Sommario: 1. Premessa – 2. Associazione per delinquere – 3. Riciclaggio e autoriciclaggio – 4. False comunicazioni sociali – 5. Truffa ai danni dello Stato – 6. Direttiva in materia di tutela penale degli interessi finanziari dell’Unione Europea.
1. Premessa
È noto che, a dispetto del fervido dibattito in materia, le fattispecie penal-tributarie non sono attualmente contemplate nell’elenco dei reati presupposto che determinano la responsabilità amministrativa da reato dell’ente ai sensi del d.lgs. n. 231/2001.
La questione, posta al centro del dibattito politico-criminale, nel maggio 2014 è stata sottoposta all’attenzione dell’assemblea legislativa con una proposta di introduzione dell’art. 25 terdecies nel decreto 231, norma che avrebbe dovuto disciplinare le sanzioni applicabili agli enti per i reati tributari, al fine di colmare ciò che veniva definita come «una lacuna ingiustificabile non soltanto sul piano politico-criminale […] ma anche su quello sistematico»[1].
È infatti innegabile che l’assenza di tali fattispecie nel catalogo dei reati presupposto appaia quantomeno contraddittoria, laddove si consideri che la giurisprudenza di legittimità ammette la confisca in via diretta dei beni di una persona giuridica il cui legale rappresentante sia autore di una violazione tributaria: l’ente viene colpito per effetto dell’interpretazione giurisprudenziale, pur non essendogli addebitabile alcuna responsabilità per le violazioni fiscali commesse nel suo interesse o a suo vantaggio.
Tale orientamento è stato recepito dalla nota sentenza n. 10561/2014 (c.d. Gubert), la quale, intervenendo a valle di un contrasto insorto in seno alle sezioni semplici sulla possibilità di disporre il sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta dei beni appartenenti a una persona giuridica per le violazioni tributarie commesse dal legale rappresentante della stessa, ha affermato che «è consentito nei confronti di una persona giuridica il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di denaro o di altri beni fungibili o di beni direttamente riconducibili al profitto di reato tributario commesso dagli organi della persona giuridica stessa, quando tale profitto (o beni direttamente riconducibili al profitto) sia nella disponibilità di tale persona giuridica»[2].
Con la citata sentenza, le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno riconosciuto l’irrazionalità dell’assetto legislativo in materia, evidenziando come «il mancato inserimento dei reati tributari fra quelli previsti dal d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, rischia di vanificare le esigenze di tutela delle entrate tributarie», oltre a sottolineare il rischio che «la stessa logica che ha mosso il legislatore nell'introdurre la disciplina sulla responsabilità amministrativa degli enti finisca per risultare non poco compromessa proprio dalla mancata previsione dei reati tributari tra i reati-presupposto nel d.lgs. n. 231 del 2001, considerato che, nel caso degli enti, il rappresentante che ponga in essere la condotta materiale riconducibile a quei reati non può che aver operato proprio nell'interesse ed a vantaggio dell'ente medesimo»[3].
Nonostante il severo monito proveniente dalla Corte di legittimità e gli auspici contenuti nella proposta legislativa sopra citata, ad oggi il Parlamento ha ritenuto di non inserire gli illeciti penali tributari fra quelli per i quali è configurabile la responsabilità amministrativa da reato dell'ente.
Deve però segnalarsi che, sul fronte sovranazionale, il 5 luglio 2017 è stata approvata la cd. Direttiva PIF ((UE) 2017/1371), relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell'Unione mediante il diritto penale, la quale ha apportato profonde innovazioni, tra gli altri, sui rapporti tra reati tributari e responsabilità degli enti collettivi, con l’espressa inclusione delle frodi IVA connotate da gravità tra i reati-presupposto della responsabilità delle persone giuridiche.
Nell’ottica di dare attuazione alla direttiva, il legislatore interno sarà dunque chiamato ad includere gli illeciti penal-tributari nel catalogo dei reati-presupposto che determinano la responsabilità «amministrativa da reato» degli enti ai sensi del d.lgs. n. 231/2001.
Allo stato, tuttavia, non vi è alcuna previsione in tal senso.
Ciononostante, il catalogo dei reati presupposto contempla oggi una serie di fattispecie che sono idonee a determinare, seppur soltanto in via indiretta, la responsabilità dell’ente come conseguenza della commissione di reati fiscali da parte di soggetti apicali ovvero sottoposti. In altri termini, in via interpretativa si finisce per dilatare il catalogo dei reati presupposto, seppur in modo del tutto indefinito (e, ad avviso di chi scrive, in violazione dei principi di legalità e di tassatività).
Tra le principali figure criminose idonee a far sorgere tale effetto, si segnalano il delitto di associazione a delinquere di cui all’art. 416 c.p., di riciclaggio e autoriciclaggio previsti, rispettivamente, agli artt. 648 bis e 648 ter.1 c.p., nonché di truffa in danno dallo Stato ex art. 640, comma 2, n. 1 c.p. e, quanto ai reati collocati al di fuori del codice penale, quelli di false comunicazioni sociali, di cui agli artt. 2621 e 2622 c.c.
Per fronteggiare l’estensione in via interpretativa della responsabilità degli enti collettivi, si rende evidente la necessità di prevedere e prevenire, nei modelli organizzativi adottati dalle imprese, numerosi reati-fine dell’associazione per delinquere o reati-base del riciclaggio e dell’autoriciclaggio, anche se non previsti dal decreto 231, e nonostante le sanzioni ivi contemplate non siano legate alla commissione dei reati tributari.
Come acutamente osservato da Confindustria nell’imminenza dell’introduzione del delitto di autoriciclaggio nel nostro ordinamento, siffatta interpretazione porterebbe a «sovraccaricare il sistema di prevenzione attivato dall’impresa, vanificandone l’efficacia» in quanto «sul piano operativo, ne potrebbe derivare un’attività di aggiornamento del Modello Organizzativo pressoché impraticabile»: ne consegue che taluni reati, quale l’autoriciclaggio e l’associazione per delinquere, «dovrebbe[ro] rilevare ai fini dell’eventuale responsabilità dell’ente soltanto se il reato-base rientra tra quelli presupposto previsti in via tassativa dal Decreto 231» [4].
Ebbene, nell’ottica di allertare gli operatori del mercato e gli interpreti rispetto alle possibili conseguenze derivanti da siffatte contestazioni, appare utile analizzare come le fattispecie suindicate possano veicolare una responsabilità dell’ente per i reati tributari, e quali siano le conseguenze, in termini sanzionatori, di tale implicito ampliamento del catalogo dei delitti presupposto agli illeciti penali tributari.
2. Associazione per delinquere
L’associazione per delinquere è stata introdotta nel catalogo dei reati presupposto con la l. n. 94/2009: suo tramite, la giurisprudenza è giunta ad affermare la responsabilità dell’ente anche nei casi in cui l’associazione, promossa, costituita od organizzata dai vertici aziendali o dai loro sottoposti, sia finalizzata alla commissione di delitti tributari nell’interesse ovvero a vantaggio della persona giuridica.
Tale eventualità è, come detto, duramente avversata dalla dottrina, che censura l’inammissibile aggiramento del principio di tassatività dei reati presupposto determinato dall’ammissione della responsabilità dell’ente in relazione al reato associativo finalizzato alla commissione di reati extra-catalogo.
Siffatta apertura all’atipicità è stata avversata anche da alcune pronunce della Suprema Corte, atteso che si tratterebbe di «un'ingiustificata dilatazione dell'area di potenziale responsabilità dell'ente collettivo, i cui organi direttivi, peraltro, verrebbero in tal modo costretti ad adottare su basi di assoluta incertezza, e nella totale assenza di oggettivi criteri di riferimento, i modelli di organizzazione e di gestione previsti dal citato d.lgs., art. 6, scomparendone di fatto ogni efficacia in relazione agli auspicati fini di prevenzione»[5].
Nondimeno, in altre – numerose – occasioni la giurisprudenza ha ammesso tale interpretazione estensiva, legittimando la possibilità di disporre il sequestro preventivo a fini di confisca sul profitto derivante dai reati di frode fiscale rientranti nel programma associativo dell’organizzazione criminale. In tali ipotesi, la Suprema Corte ha però chiarito che, difettando la previsione della responsabilità amministrativa dell’ente in relazione ai reati fiscali, risulta indispensabile la prova rigorosa della sussistenza dell’associazione per poter procedere al sequestro preventivo sui beni della società.
Tale orientamento, di carattere maggioritario, prende dunque le distanze dalle pronunce secondo cui, allorché si proceda per il delitto di associazione per delinquere finalizzata alla commissione di reati ex se inidonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo, la rilevanza di questi ultimi non può essere indirettamente recuperata, ai fini della individuazione del profitto confiscabile, per il loro carattere di delitti scopo del reato associativo.
In altri termini, la tesi prevalente assume che «il profitto inteso come l’insieme dei benefici tratti dall’illecito può consistere anche nel complesso dei vantaggi direttamente conseguenti dall’insieme dei reati fine, dai quali il reato associativo è del tutto autonomo e la cui esecuzione è agevolata proprio dall’esistenza di una stabile struttura organizzativa e da un comune progetto delinquenziale», anche in considerazione del fatto che il reato di associazione per delinquere «implica che gli associati agiscano nella consapevolezza delle attività volte alla realizzazione del comune programma criminale e dei profitti che ne derivano, ossia dei profitti che, in qualunque forma, l’associazione vada concretamente e periodicamente a conseguire in maniera duratura e permanente, anche e soprattutto attraverso la consumazione dei reati programmati, sicché non vi è dubbio che i proventi delittuosi, realizzati con la consumazione dei detti reati costituisce il vantaggio per il quale il reato associativo è stato concepito»[6].
Muovendo da tali considerazioni, la giurisprudenza di legittimità ha dunque affermato che il profitto dei reati-fine ben può essere direttamente considerato come profitto del reato associativo[7].
Ebbene, pur in assenza di una previsione di responsabilità dell’ente derivante da illeciti penal-tributari, sulla base di tali argomentazioni la Suprema Corte è giunta di fattoad ammettere una generalizzata confiscabilità dei benefici economici che una società può ottenere dalla commissione di tali reati.
Nell’intento di fornire una legittimazione normativa di tale indirizzo interpretativo, è stato osservato che, a ben vedere, in tali ipotesi non può ravvisarsi alcun vulnus al principio di legalità e a quello di tassatività che ne è corollario, atteso che «su un piano sostanziale, l’ente risponde non già dei reati-fine, ma delle “proiezioni patrimoniali” dell’insieme dei reati-fine, in quanto convogliati dalla forza del vincolo associativo nell’effetto di potenziamento dei precipitati lesivi che da ciascuno deriva»[8].
Si noti che, come rilevato dalla Circolare n. 1/2018 della Guardia di Finanza, anche la prassi operativa ha ammesso che all’ente possano essere irrogate le sanzioni previste dal decreto 231 allorché l’associazione per delinquere sia finalizzata alla commissione di delitti tributari[9].
3. Riciclaggio e autoriciclaggio
Quanto ai delitti di riciclaggio e autoriciclaggio di cui agli artt. 648 bis e 648 ter.1 c.p., appare utile anzitutto ripercorrere le ragioni che depongono per la configurabilità di tali reati con riferimento all’evasione fiscale.
L’esigenza di punire le condotte di “lavaggio” del denaro sporco affonda le proprie radici in un contesto anzitutto sovranazionale: è proprio a livello di diritto comunitario e pattizio che è stata originariamente espressa la necessità di ricorrere allo strumento penale per reprimere i fenomeni di riciclaggio (e di autoriciclaggio) di matrice tributaria.
Una prima conferma di tale tendenza si ha con la Convenzione di Strasburgo del 1990 che, nell’ampliare il catalogo dei predicate offences del riciclaggio a tutti i delitti non colposi, contemplava anche i delitti tributari (non essendo previste in tale ambito fattispecie a titolo di colpa).
E ancora, guardando all’evoluzione della normativa comunitaria contenuta nelle cd. direttive antiriciclaggio, si registra un progressivo ampliamento dell’elenco dei reati presupposto sino a ricomprendere – tra gli altri – i reati fiscali relativi ad imposte dirette e indirette, oggi espressamente previsti dall’art. 3.4, lett. f) della Dir. (UE) 2015/849, che li annovera nella categoria dei reati (gravi) individuati mediante il criterio della durata della sanzione[10].
Nel menzionare esplicitamente i delitti fiscali quali presupposto del money laundering, la quarta direttiva recepisce quanto richiesto nella versione del 2012 delle Raccomandazioni del GAFI, che menzionava espressamente i reati tributari relativi alle imposte dirette ed indirette nelle designated categories of offences: a tal riguardo, il Presidente dell’organizzazione Bjørn S. Aamo evidenziava l’importanza di questa inclusione ai fini del contrasto internazionale al riciclaggio, affermando che «this will provide a better foundation for international cooperation against tax crimes and tax evasion»[11].
Sul piano nazionale, nell’ambito del lavorio parlamentare che ha preceduto l’introduzione del delitto di autoriciclaggio, non può sottacersi come la proposta di riforma elaborata dalla Commissione ministeriale presieduta dal Professor Giovanni Fiandaca indicasse espressamente quali proventi del riciclaggio (e dell’autoriciclaggio) i «denari, beni o altre utilità, anche ottenute o ricavate da un delitto tributario o doganale»[12], così ponendosi in linea con quanto richiesto a livello internazionale.
Da ultimo, un’osservazione empirica del fenomeno del riciclaggio non può che farne emergere la stretta connessione con l’evasione fiscale: invero, il ricorso a strumenti giuridici ed espedienti idonei ad assicurare anonimato e opacità è comune alla realizzazione di entrambe le tipologie di disegni criminosi[13].
Ciò premesso in ordine alla configurabilità del riciclaggio e dell’autoriciclaggio da delitti fiscali, in questa sede deve osservarsi che entrambe le figure criminose in analisi costituiscono reati presupposto della responsabilità dell’ente ai sensi del decreto 231, come previsto dall’art. 25 octies del decreto medesimo.
È evidente che tale aspetto abbia molte ricadute sul piano pratico: qualora, come nel caso dei reati tributari, il delitto non colposo a monte del riciclaggio o dell’autoriciclaggio non sia compreso nel catalogo dei reati 231, la circostanza che tale reato debba essere considerato ai fini della predisposizione del modello organizzativo mal si concilia con i principi di legalità e determinatezza. Difatti, il modello dovrebbe essere realizzato sulla base delle aree di rischio riferite ai soli reati presupposto, e non anche ad ulteriori reati, a pena di violare i principi predetti e di vanificare qualsiasi finalità di efficacia dell’azione preventiva e sanzionatoria[14].
Laddove non si voglia condividere tale impostazione, dovrebbe quanto meno richiedersi che il reato base del riciclaggio o dell’autoriciclaggio, pur non compreso nel catalogo dei reati 231, venga comunque commesso nell’interesse o a vantaggio dell’ente: è questo il caso dei reati tributari posti in essere dall’amministratore della società, evidentemente in favore dell’ente[15].
Secondo una diversa tesi, a venire in rilievo rispetto alla mappatura delle aree a rischio e della predisposizione delle procedure di controllo proprie del modello non sarebbero i numerosi delitti potenzialmente idonei a costituire la base del riciclaggio o dell’autoriciclaggio, bensì i flussi economici e finanziari di cui dev’essere tracciata la provenienza lecita. Come è stato acutamente osservato in dottrina, la necessità del controllo di tali flussi non potrebbe in alcun modo configurare ex se una violazione del principio di tassatività: al contrario, siffatto controllo è previsto dallo stesso decreto 231, che all’art. 6, comma 2, lett c) pone come requisito di adeguatezza del modello «[l’] individuare modalità di gestione delle risorse finanziarie idonee ad impedire la commissione dei reati»[16].
Ne deriva che nulla osterebbe a configurare una responsabilità dell’ente per riciclaggio o autoriciclaggio del profitto dei reati fiscali. Tale interpretazione estensiva è stata condivisa anche dalla prassi, come risulta dalle indicazioni della Circolare 1/2018 della Guardia di Finanza: in particolare, richiamando la giurisprudenza di legittimità, la citata Circolare precisa che quando l’amministratore si impossessi del profitto di un illecito penale tributario e lo renda oggetto di condotte di riciclaggio, tale provento potrà essere oggetto di confisca[17].
4. False comunicazioni sociali
Sui rapporti tra il falso in bilancio ex art. 2621 e 2622 c.c. e i delitti tributari di natura dichiarativa, la giurisprudenza di legittimità si è tradizionalmente assestata nel senso di ritenere sussistente un rapporto di specialità ai sensi dell’art. 15 c.p.[18], sempre che il falso in bilancio sia realizzato all’esclusivo fine di evadere le imposte[19].
In altri termini, allorché un contribuente commetta una frode fiscale ricorrendo ad operazioni simulate, servendosi di documenti falsi o ponendo in essere comportamenti in qualunque modo fraudolenti, e dunque realizzando condotte penalmente rilevanti come falso in bilancio a fini unicamente fiscali, potrà trovare applicazione il solo delitto tributario in ossequio al canone di specialità. Diversamente, infatti, l’agente verrebbe ad essere sanzionato due volte per il medesimo fatto, atteso che la condotta sussumibile nel delitto di false comunicazioni sociali, in tali ipotesi, altro non è che un segmento della più ampia condotta riconducibile alla frode fiscale: ne deriva che, al ricorrere delle suindicate condizioni, può – e deve – ritenersi integrata soltanto quest’ultima fattispecie.
In tale scenario, è evidente che non possa essere ravvisata alcuna responsabilità in capo all’ente collettivo, atteso che i reati tributari non sono attualmente ricompresi nel novero dei delitti presupposto.
Diverso è il caso in cui ci si trovi dinnanzi ad un concorso di reati, che si ha quando, nel realizzare le predette condotte illecite, al fine di evasione si accompagni un ulteriore fine, tipico del reato societario, che è quello di conseguire un ingiusto profitto per sé o per altri.
Come noto, gli illeciti societari di false comunicazioni sociali sono contemplati nel catalogo dei reati presupposto della responsabilità amministrativa degli enti[20]. Ciò posto, è evidente che qualora gli apicali di una società, ovvero i soggetti subordinati al management, realizzino condotte illecite nell’interesse o a vantaggio dell’ente, al duplice scopo di evadere le imposte e di predisporre un bilancio mendace per il conseguimento di un ingiusto profitto, troveranno applicazione le sanzioni che il decreto 231 riconnette alla commissione dei reati societari.
Ebbene, quanto al profitto sequestrabile e confiscabile, stante la previsione dei soli reati societari all’interno del catalogo dei reati presupposto, deve ritenersi che il provvedimento ablativo potrà incidere unicamente sul profitto derivante dal reato societario, e non invece su quello da reato tributario[21].
5. Truffa ai danni dello Stato
Un’ulteriore fattispecie di reato il cui rapporto con i delitti fiscali, in particolare di emissione e di utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti ex artt. 2 e 8 d.lgs. n. 74/2000, è stata per lungo tempo oggetto di dibattito in sede giurisprudenziale e dottrinale, è la truffa ai danni dello Stato prevista dall’art. 640, comma 2, n. 1 c.p..
Diversamente da quanto rilevato con riferimento al delitto di false comunicazioni sociali, è andata affermandosi la tesi per la quale le fattispecie in commento sarebbero regolate non già dal principio di specialità di cui all’art. 15 c.p., bensì dal principio di consunzione, normativamente non previsto ma invocato da numerose pronunce della Suprema Corte.
Nella specie, dato il maggior disvalore dell’offesa arrecata dal delitto di frode fiscale rispetto a quello di truffa aggravata, ne deriverebbe che quest’ultima fattispecie non potrebbe trovare applicazione in caso di concorso (apparente) tra le norme incriminatrici[22].
In tal senso, la Suprema Corte ha osservato che «l'apprezzamento negativo della condotta è tutto ricompreso nella prima norma D.lgs. n. 74 del 2000, art. 2, che prevede il reato più grave per cui il configurare anche la previsione meno grave art. 640 c.p., che di per sé integra una diversa fattispecie, comporterebbe un ingiusto moltiplicarsi di sanzioni penali»[23].
Quanto alla responsabilità del soggetto collettivo, sulla scorta di tali argomentazioni, la Corte ha censurato l’espediente per il tramite del quale l’ente viene ad essere sanzionato per il delitto tributario che assorba la truffa in danno dello Stato. In particolare, non appare condivisibile, in quanto in violazione del principio di stretta legalità, l’interpretazione che valorizzi i soli elementi della truffa aggravata ai danni dello Stato contenuti nel delitto di frode fiscale ai fini di colpire l’ente: così facendo, il delitto tributario risulterebbe irragionevolmente scomposto «al fine di far derivare, da una parte artificialmente separata della condotta posta in essere ed isolatamente riguardata, quelle conseguente sanzionatorie che solo da essa, e non invece da quella globalmente considerata dalla legge, conseguirebbero»[24].
È evidente che, così come per il falso in bilancio, anche in questo caso non è dato rinvenire un rapporto di specialità (o di consunzione), bensì un concorso di reati, allorché l’attività ingannatoria venga posta in essere anche per fini ulteriori e diversi rispetto a quello di evasione, quale l’indebito ottenimento di contributi pubblici, con la conseguenza che l’autore della condotta illecita risulterà punibile, anche in punto di aggressione cautelare, sia per la fattispecie penale tributaria che per quella codicistica[25].
6. Direttiva in materia di tutela penale degli interessi finanziari dell’Unione Europea
Sul fronte sovranazionale, come anticipato in premessa, il 5 luglio 2017 il Parlamento europeo ha approvato la cd. Direttiva PIF ((UE) 2017/1371), volta ad approntare una migliore tutela degli interessi finanziari europei attraverso la definizione dei reati e delle sanzioni applicabili e, dunque, mediante l’armonizzazione delle legislazioni penali nazionali.
Si è già anticipato che la direttiva ha apportato profonde innovazioni, inter alia, sui rapporti tra reati tributari e responsabilità degli enti collettivi.
In particolare, l’art. 6 della direttiva prevede che dovrà ritenersi responsabile anche la persona giuridica (come definita in apertura del provvedimento, ossia «an entity having legal personality under the applicable law, except for States or public bodies in the exercise of State authority and for public international organisations») che abbia tratto beneficio dalla consumazione dei cd. reati PIF, qualora questi siano stati commessi da parte dei soggetti apicali della legal person, ovvero a seguito dell’omissione di controlli da parte dei vertici sui subordinati.
Si stabilisce che le sanzioni applicabili alla persona giuridica debbano essere anzitutto pecuniarie, e che possano altresì essere affiancate da sanzioni di altra natura, spaziando dalle interdizioni fino, addirittura, allo scioglimento dell’ente. La direttiva pone dunque l’obbligo, per gli Stati membri, di introdurre le misure necessarie ad assicurare che le persone giuridiche nel cui interesse siano commessi i reati contemplati dalla direttiva medesima possano essere ritenute responsabili.
In ambito tributario, il principale elemento di novità è costituito dall’espressa inclusione delle (gravi) frodi IVA tra i cd. reati PIF e, per l’effetto, anche tra i reati-presupposto della responsabilità delle persone giuridiche.
È evidente che tale previsione, a livello interno, non possa che tradursi nell’inserimento degli illeciti penal-tributari nel catalogo delle fattispecie che determinano la responsabilità «amministrativa da reato» degli enti ai sensi del decreto 231: è – anche – in ciò che dovrà infatti declinarsi l’attuazione delle disposizioni penali di matrice euro-unitaria volte alla protezione degli interessi finanziari dell’Unione, da effettuarsi entro il 6 luglio 2019, termine per il recepimento della direttiva.
Sull’attuazione della normativa europea in commento sono però opportune alcune precisazioni.
Anzitutto,comegiàevidenziato,per quanto attiene alle fattispecie incriminatrici di tipo fiscale la direttiva attribuisce rilievo alle frodi in materia di IVA connotate da gravità.
Ebbene, consapevole delle incertezze applicative connesse all’interpretazione del concetto di “gravità” (ben note a seguito del caso Taricco), il legislatore europeo ha scongiurato le potenziali criticità ermeneutiche individuando espressamente una soglia di danno al di sotto della quale non è possibile connotare la frode IVA come grave.
Sul punto, l’art.2 dispone che «ai fini della presente direttiva, i reati contro il sistema comune dell’IVA sono considerati gravi qualora le azioni od omissioni di carattere […] siano connesse al territorio di due o più Stati membri dell’Unione e comportino un danno complessivo pari a dal meno 10000000EUR».
Siffatta disposizione trova il suo fondamento e la sua conferma nel considerando n.4 della direttiva medesima, secondo cui «i reati contro il sistema comune dell'IVA dovrebbero essere considerati gravi qualora siano connessi al territorio di due o più̀ Stati membri, derivino da un sistema fraudolento per cui tali reati sono commessi in maniera strutturata allo scopo di ottenere indebiti vantaggi dal sistema comune dell'IVA e il danno complessivo causato dai reati sia almeno pari a 10 000 000 EUR», con la precisazione che «la nozione di danno complessivo si riferisce al danno stimato che derivi dall'intero sistema fraudolento, sia per gli interessi finanziari degli Stati membri interessati sia per l'Unione, escludendo interessi e sanzioni».
In secondo luogo, per quanto di interesse ai fini della responsabilità 231, deve evidenziarsi che la direttiva fa espressa menzione delle sole (gravi) frodi in materia di IVA quali illeciti fiscali la cui repressione deve interessare anche l’ente collettivo. Così facendo, il legislatore europeo si è astenuto dall’imporre che la responsabilità delle persone giuridiche in materia tributaria possa scaturire dalla commissione di ulteriori tipologie di reato.
[1] Si fa riferimento alla proposta di legge di iniziativa del deputato Ferranti presentata il 21 maggio 2014 alla Camera dei Deputati, come “Introduzione dell’articolo 25-terdecies nel decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, concernente le sanzioni applicabili alle persone giuridiche per i reati tributari”.
[2] Cass. pen., sez. un., 30 gennaio 2014, n. 10561, con nota di G. Varraso, Punti fermi, disorientamenti interpretativi e motivazioni “inespresse” delle sezioni unite in tema di sequestro a fini di confisca e reati tributari, in Cass. pen., 9, 2014, pag. 2809. Tale pronuncia esclude la possibilità di procedere a confisca per equivalente di beni della persona giuridica per reati tributari commessi dal legale rappresentante, salva l’ipotesi in cui la persona giuridica stessa sia in concreto priva di autonomia e rappresenti solo uno schermo attraverso cui l’amministratore agisce come effettivo titolare. Ciò in quanto la confisca di valore prevista dall’art. 19 d.lgs. n. 231/2001, avendo carattere sanzionatorio, comporta l’applicazione di tutti i principi vigenti in materia penale, ivi compreso il divieto di analogia in malam partem, di talché l’istituto non può trovare applicazione nei confronti degli enti per i reati tributari, non essendo questi previsti nel catalogo dei reati presupposto della responsabilità del soggetto collettivo. Né tantomeno può operare la norma speciale avete ad oggetto la confisca in materia tributaria, oggi prevista dall’art. 12 bis d.lgs. n. 74/2000, atteso che essa si riferisce unicamente all’autore del reato e dunque alla persona fisica.
[3] Cass. pen., n. 10561/2014, cit.; Cass. pen., sez. un., 26 giugno 2015, n. 31617, in CED rv 264436. Come osservato in dottrina, «l’unico modo per incidere in modo effettivo sui beni della persona giuridica e per ovviare ai limiti propri del d.lgs. 231/01[..]era quello di estendere l’oggetto della confisca diretta (che per i reati tributari commessi dal legale rappresentante non può̀ che colpire l’ente)».Così G. Della Volpe, La confisca nei reati tributari: ermeneutici correttivi e problemi irrisolti, in Giurisprudenza Penale Web, 4, 2018,nota a Cass. pen., sez. III, 30 ottobre 2017, n. 8995, che richiama P. VENEZIANI, La confisca obbligatoria nel settore penale tributario, in Cass. Pen., 4, 2017.
[4] Confindustria, Il reato di autoriciclaggio e la responsabilità ex Decreto 231 – Circolare n. 19867, 12 luglio 2015. Sul punto, si vedano E. Di Fiorino – P. Grella, La disciplina dell’autoriciclaggio a seguito del decreto attuativo della IV direttiva antiriciclaggio, in www.dirittobancario.it
[5] Cass. pen., sez. VI, 20 dicembre 2013 (dep. 24 gennaio 2014), n. 3635, con nota di P. Silvestri, Questioni aperte in tema di profitto confiscabile nei confronti degli enti: la confiscabilità dei risparmi di spesa, la individuazione del profitto derivante dal reato associativo, in Cass. pen., 5, 2014, p. 1538.
[6] Cass. pen., sez. III, 14 ottobre 2015, n. 46162; conformi, Cass. pen., sez. III, 4 marzo 2015, n. 26721; Cass. pen., sez. III, 27 marzo 2013, n. 24841; Cass. pen., sez. III, 27 gennaio 2011, n. 5869; Cass. pen., sez. III, 24 febbraio 2011, n. 11969, che precisa come «il profitto dei singoli reati-fine», nella specie reati di frode fiscale, «si traduce in vantaggio per l’intera organizzazione criminosa ed i suoi componenti»;Cass. pen., sez. II, 26 giugno 2014, n. 28960).
[7] In dottrina è stato osservato come «l’inedito marchingegno escogitato dalla S.C. […] è consistito […] nel qualificare come “diretta” e non “per equivalente” l’ablazione di somme corrispondenti all’imposta indebitamente evasa, muovendo dal duplice assunto che il denaro di cui consta siffatto profitto è un bene fungibile non suscettibile di identificazione storica nel patrimonio dell’ente, e che quest’ultimo non può reputarsi persona estranea al reato». In questi termini V. Mongillo, Confisca (per equivalente) e risparmi di spesa: dall’incerto statuto alla violazione dei principi, in Riv. it. dir. proc. pen., 2, 2015, 739 ss.
[8] A. A. Salemme, Profili di responsabilità tributaria degli enti, in Ilsocietario.it, 10 dicembre 2015, nota a Cass. pen., sez. III, 14 ottobre 2015, n. 46162.
[9] Circolare n. 1/2018 della Guardia di Finanza, Manuale operativo in materia di contrasto all’evasione e alle frodi fiscali, Vol. 1, p. 260.
[10] L’art. 3.4, lett. f), della Dir. (UE) 2015/849 (cd. IV direttiva) individua quali reati gravi ai fini della definizione di “attività criminosa” «tutti i reati, compresi i reati fiscali relativi a imposte dirette e indirette, quali specificati nel diritto nazionale, punibili con una pena privativa della libertà o con una misura di sicurezza privativa della libertà di durata massima superiore ad un anno ovvero, per gli Stati membri il cui ordinamento giuridico prevede una soglia minima per i reati, tutti i reati punibili con una pena privativa della libertà o con una misura di sicurezza privativa della libertà di durata minima superiore a sei mesi». Già la precedente direttiva 2005/60/CE, pur non menzionando espressamente i reati fiscali, adottava la durata della sanzione quale criterio di individuazione dei delitti considerati “gravi”, di talché venivano implicitamente ricomprese anche le infrazioni fiscali. La rilevanza dei delitti fiscali quali reati presupposto del riciclaggio è evidenziata anche dal considerando n. 11 della IV direttiva, (UE) 2015/849.
[11] L’intervento del Presidente del GAFI è reperibile in www.fatf-gafi.org, al seguente url: http://www.fatf-gafi.org/fr/documents/documents/presentationdesprioritespourlapresidencenorvegienne2012-2013.html.
[12] Per la formulazione proposta dalla Commissione Fiandaca ai fini dell’incriminazione dell’autoriciclaggio, si veda la Relazione redatta dalla Commissione medesima, per il cui testo si rimanda alla nota n. 9.
[13] In questi termini A. M. Maugeri, L’autoriciclaggio dei proventi dei delitti tributari: ulteriore espressione di voracità statuale o utile strumento di politica criminale?cit., p. 99.
[14] G. Barbato, L’autoriciclaggio tra reati fiscali e responsabilità 231 – Commento alla circolare n. 19867 di Confindustria, in www.aodv231.it, che enumera le criticità della tesi che ammette la responsabilità dell’ente derivante da reati extra-catalogo, evidenziando come «la sanzione 231/2001 è infatti legata alla commissione del reato di autoriciclaggio e non anche al reato tributario». Analogamente, A. Rossi, Note in prima lettura su responsabilità diretta degli enti ai sensi del d.lgs. 231 del 2001 ed autoriciclaggio: criticità, incertezze, illazioni ed azzardi esegetici, in Dir. pen. cont., 1, 2015, p. 124 ss., la quale sostiene che «la struttura del particolare illecito dell’ente di autoriciclaggio richied[e] che già il delitto a monte produttore dell’utilità illecita in quanto strumentale all’autoriciclaggio dell’ente debba essere uno dei reati-presupposto costituenti ad oggi la parte speciale del d.lgs. n. 231 determinanti la responsabilità diretta della persona giuridica e non già qualsiasi fatto di delitto non colposo».
[15] A. Rossi, Note in prima lettura su responsabilità diretta degli enti ai sensi del d.lgs. 231 del 2001 ed autoriciclaggio: criticità, incertezze, illazioni ed azzardi esegetici, cit.
[16] F. Mucciarelli, Qualche nota sul delitto di autoriciclaggio, in Dir. pen. cont., 1, 2015, p. 108 ss.
[17] Circolare n. 1/2018 della Guardia di Finanza, Manuale operativo in materia di contrasto all’evasione e alle frodi fiscali, Vol. 1, p. 259, che richiama Cass., pen. sez. I, 16 dicembre 2014, n. 52179.
[18] L’art. 15 c.p. dispone che «quando più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito».
[19] Così Cass. pen., sez. V, 31 marzo 2000, n. 4128, in Il Fisco, 28, 2000, p. 9326. Nello stesso senso, Cass. pen., sez. III, 18 dicembre 1990, in Il Fisco, 14, 1991, p. 2394. Nel caso in cui il delitto di falso in bilancio fosse realizzato per finalità ulteriori a quella evasiva, non avrebbe trovato spazio il principio sancito dall’art. 15 c.p. bensì il concorso di cui all’art. 81 c.p. Contra, Cass. pen., sez. III, 1° settembre 1998, n. 9567, in Il Fisco, 39, 1998, p. 12742, che ammetteva la configurabilità del delitto di false comunicazioni sociali ai danni dell’Erario.
[20] Nella specie, l’art. 3, comma 2 del d.lgs. n. 61/2002 ha introdotto l’art. 25 ter nel d.lgs. n. 231/2001, che contempla, tra gli altri illeciti societari, anche i delitti di false comunicazioni sociali (oggi nella formulazione revisionata per effetto della riforma attuata dalla l. n. 69/2015).
[21] Tale lettura interpretativa è confermata dalla Circolare n. 1/2018 della Guardia di Finanza, Manuale operativo in materia di contrasto all’evasione e alle frodi fiscali, Vol. 1, p. 260.
[22] In tal senso, nella giurisprudenza di legittimità, Cass. pen., sez. un., 28 ottobre 2010, n. 1235, in CED rv. 248865; Cass. pen., sez. III, 10 luglio 2007, n. 37409, in CED rv. 237306.
[23] Così Cass. pen., n. 37409/2007, cit. Ad ogni modo, si noti che parte della giurisprudenza è giunta ad escludere il concorso anche sulla base del principio di specialità, muovendo dall’assunto che la frode fiscale risulta connotata da uno specifico artificio, ossia le fatture o gli altri documenti per operazioni inesistenti, che costituirebbero un elemento specializzante rispetto alla generica categoria degli artifici prevista dal delitto comune di truffa ex art. 640, comma 2, n. 1 c.p. Affermano il rapporto di specialità tra le fattispecie in commento Cass. pen., sez. II, 29 gennaio 2004, n. 7996 in CED rv. 228795; Cass. pen., sez. II, 23 novembre 2006, n. 40226 in CED rv. 235593; Cass. pen., Sez. V, 15 dicembre 2006, n. 3257, in CED rv 236037; Cass. pen., sez. II, 5 giugno 2008, n. 28676 in CED rv. 241110. Secondo tale orientamento, il delitto di frode fiscale si pone in rapporto di specialità rispetto a quello di truffa aggravata a norma dell’art. 640 c.p., comma 2, n. 1, in quanto è connotato da uno specifico artificio (costituito da fatture o altri documenti per operazioni inesistenti) e da una condotta a forma vincolata (indicazione di elementi passivi fittizi in una delle dichiarazioni annuali relative alle imposte sui redditi o alle imposte sul valore aggiunto).
[24] Cass. pen., sez. II, 29 settembre 2009, n. 41488, con nota di G. D. Toma, Confisca per equivalente e responsabilità amministrativa degli enti: riflessioni a margine di una condivisibile pronuncia della Corte di cassazione, in Riv. Dir. Trib., 9, 2010, p. 119. In motivazione, la Corte ha precisato che «il tribunale ha dunque violato il principio di stretta legalità, ritenendo applicabile all’ente una sanzione (quale deve essere considerata la confisca per equivalente) in ordine ad un’ipotesi criminosa (la contestata frode fiscale) che non la contempla; e ciò ha compiuto sia mediante la descritta, ardita in direzione – ai fini elusivi della legge – consistente nel valorizzare esclusivamente gli elementi della truffa aggravata contenuti nel delitto tributario del quale – è bene precisarlo – il legislatore ha escluso finora la natura di reato presupposto della responsabilità degli enti, non avendolo mai inserito nel catalogo contenuto nella sezione 3^, capo I, D.Lgs. n. 231 del 2001; sia ritenendo irragionevolmente (dunque con manifesta illogicità) “scomponibile” il delitto di frode fiscale – al fine di apprezzarne penalmente una sua parte – solo con riguardo alla responsabilità della persona giuridica, avendo viceversa esattamente escluso siffatta creativa operazione ermeneutica nei confronti delle persone fisiche».
[25] Sul punto, Cass. pen., sez. II, 10 marzo 2016, n.12872, con nota di E. Fontana, Emissione di fatture per operazioni inesistenti e truffa ai danni dello Stato tra concorso di norme e confisca, in Dir. & Giust., 16, 2016, p. 30. La sentenza citata chiarisce che «qualsiasi condotta di frode al fisco, se non intende realizzare obiettivi diversi, non può che esaurirsi all’interno del quadro sanzionatorio delineato dalla apposita normativa. Se, invece, l’attività di “cartiera”, oltre che consentire a terzi l’evasione del tributo (o a permettere indebiti rimborsi) è destinata a finalità ulteriori – tipica l’ipotesi della emissione di false fatture per consentire ad un operatore di ottenere indebitamente contributi, comunitari e non – è evidente che non potrà sussistere alcun problema di rapporto di specialità fra norme, venendo in discorso una condotta finalisticamente “plurima” e tale da ledere o esporre a pericolo beni fra loro differenti». Tale impostazione trova conferma nella Circolare n. 1/2018 della Guardia di Finanza, Manuale operativo in materia di contrasto all’evasione e alle frodi fiscali, Vol. 1, pag. 238.