorità regolamentari europee e nazionali, per l’altro verso le criticità che connotano il nuovo trend sostenibile continuano a moltiplicarsi.
Oltre alle più classiche[3] ed oggettive, quali ad esempio la difficoltà di addivenire a indici di valutazione condivisi[4] e a meccanismi capaci di assicurare l’adeguato grado di trasparenza degli investimenti[5] anche e soprattutto tra diverse categorie di “terzi”[6] (per non parlare, tra l’altro, del punto di incontro, ancora da trovare, tra digitalizzazione e sostenibilità), si consolidano oggi sui mercati le problematicità legate allo sconvolgimento geo-politico in corso e, così, alla rivoluzione socio-economica che il tentativo di restaurazione sovietico in Ucraina, con le conseguenti contromisure occidentali, sta causando innanzitutto in Europa[7].
Il profilo, particolarmente attuale, richiede la massima attenzione, poiché capace di mettere in evidenza, da un lato e ad esempio, l’estrema debolezza di finalità ambientali, sociali e di governance (c.d. fattori ESG che, si ricordi, sono cosa diversa dalla più ampia “sostenibilità”) progressivamente imposte, ma forse non ancora del tutto sentite ed anzi viste, dai più, come un “bene superfluo”.
E perché, dall’altro lato, particolarmente idoneo a sottolineare il “costo” (economico, sociale e giuridico) transattivo della transizione in un quadro di riferimento forse non del tutto ripristinato dalle crisi (finanziaria del 2008 e pandemica del 2020) appena trascorse.
2. Considerazioni preliminari: “lo spettro del profitto si aggira per l’Europa”?
Al di là di questioni geopolitiche che, in quanto troppo “fresche” – oltreché troppo complesse per chi scrive –, si pongono fuori dal perimetro di ricerca, un’analisi attualizzata dei temi avanzati in premessa pare opportuna. E ciò con l’intento di comprendere come la “galassia” ESG si stia evolvendo in un framework – quello regolamentare europeo[8] – che parrebbe preferire al più classico fine di lucro e cioè al “bene” profitto, interessi terzi e con il profitto talvolta almeno in apparenza configgenti.
Tale ultimo tratto della regolamentazione trova ragione, a ben vedere, in una sorta di cambio di registro circa il fine ultimo del fare impresa e, di conseguenza, della posizione delle società, ancor più se vigilate, sullo scenario socio-economico complessivo.
Con un approccio per certi versi antitetico alle spinte caratterizzanti la finanziarizzazione globalizzata dei primi anni duemila, da più parti e a più riprese è infatti oggi sostanzialmente posto in dubbio il profitto quale primario e unico obiettivo imprenditoriale; questo, di contro, andrebbe necessariamente accompagnato – se non finanche superato, per alcune posizioni estremiste – da altri obiettivi, capaci di controbilanciare il mero interesse al dividendo dei soci e così di riequilibrare un rapporto altrimenti considerato eccessivamente sbilanciato a favore dei privati e a danno di interessi di sistema.
Come noto ai più, a fronte di ampi e approfonditi dibattiti internazionali[9],[10], ad un approccio c.d. shareholders’ friendly, molto in voga nei decenni passati, è seguita, e si è consolidata, tra studiosi e operatori, una certa lettura “innovativa” dell’impresa – oggi trasfusa, progressivamente e a fortiori, nella regolamentazione settoriale – quale strumento doverosamente ispirato e organizzato anche al perseguimento e alla tutela di finalità vicine alle posizioni degli stakeholders ritenuti, talvolta apoditticamente, i veri guardiani del “bene collettivo” e, dunque, il necessario contrappeso all’ “egoismo” caratterizzante la posizione del socio (tuttavia, cosa spesso scordata, già gravato dal rischio di impresa).
In questo senso, e non senza alcune perplessità di cui infra, si è dapprima sviluppata quella corrente “responsabilizzante” ma non troppo fortunata che, classificata nell’espressione corporate social responsibility (CSR)[11], ha inteso identificare (supposti e im)precisi doveri comportamentali – di natura fin quasi etica – in capo agli attori del mercato nello svolgimento della propria attività economica, a pena di obblighi risarcitori a favore di chi, da quest’ultima, dovesse venire danneggiato. Approccio, questo, a ben vedere sviluppatosi a prescindere dalla effettiva presenza negli ordinamenti di regole già poste a tutela dei terzi ed enfatizzando, su base globale, il carattere strumentale dell’impresa privata per il raggiungimento di interessi “altri”, quali appunto, a mero titolo esemplificativo, la tutela dell’ambiente, delle comunità locali, ecc.
Nondimeno, si è rinvigorita una visione che, oggi particolarmente di moda anche sulla scorta di precise indicazioni europee e di letture forse più politiche che strettamente giuridico-economiche, intende focalizzare le ragioni imprenditoriali attorno al citato acronimo ESG e – più in particolare – ad un’impostazione intesa a fare gravitare gli assi cartesiani di queste ultime intorno ad alcuni principi guida, sinteticamente riassumibili nei seguenti punti principali: (i) un più ampio grado di disclosure di informazioni non finanziarie; nonché (ii) una precisa accountability e un dovere di due diligence in capo a determinate società[12].
3. I termini del dibattito giuridico-economico: dal particolare (le società) al generale (le regole)
Senza volersi addentrare, in questa sede, in una analisi di dettaglio delle molteplici norme europee che, con una certa “ansia da prestazione” quotidianamente affrontano il tema in esame, è bene riassumere sinteticamente i termini di un dibattito che – (i) nel corretto posizionamento dei soci rispetto agli altri portatori di interessi verso il fenomeno imprenditoriale e (ii) nella predisposizione di adeguate ed efficienti regole dei mercati – trova la propria più chiara traduzione.
Tali termini, oggetto d’attenzione da parte dell’accademia e della pratica, parrebbero in principio riassumibili in chiave sintetica, con tutti i caveat del caso e forse in via eccessivamente manichea (ma auspicabilmente chiara), nella seguente contrapposizione: profitto dell’impresa (e, indirettamente, dei suoi azionisti) vs interessi dei terzi.
Gli stessi, nondimeno, hanno un’origine storica e concettuale complessa. Un’origine che, nel recente passato, ha trovato un’importante ricorrenza nel cinquantesimo anniversario dell’articolo di Milton Friedman comparso nel 1970 sul New York Times, intitolato The Social Responsibility of Business is to Increase its Profits, i cui “festeggiamenti” – compendiati nella pubblicazione di una serie di contributi intesi a rendere omaggio al pensiero dell’economista[13] – sono caduti in un periodo in cui la stessa Business Roundtable statunitense (e così i CEO delle più importanti società U.S.A.) ha tentato di ampliare al di là del mero profitto, e con una certa sorpresa, i confini del c.d. corporate purpose.
Orbene, al di là di una rassegna più particolareggiata del tema, e di una più approfondita disamina degli aspetti di dettaglio della questione[14], è opportuno soffermarsi su alcuni concetti base della materia, che tornano utili per prendere posizione nella vicenda in esame, in particolare a favore della tesi già caldeggiata, indirizzata in ogni caso a supportare in primis le ragioni degli azionisti, da ritenersi gerarchicamente sovraordinate a quelle di altri soggetti posti a contatto con l’impresa (ancor più se vigilata).
Quanto precede ricordando che, peraltro, le prime ragioni non per forza devono essere lette in chiave di contrapposizione alle seconde, posto che (i) soprattutto attraverso una più efficiente interlocuzione con i soggetti terzi si possono assicurare marginalità positive – e così profitti – rilevanti in capo a chi, nell’impresa, ha rischiato (parte) del proprio patrimonio; e che, ponendo attenzione alle società settoriali, (ii) è principio già acquisto quello dell’esercizio “saggio” dell’impresa sottoposta a vigilanza, la cui gestione sana e prudente, nonché sorvegliata da un regolatore prudenziale, dovrebbe essere elemento che confermerebbe, a monte, sia la “tenuta” del sistema sia l’interesse dei soci.
In merito, fermo il richiamo al più recente approfondimento dottrinale[15], va infatti preliminarmente ricordato che, quantomeno nel contesto italiano, per espressa previsione normativa il contratto di società, e cioè la forma collettiva dell’esercizio dell’impresa, si presenta innanzitutto quale strumento offerto dall’ordinamento a due o più persone per l’esercizio in comune di un’attività economica al fine di dividerne gli utili. Utili che dunque, ab origine, sono qualificati come unica (o almeno principale) finalità dell’impresa stessa, che questa sia operante o meno su di un mercato regolamentato.
Tale inquadramento normativo, anche se in parte “smussato” da altri interventi di varia natura di seguito indicati, si adatta con particolare semplicità alla grande società a base azionaria, ancor meglio se quotata, laddove l’interesse al valore (i.e. tornaconto) economico dell’azione parrebbe a ben donde divenire il “comune denominatore” che inizialmente spinge gli investimenti degli operatori. Comune denominatore che, per di più e con riferimento ad alcune categorie specifiche di investitori, quali sono quelli istituzionali, ben può poi indirizzarsi verso strategie di lungo termine piuttosto che alla ricerca di un profitto immediato.
Gli azionisti sono dunque, per definizione normativa, orientati al perseguimento di un fine economico che è una forma di remunerazione dell’investimento effettuato e del rischio (anche se patrimonialmente limitato) corso nello svolgimento dell’impresa. E ciò non dovrebbe trovare ostacoli – semmai correttivi utili al fine di evitare utilizzi impropri dell’iniziativa privata – nella recente modifica degli articoli 9 e 41 della Costituzione[16].
4. La posizione degli amministratori: doveri fiduciari e business judgment rule
Il profilo in esame ha precise conseguenze anche in tema di organizzazione e gestione imprenditoriale[17] posto che, secondo un processo di “osmosi”, la virtù degli operatori influenza e caratterizza il mercato, e viceversa.
Tra i tanti argomenti possibili, va infatti ricordato che sotto un punto di vista di governo societario, secondo le regole di riferimento, i gestori, nominati da quei soci (proprietari della società) nei cui confronti intrattengono un rapporto di agency, scontano verso questi ultimi precisi obblighi comportamentali, preordinati a garantire il perseguimento dell’interesse sociale, i.e. il citato corporate purpose, al netto di possibili e probabili comportamenti opportunistici, in primis connotati da un conflitto di interessi reso plausibile dalla nota asimmetria informativa in essere tra i soggetti in questione[18].
Tali obblighi comportamentali, giova sottolineare, ricorrono tuttavia solo con riguardo ai soci, e non già verso soggetti terzi, nei cui confronti gli amministratori in questione agiscono – così come la società, per il loro tramite – necessariamente nel rispetto delle norme di legge, senza ulteriori doveri di natura “fiduciaria” (almeno ad oggi e salvo taluni casi limitati, come forse è quello degli “obbligazionisti sostenibili”?).
Questa circostanza, che nella regolamentazione dei mercati ha innegabile importanza, assume particolare centralità nell’esame che si svolge, posto che conduce a disegnare, con chiarezza, i rapporti di forza intercorrenti tra gli attori in gioco, le relative dipendenze e, dunque e in virtù di queste, la necessità che gli amministratori perseguano tramite la propria azione gestoria non interessi personali (per l’appunto in conflitto) né, all’estremo opposto, estranei alla società (quali sono quelli degli stakeholders), bensì solo, ed esclusivamente, quelli di un ente che, certamente se anche sostenibile, non potrà che giovare di ulteriore “guadagno”, poi indirizzato ai propri soci.
Le considerazioni offerte, si ripete, non mirano certo a esimere gli amministratori – sempre difesi, si ricordi, dal principio della business judgment rule anche in relazione al tema della sostenibilità (che, sempre si ricordi, è concetto più ampio dell’ESG) – da una gestione rispettosa dei terzi, comunque li si intenda classificare, ma si limita a ricordare che l’interesse sociale (comunque lo si voglia posizionare tra contrattualismo e istituzionalismo) è l’interesse che gli amministratori devono perseguire e realizzare. E ciò, ovviamente, anche “a scapito” – fermo restando il rispetto delle leggi, come detto – di interessi sociali (cioè indirizzati al c.d. “bene comune”) che tuttavia “sociali” (nel senso di afferenti alla società quale ente imprenditoriale) non sono.
Di questo la regolamentazione economica deve tenere conto, peraltro senza appesantire il framework normativo di ulteriori previsioni che, nel complesso, delineano un quadro eccessivamente costoso per i relativi operatori.
5. Il caso di studio: i settori vigilati
Anche a fronte di una impostazione marcatamente a favore dello shareholders’ value, è innegabile la rilevanza pratica dei fattori ESG, il cui rispetto – assicurato dall’approccio sostenibile qui in commento – pare porsi sia come finalità dell’azione di governo societario (nella misura in cui ciò sia proporzionato e ragionevole agli obiettivi imprenditoriali), sia e a monte come modalità di estrinsecazione della stessa – e ciò, con innegabili complicazioni già solo per quanto attiene ai criteri di diligenza e informazione che regolano l’azione degli amministratori –, secondo un’impostazione che intende leggere nel rispetto degli indici in oggetto un elemento non antitetico, bensì incentivante, la realizzazione di (ulteriori) profitti.
Il tema che si vuole mettere in luce necessariamente per punti è il seguente, e attiene forse a un ambito più fattuale che teorico, oltreché senza alcun dubbio conscio dell’importanza che l’opinione pubblica ricopre per la buona riuscita dell’attività d’impresa: (i) la considerazione e il rispetto di fattori di natura ambientale, sociale e di governance, come variamente declinati, assumono con tutta evidenza specifica importanza quale termine di riferimento per la gestione della società, traducendone il carattere sostenibile e, conseguentemente, affermandone la compliance di “sistema”; (ii) tale sostenibilità, a sua volta adeguatamente resa nota al mercato per il tramite di strumenti di comunicazione e disclosure, messi a disposizione dell’ordinamento – tra cui il Regolamento (UE) 2020/852 “Tassonomia” e il Regolamento (UE) 2019/2088 relativo all’informativa sulla sostenibilità nel settore dei servizi finanziari (SFDR) –, assume un determinato valore economico, in quanto attrattiva di investimenti che, proprio nella qualità sostenibile appena menzionata, intravedono la direttrice dei propri flussi; (iii) i flussi in questione, come noto, sono orientati dall’umore di investitori che, già solo per motivi reputazionali (ma anche generazionali) affrontano con “spirito nuovo” il tema in esame; (iv) la sostenibilità dell’impresa diviene così innanzitutto “fattore calamita” per gli investimenti; (v) in questo quadro, rispettoso della finalità del lucro, le esternalità positive verso i terzi esistono e assumono pertanto carattere a ben vedere centrale di una gestione, in ogni caso incentrata sulla massimizzazione del profitto dei soci. Profitto che, si ricordi, ha per definizione ricadute positive di sistema: si pensi solo ai consumi, ai successivi (re-)investimenti e a quella tassazione attraverso la quale gli “introiti” privati “contribuiscono”, in misura rilevante, alla realizzazione di interessi della comunità.
Quello che precede parrebbe essere, allo stato attuale e a modesto avviso di chi scrive, un corretto sebbene parziale inquadramento dei fattori ESG e del tema della sostenibilità, secondo un’impostazione che non svaluti impropriamente la posizione di chi corre il rischio di impresa e che, dunque, deve trovare adeguata forma di remunerazione del proprio investimento, anche nei settori vigilati.
Investimento che, giova ricordare, già ad oggi e con notevole spirito imprenditoriale affronta infatti ulteriori costi, per l’appunto indirizzati a individuare – al fine di minimizzarne la ricorrenza ed aumentare i profitti – i margini di rischio legati ad operazioni relative ad ognuno dei singoli fattori ambientale, sociale e di governance, secondo un approccio fisiologicamente market oriented e, si direbbe, pro shareholders’ value.
Quanto in ultimo anticipato vale anche a fronte dei più recenti interventi di autodisciplina che, con riferimento alle società quotate, se da un lato richiedono al consiglio di amministrazione di guidare la società perseguendone il “successo sostenibile”, dall’altro lato definiscono quest’ultimo come “obiettivo che guida l’azione dell’organo di amministrazione e che si sostanzia nella creazione di valore nel lungo termine a beneficio degli azionisti, tenendo conto degli interessi degli altri stakeholder rilevanti per la società”[19].
L’obiettivo in questione è, senza dubbio, di difficile applicazione pratica e, al netto di illuminanti previsioni statuarie a venire, risulterebbe forse connotato da una almeno duplice criticità: quella di “sminuire” le ragioni dell’azionista di breve termine, sull’assunto che solo la creazione di valore nel lungo termine sia per forza di cose l’unica a beneficio di tutti i soci; e quello di imporre, di fatto, un bilanciamento tra gli interessi dei soci e quelli di alcuni stakeholders (così sottovalutando il carattere eterogeneo di questa categoria, composta da soggetti portatori di posizioni magari contrapposte), secondo un’impostazione di difficile soluzione operativa nel caso in cui questi interessi risultino con tutta evidenza confliggenti (ma su questo profilo è senza dubbio utile l’inciso inteso a evidenziare la centralità, tra i tanti, degli stakeholders rilevanti per la società, con evidente delimitazione del raggio d’azione).
Un discorso a parte meritano, poi, le regole che delineano il mercato bancario, in merito alle quali va rilevata una duplice linea d’azione. L’una, di natura “macro” (leggasi l’interesse della BCE e della Banca d’Italia al tema in esame[20]); l’altro, di natura “micro” e consistente nella regolamentazione esterna (ad es. in tema di concessione di credito[21]) e interna (leggasi corporate governance) delle s.p.a. bancarie[22].
In merito all’ultimo profilo, infatti, la Banca d’Italia ha aggiornato la Circolare 285 in tema di Disposizioni di Vigilanza in materia di governo societario; nella nuova versione del documento viene richiesto all’organo con funzione di supervisione strategica di definire strategie aziendali capaci di tenere in considerazione, inter alia, gli obiettivi di finanza sostenibile e, in particolare, l’integrazione dei fattori ambientali, sociali e di governance (ESG) nei processi relativi alle decisioni aziendali.
Profilo, anche questo, di non facile trattazione e in ogni caso da porre in relazione al già citato principio cardine del settore bancario (così come di quello assicurativo), relativo alla “sana e prudente gestione” di un ente privato ma dotato di innegabili ricadute di sistema[23].
Le banche, si ritiene, avranno un effetto “leva” per la tematica della sostenibilità e della salvaguardia dei fattori ESG: non è infatti astruso pensare che solo i progetti rispettosi di tali profili divengano, in futuro, meritevoli di finanziamenti, con conseguente effetto “incentivante” per gli operatori a dotarsi di strutture idonee e ritenute meritevoli dagli enti creditizi, nuovi “gatekeepers” del sistema. Il tutto, si ripete, fermo un guadagno in capo a questi ultimi, altrimenti gravati di compiti e responsabilità non proporzionate al rischio loro allocato.
6. Le possibili soluzioni tra pubblico e privato
Ancora oggi, e ancor più a fronte del nuovo trend sostenibile, va dunque rimarcata l’importanza centrale del profitto sui mercati, anche quelli vigilati, da intendersi quale fine ultimo di un’attività di impresa progressivamente sempre più compliant con i principi ESG.
Questa, in particolare, dovrà infatti necessariamente essere gestita, anche al fine di una maggiore utilità economica, nel rispetto di determinati presidi esterni – quali i fattori ambientali, sociali e di governance, che attengono quindi alla modalità, oltreché al fine, dell’attività in questione – apparentemente posti solo a difesa degli interessi degli stakeholders ma, a ben vedere, scritti anche a tutela anche degli azionisti e dei loro obiettivi economici, altrimenti “puniti” da un mercato sempre più esigente in tema di sostenibilità.
Tale tutela, tuttavia, deve ad oggi (e in futuro) essere predisposta non già attraverso formule “nebulose” e principi di difficile attuazione, bensì grazie al ricorso a un adeguato framework normativo e regolamentare, capace di precisare indici di riferimento dotati di quell’elevato grado di certezza e oggettività che serve ad assicurare un altrettanto elevato grado di fiducia – e, dunque, di investimento e stabilità – sui mercati.
Come precisato in chiave accademica di recente[24], il compito della regolamentazione è tutt’altro che semplice posto che le formule utilizzate da parte delle istituzioni presentano spesso “una vaghezza tale da renderle giuridicamente pericolose o poco utili”, essendo peraltro “discutibile” – e, a modesto avviso di scrive, tout court non corretto – “voler attribuire alle imprese un ruolo di supplenza di regole chiare, puntuali e prescrittive che distinguano ciò che è lecito da ciò che non lo è, imponendo (..) generali (e potenzialmente sterminati) obblighi di “comportarsi bene”, con concreto “rischio (..) di avvicinarsi a una discutibile “legislazione dell’etica”.
Un’adeguata e seria ripartizione di competenze, capace di travalicare i confini del politically correct e delle “misure di facciata” è, dunque, più che mai utile se rapportata al nesso intercorrente tra corporate purpose ed ESG, oltreché necessaria a comprendere le reali finalità che orientano l’operato di due separate categorie di attori del mercato: quelli privati, intesi a perseguire in primis i propri interessi (leggasi profitto), e quelli pubblici, che invece dovrebbero essere necessariamente ed esclusivamente orientati, nella materia dei mercati, a realizzare adeguate misure di verifica ex ante (ad es. in sede di ingresso) ed ex post (ad es. con meccanismi di allontanamento), volte a evitare comportamenti patologici (tipo il “greenwashing”) delle società a danno di chi, con esse, entra a vario titolo in contatto. Una posizione, quest’ultima, cioè legittimamente e fieramente prudenziale e non già “contaminata” da possibili revirement strutturali o interventismi di vario genere, invece sempre più frequenti all’orizzonte (ancor più a fronte della recente ondata bellica).
In conclusione: la predisposizione di efficienti architetture di vigilanza, nonché di ottimali meccanismi risarcitori e compensativi, contemplati tanto dal diritto civile (e in questo penso ad es. sia alle misure di diritto societario, sia a quelle di diritto del lavoro) quanto dal diritto penale, così come la strutturazione di adeguati assetti di governance e politiche di remunerazione quale presidio nei confronti di misure eccessivamente di breve termine potrebbero dunque aiutare a risolvere, a monte, la problematica relativa ad un tema – quello della sostenibilità dell’agire imprenditoriale – forse per ora indebitamente riversato, in via (di fatto) esclusiva e un po’ confusionale, sugli operatori da parte di policy makers pubblici.
Il percorso che porterà a chiarire la questione qui sinteticamente affrontata è ancora lungo, ma porre ordine tra gli elementi in discussione è il primo passo per una più attenta analisi degli stessi. Quanto precede, nella consapevolezza che le esigenze e le aspirazioni dell’oggi, anche se estremamente nobili e condivisibili, ben potrebbero cambiare nel domani. E che, all’atto pratico, quando posti dinanzi a situazioni insuperabili, non di virtù, ma di sopravvivenza, di pace e di pane, gli uomini tornano a parlare. Un po’ come d’altronde scrisse – oggi sembra quasi paradossale – il primo dei sovietici, più di cent’anni orsono[25].
* Lo scritto amplia ed approfondisce alcune delle tesi presentate nel mio Se non per un profitto, perché mai?, in IBL Focus n. 352 del 9 febbraio 2022.
[1] Per un inquadramento puntuale sull’attuale contesto di riferimento cfr. F. Capriglione, Il sistema finanziario verso una transizione sostenibile, in Riv. Trim. Dir. Econ., 2021, 1, I, p. 241 ss.; nonché Id., Finanza e politica nell’UE dopo la pandemia. Verso un auspicabile incontro, in Contratto e Impresa Europa, 2021, 1, p. 171 ss.
[2] Offre un’analisi della questione F. Capriglione, La finanza UE al tempo del coronavirus, in Riv. Trim. Dir. Econ., 2020, 1, I, p. 1 ss.; e Id., L’industria finanziaria dopo la pandemia. Il caso Italia, ibid., 2021, 1, I, p. 1 ss.
[3] Si interroga criticamente sul tema S.A. Cerrato, Appunti per una “via italiana” all’ESG: l’impresa “costituzionalmente solidale” (anche alla luce dei “nuovi” artt. 9 e 41, comma 3, Cost.), in corso di pubblicazione su An. Giur. Economia, 2022, p. 1 ss.
[4] In merito, ad esempio ed ex multis, M. Billio et al., Inside the ESG ratings: (Dis)agreement and performance, in Corporate Social Responsibility and Environmental Management, 2021, 28, 5, p. 1426 ss.
[5] Sul punto sia consentito il richiamo a M.L. Passador e F. Riganti, Less is More in the Age of Information Overload: The Paradigm Shift from a Shareholder- To a Stakeholder-Oriented Market, in New York Univ. Journal of Law and Bus., 2019, p. 567 ss.
[6] Si veda, in merito, M. Painter, Pursuing Stakeholder Capitalism Is an Impossible Task When Stakeholders Have Different Beliefs, in Promarket, 10 settembre 2020, reperibile al seguente link del centro Promarket: https://www.promarket.org/2020/09/10/pursuing-stakeholder-capitalism-is-an-impossible-task-when-stakeholders-have-different-beliefs/.
[7] Sul punto, e di recente, si veda P. Hollinger, Ukraine war prompts investor rethink of ESG and the defence sector, in Financial Times, 9 marzo 2022; e A. O. Emmerich, War in Ukraine: Is ESG at a Crossroads?, in Harvard Business Law Forum, 24 marzo 2022.
[8] Per un inquadramento puntuale cfr., ex multis, D. Avramov et al., Sustainable investing with ESG rating uncertainty, in Journal of Financial Economics, 2021; D. Busch, G. Ferrarini e S. Grünewald, Sustainable Finance in Europe, Londra, 2021; E. Clementino e R. Perkins, How Do Companies Respond to Environmental, Social and Governance (ESG) ratings? Evidence from Italy, in Journal of Business Ethics, p. 379 ss.; V. Diaz, Reconsidering systematic factors during the Covid-19 pandemic – The rising importance of ESG, in Finance Research Letters, 2021; C. Economidou et al., Does Sustainable Investing matter to the Market?, reperibile al seguente link: https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=3965134; A. Edmans, Grow the Pie: How Great Companies Deliver Both Purpose and Profit, Cambridge, 2020; A. Enger, L. Enriques, G. Ringe, U. Varottil e T. Wetzer, Business Law and the Transition to ta Net Zero Economy, Monaco, 2022; D. Freiberg, J. Rogers e G. Serafeim, How ESG Issues Become Financially Material to Corporations and Their Investors, in Harvard Business School Working Paper, 20-056; G. Friede, T. Busch e A, Bassen, ESG and financial performance: aggregated evidence from more than 2000 empirical studies, in Journal of Sustainable Finance & Investment, 2015, p. 210 ss.; S.L. Gillan et al., Firms and social responsibility: A review of ESG and CSR research in corporate finance, in Journal of Corporate Finance, 66 (2021); C. Mayer, Prosperity, Oxford, 2018. Di recente si veda anche J.L Hansen, Unsustainable Sustainability, reperibile in Oxford Business Law Blog dell’8 marzo 2022.
[9] Per tutti cfr. L.A. Bebchuk e R. Tallarita, The Illusory Promise of Stakeholder Governance, in Cornell Law Review, 2020, p. 164 ss. Nonché, più datato, O. Hart e L. Zingales, Companies Should Maximize Shareholder Welfare Not Market Value, in ECGI – Finance Working Paper 521/2017, p. 1 ss.
[10] Quanto al contesto italiano si vedano, di recente, M. Stella Richter jr, Long termism, in Riv. Soc., 2021, p. 16 ss. e U. Tombari, Corporate purpose e diritto societario: dalla “supremazia degli interessi dei soci” alla libertà di scelta dello “scopo sociale”?, in Riv. Soc., 2021, p. 3 ss.
[11] In argomento v. di interesse C. Angelici, Divagazioni sulla “responsabilità sociale” d’impresa, in Riv. Soc., 2018, p. 6 ss.
[12] Oltre alla normativa citata al §5 infra, si vedano, da ultimo, le proposte di Direttiva 2021/0104 (COD) del 21 aprile 2021 (Sustainability Reporting Directive o CSRD) e 2022/0051 (COD) del 23 febbraio 2022 (Corporate Sustainability Due Diligence o CSDD). Sul punto si cfr. di recente R. Natoli, La responsabilità civile d’impresa nella proposta di Direttiva U.E. on Corporate Sustainability Due Diligence, in Dialoghi di Diritto dell’Economia, Marzo 2022, p. 1.
[13] I contributi sono raccolti nell’ebook Aa.Vv., Friedman 50 Years Later, reperibile al seguente link del centro Promarket: https://www.promarket.org/wp-content/uploads/2020/11/Milton-Friedman-50-years-later-ebook.pdf.
[14] Utile e sempre attuale, sul punto, il richiamo a F. Debenedetti, Fare profitti. Etica dell’impresa, Venezia, 2021.
[15] In merito al quale si ricordano le considerazioni offerte in occasione del XXXIV Convegno di studio su La nuova società quotata. Tutela degli stakeholders, sostenibilità e nuova governance, qui reperibile: https://www.youtube.com/watch?v=xi8c0D_A1LE.
[16] In relazione a tale modifica, apportata dalla legge costituzionale 11 febbraio 2022, n. 1, cfr. il Dossier del 7 febbraio 2022, qui reperibile: http://documenti.camera.it/leg18/dossier/pdf/AC0504c.pdf?_1649679794587. Nonché S.A. Cerrato, op. cit.
[17] Per un ottimo e recente inquadramento del tema cfr. R. Rolli, L’impatto dei fattori ESG sull’impresa. Modelli di governance e nuove responsabilità, Bologna, 2021. Ed anche G. Riolfo, La “visione” europea di impresa “sostenibile”: mito o realtà?, in Contratto e Impresa Europa, 2021, 3, p. 533 ss., ove ulteriori e puntuali riferimenti dottrinali.
[18] Sul punto, per tutti, il preciso e lucido inquadramento di G. Alpa, Responsabilità degli amministratori di società e principio di «sostenibilità», in Contratto e Impresa, 2021, 3, p. 721 ss. Nonché la rassegna di M.V. Zammitti, L’impresa socialmente irresponsabile: un primo itinerario di giurisprudenza, anche in prospettiva comparata, in Soc., 2021, 8-9, p. 1018 ss. Di stampo internazionale si vedano invece A. Orowitz e R. Kumar, How Investors are Assessing Directors on ESG Matters, in Harvard Business Law Forum, 11 aprile 2022 e S. Bainbridge, Don’t Compound the Caremark Mistake by Extending it to ESG Oversight, in UCLA School of Law, Law-Econ Research Paper No. 21-10.
[19] Un’analisi del tema è offerta da M. Ventoruzzo, Il nuovo codice di corporate governance 2020: le principali novità, in Soc., 2020, 4, p. 439 ss.
[20] Si pensi solo alla “Final guide on climate-related and environmental risks for banks” della Banca Centrale Europea e alla “Carta degli investimenti sostenibili” della nostra autorità centrale, datata luglio 2021.
[21] In argomento va annoverato il lavoro EBA “Report on management and supervision of ESG risks for credit institutions and investment firms” del giugno 2021, e qui reperibile: https://www.eba.europa.eu/eba-publishes-its-report-management-and-supervision-esg-risks-credit-instit.utions-and-investment.
[22] Sul punto si vedano già le riflessioni di F. Capriglione e A. Sacco Ginevri, Metamorfosi della governance bancaria, Torino, 2019.
[23] In argomento v. F. Sartori, Disciplina dell’impresa e statuto contrattuale: il criterio della «sana e prudente gestione», in Banca, Borsa e Tit. Cred., 2017, I, p. 131 ss.
[24] In argomento cfr. M. Ventoruzzo, Troppa responsabilità per l’impresa, su Lavoce.info del 2 aprile 2021, reperibile al seguente link: https://www.lavoce.info/archives/73308/troppa-responsabilita-per-limpresa/.
[25] Così V. Lenin, Per il pane e per la pace, in Jugend-Internationale, 1918, n. 11 e qui reperibile: https://www.marxists.org/italiano/lenin/1917/12/panepace.htm.