Il Tribunale di Milano, con ordinanza del 20 settembre 2021, n. 34024 (Pres. Simonetti, Rel. Ricci), emessa in sede di reclamo cautelare ex art. 669-terdecies, affronta il tema dell’accertamento e della quantificazione del danno causato dagli amministratori che hanno continuato l’attività di impresa, nonostante la perdita del capitale sociale, applicando il criterio differenziale nella valutazione della loro responsabilità secondo il seguente principio.
Ai fini dell’accertamento del danno e della sua determinazione il criterio da utilizzare nel caso di specie, in relazione allo specifico addebito mosso (aggravamento del dissesto) e considerata la documentazione a disposizione della curatela (in particolar modo le risultanze dei bilanci che non sono stati fatte oggetto di contestazione da parte degli odierni reclamanti e le insinuazioni al passivo che fotografano natura e ammontare dei debiti) non può essere quello proposto dal Fallimento in ricorso, differenza fra attivo e passivo accertato in sede fallimentare, ma come correttamente sostenuto dal primo Giudice, il criterio differenziale, già elaborato dalla giurisprudenza sia di merito che di legittimità e che dal 2019 ha ricevuto riconoscimento normativo nell’art. 2486, ultimo comma, c.c..
Il Tribunale di Milano precisa infatti che il danno causato dagli amministratori i quali, verificatasi una causa di scioglimento, omettono di attivarsi tempestivamente, ai sensi degli artt. 2482-bis e 2486 c.c., “è rappresentato, per i creditori sociali, dall’incremento dell’indebitamento ovvero dall’aggravamento della situazione patrimoniale della società (già in situazione di deficit) con conseguente detrimento della prospettiva di soddisfazione per i creditori”.
Il Tribunale ritiene poi, tenuto conto, in particolare, della tipologia dell’addebito e della documentazione a disposizione (nel caso concreto, le risultanze dei bilanci e le insinuazioni al passivo), che, ai fini dell’identificazione del quantum di danno, debba essere adoperato il criterio differenziale; detto criterio, di origine giurisprudenziale, come è noto, dal 2019 ha trovato riconoscimento normativo all’art. 2486 c.c.
Tale criterio, infatti, “mira ad individuare la consistenza dell’eventuale aggravamento della situazione patrimoniale della società (già in perdita) al netto dei costi ineliminabili, che sarebbero stati compatibili con lo stato di liquidazione (da aprire anticipatamente), e ovviamente al netto dei debiti che risultino sorti in data anteriore alla perdita del capitale”.
Il Collegio ha quindi ritenuto, in linea con la decisione del primo giudice, che non potesse essere applicato il criterio della differenza fra attivo e passivo accertato in sede fallimentare, il quale, avendo natura residuale ai sensi dell’art. 2486 c.c., può essere utilizzato per determinare il quantum di danno solo qualora, per mancanza delle scritture contabili o per irregolarità delle stesse, il criterio preferenziale dei netti patrimoniali non possa essere determinato.
Inoltre, il primo giudice ha precisato che tale criterio non potrà essere usato per il solo fatto che nel caso di specie gli amministratori avevano omesso, con condotta accertata in sede penale, di consegnare le scritture contabili, essendo comunque necessaria la “prova dell’avvenuto compimento da parte degli amministratori di atti di gestione non conservativi pregiudizievoli dopo il verificarsi di una causa di scioglimento della società, posto che di per sé la violazione dell’obbligo di regolare tenuta delle scritture contabile non è astrattamente idonea a porsi come causa del danno lamentato”.
Peraltro, tale criterio, disciplinato dal legislatore solo nel 2019, non può applicarsi retroattivamente, quindi a fatti di responsabilità precedenti alla sua introduzione, trattandosi di una norma “incidente sul regime di diritto sostanziale della responsabilità degli organi sociali” che, quindi, può operare soltanto pro futuro ex art. 11 delle preleggi.
Infine, l’utilizzazione di tale criterio ha in sé una “componente punitiva” che ne esclude a fortiori un’utilizzazione retroattiva: nell’ordinamento italiano, generalmente, “il rimedio risarcitorio ha solo funzione ripristinatoria della sfera giuridica del danneggiato pregiudicata dalla violazione”.