Il presente contributo analizza la recente modifica dell’art. 2407 c.c. in punto di responsabilità dei sindaci, approfondendo l’introduzione del nuovo limite risarcitorio, del nuovo termine di prescrizione nonchè soffermandosi sulle prime criticità interpretative.
Il 12 aprile 2025, a quindici giorni dalla sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, è entrata in vigore la legge 14 marzo 2025, n. 35 che, riscrivendo il comma secondo dell’articolo 2407 c.c. e introducendo un nuovo comma quarto, rivoluziona la disciplina della responsabilità dei sindaci.
Il nuovo testo dell’articolo[1] si presenta particolarmente innovativo sotto due distinti profili: in primo luogo, nella parte in cui prevede un tetto massimo al danno che i sindaci possono essere chiamati a risarcire dalla società, dai soci o dai terzi, parametrato al compenso dai medesimi percepito; in secondo luogo, nella parte in cui fissa nel deposito della relazione ex articolo 2429 c.c. il dies a quo per il decorso del termine di prescrizione quinquennale dell’azione contro l’organo di controllo.
Ripercorrendo passo per passo i punti nodali dell’articolo riformato, si nota subito che il Legislatore ha optato per una diversa formulazione letterale dei presupposti della responsabilità dei sindaci.
Nel testo riformato si legge che i sindaci “che violano i propri doveri sono responsabili per i danni cagionati alla società che ha conferito l’incarico, ai suoi soci, ai creditori e ai terzi”. Tale formulazione appare, a prima vista, distante da quella precedente, la quale stabiliva che i sindaci “sono responsabili solidalmente con gli amministratori per i fatti o le omissioni di questi, quando il danno non si sarebbe prodotto se essi avessero vigilato”. Da un primo e testuale raffronto potrebbe ritrarsi che la norma abbia inteso prevedere solo ora una responsabilità per fatto proprio dei sindaci (ossia per la violazione degli obblighi di comportamento sui medesimi gravanti), separando la stessa dal fatto illecito degli amministratori.
Il punto, per una sua migliore ponderazione, esige qualche precisazione all’esito della quale la “innovazione” si rivela solo apparente.
La responsabilità dei sindaci non è mai stata una responsabilità indiretta o, a dire altrimenti, per fatto altrui.
Invero la giurisprudenza, tanto di merito quanto di legittimità, formatasi sul previgente – e in certa misura non limpidissimo – testo dell’articolo 2407 c.c., ha sempre rimarcato che la responsabilità dei sindaci è una responsabilità per fatto proprio, la quale richiede, pertanto, l’accertamento dell’imputabilità (per quanto – di regola – in relazione a una condotta di natura omissiva) ai sindaci del danno di cui è preteso il risarcimento[2].
Così, è stato precisato che per muovere un addebito ai sindaci (fuori dai limitati casi in cui la responsabilità deriva da un danno causato in via esclusiva dai medesimi, come nell’ipotesi di violazione dell’obbligo di segretezza) è necessario che: (a) gli amministratori abbiano posto in essere un comportamento illecito, (b) tale comportamento abbia generato un danno, (c) i sindaci, violando gli obblighi imposti a loro carico, non abbiano vigilato con l’adeguata professionalità e diligenza e, infine, (d) sussista una relazione di causa-effetto tra l’imperito o imprudente o negligente comportamento dei sindaci ed il danno.
Soltanto verificando, con ragionamento controfattuale ipotetico, che l’attivazione del sindaco avrebbe ragionevolmente evitato il danno, può muoversi contro questi un addebito di responsabilità.
Vero è che non sono mancate pronunce che hanno fatto discendere dell’accertata responsabilità degli amministratori, quasi fosse un automatismo, la responsabilità dei sindaci, dando essenzialmente per scontato il nesso di causalità[3]. Tali decisioni sono, in ogni caso, espressione di un’applicazione patologica e non fisiologica della disciplina previgente, che, come si è detto, non poteva comunque essere ricostruita nei termini di una responsabilità oggettiva dell’organo di controllo.
Può quindi ipotizzarsi – e, d’altra parte, questa è la dichiarata intenzione che si ritrova nella relazione alla proposta di legge – che la riformulazione dell’art. 2407 c.c., anche sulla scorta del consolidato formante giurisprudenziale, il Legislatore abbia voluto ribadire quale sia, e continui ad essere, la natura della responsabilità dell’organo di controllo, sgombrandosi definitivamente il campo da eventuali interpretazioni distorte.
Come evidenziato in apertura, il nuovo testo dell’articolo 2407 c.c. ha introdotto una limitazione (non alla responsabilità dei, bensì) alla misura del danno dai sindaci risarcibile, che risulta ora circoscritto ad un multiplo del compenso annuo percepito, calcolato secondo i seguenti scaglioni: per i compensi fino a 10.000 euro, quindici volte il compenso; per i compensi da 10.000 a 50.000 euro, dodici volte il compenso; per i compensi maggiori di 50.000 euro, dieci volte il compenso.
Tale limitazione al danno risarcibile che, apparentemente senza una particolare o ragionevole giustificazione, non è replicata per i membri del consiglio di sorveglianza (i quali continuano ad essere soggetti ad una responsabilità senza cap in forza dell’articolo 2409-terdecies comma 3 c.c.), si applica ai sindaci anche qualora svolgano attività di revisione, mentre per i revisori legali dei conti resta, secondo quanto previsto dall’articolo 15 del D. Lgs. 39/2010, un obbligo risarcitorio solidale con gli amministratori per l’intero danno cagionato.
Merita di essere notato che siffatta limitazione del danno risarcibile viene a cadere soltanto per l’ipotesi in cui i sindaci abbiano agito con dolo, mentre resta applicabile quando i medesimi si siano resi responsabili di condotte o di omissioni gravemente colpose.
Considerando che – tendenzialmente – il dolo e la colpa grave sono civilisticamente soggetti allo stesso “trattamento” (si guardi ad esempio all’articolo 1229 c.c.), se ne ricava che la formulazione risulta frutto di una precisa scelta di politica e opportunità legislativa chiaramente tesa a circoscrivere, in termini inequivoci, lo spazio applicativo (e interpretativo) per il recupero della risarcibilità integrale del danno.
Si rileva, poi, un’altra differenza, tutt’altro che secondaria, tra la formulazione ante e post-riforma del secondo comma dell’articolo in analisi: quella data dalla scomparsa della parola “solidalmente” nella descrizione del rapportarsi della responsabilità dei sindaci a quella degli amministratori.
Il dato letterale della norma, come riformato, potrebbe portare a inferire che sia venuta meno la strutturale denotazione “solidale” della responsabilità dei sindaci rispetto a quella degli amministratori rimarcata dalla precedente formulazione della stessa disposizione, così dischiudendosi un tema interpretativo di non scarsa rilevanza.
Se l’ipotizzata inferenza fosse corretta, potrebbe conseguirne che la permanenza di un vincolo solidale andrebbe ora vagliata facendo applicazione, in ciascun caso concreto, della presunzione fissata in via generale dall’articolo 2055 co.1 c.c.[4] per l’ipotesi in cui vi siano più soggetti che, con il loro comportamento, hanno concorso causalmente alla produzione di un medesimo danno.
Più in dettaglio, resterebbe comunque da indagare caso per caso se, nell’ipotesi di omessa vigilanza dell’organo di controllo sull’operato dell’organo gestorio, possa effettivamente riscontrarsi l’esistenza di una pluralità di soggetti che con condotte autonome – omissive e commissive – concorrano nella causazione del medesimo danno e siano tenuti, pur sulla base di autonomi titoli[5] (in entrambi i casi, nell’ipotesi di responsabilità nei confronti della società, contrattuali), a risarcire il predetto danno. Un nesso di solidarietà potrebbe comunque essere affermato, quindi, (solo) all’esito di detta indagine.
Pure dovrebbe valutarsi, nel concreto, se possa essere ostativa alla solidarietà la circostanza che l’obbligazione dei sindaci abbia oggi un cap, mentre quella degli amministratori sia illimitata. A tal proposito, viene in rilievo, in prima battuta, quanto si trae dall’articolo 1293 c.c., disposizione che, affrontando il modo d’essere delle obbligazioni solidali, afferma che la solidarietà non è esclusa dal fatto che i singoli debitori siano tenuti ciascuno con modalità o per importi diversi. Così che, anche se l’obbligazione risarcitoria (in capo ai sindaci) fosse solo una parte di quella dovuta dagli altri obbligati (gli amministratori) permarrebbe l’idem debitum e, quindi, si avrebbe obbligazione solidale per la parte di prestazione comune[6].
Se quindi, per un verso, l’elisione della parola “solidalmente” non pare potere essere casuale (da ciò discendendo, probabilmente, implicazioni non trascurabili), per altro verso, il residuare di un ambito di possibile solidarietà secondo le regole generali comporta comunque, nel quadro segnato dalla riforma, effetti sostanziali.
Si pensi al caso del sindaco che percepisce un compenso di € 60.000. Il cap al danno risarcibile è posto in questo caso a € 600.000.
La società promuove contro l’amministratore e il sindaco della società un’azione di responsabilità, all’esito della quale si accerta (i) che il danno ammonta a €1.000.000 e (ii) che il contributo dell’amministratore alla causazione del danno è pari al 90% e quello del sindaco al 10%.
È evidente che nei rapporti interni l’amministratore sarà tenuto al versamento di € 900.000 e il sindaco di € 100.000, ma nei rapporti esterni (ovvero nei confronti del danneggiato che ha promosso l’azione) l’amministratore e il sindaco saranno solidalmente tenuti al pagamento di € 600.000 (sempre salva l’azione di regresso tra coobbligati) e, in più, l’amministratore sarà condannato anche al pagamento di € 400.000.
Là dove, invece, anche per effetto della riforma, non sussista un vincolo solidale, il sindaco potrebbe essere chiamato dal danneggiato a risarcire esclusivamente € 100.000.
Procedendo nella lettura del nuovo quarto comma dell’articolo 2407 c.c., si vede come sia stato introdotto un dies a quo per la decorrenza del termine prescrizionale della responsabilità dei sindaci: l’azione di responsabilità verso i sindaci si prescrive ora nel termine di cinque anni dal deposito della relazione di cui all’articolo 2429 c.c. concernente l’esercizio in cui si è verificato il danno.
La modifica si ispira apertamente alla disciplina del termine prescrizionale delle azioni risarcitorie promosse nei confronti dei revisori legali dei conti posta dall’articolo 15 comma 3 del D. Lgs. 39/2010, con una sostanziale differenza, frutto – è ragionevole ipotizzare – di una svista.
L’articolo appena citato prescrive che l’azione di risarcimento contro i revisori legali dei conti «si prescrive nel termine di cinque anni dalla data della relazione di revisione sul bilancio d’esercizio o consolidato emessa al termine dell’attività di revisione cui si riferisce l’azione di risarcimento», che è cosa ben diversa dalla previsione, contenuta nell’attuale articolo 2407 c.c., secondo cui il termine decorre dal « deposito della relazione di cui all’articolo 2429 relativa all’esercizio in cui si è verificato il danno».
Dalla lettura della relazione al disegno di legge emerge come l’intento della modifica legislativa fosse quello di stabilire con certezza il profilo della durata dell’esposizione del sindaco a responsabilità, considerato che nella disciplina previgente trovava applicazione, per effetto del rinvio contenuto nello stesso articolo 2407 c.c., quanto disposto dagli articoli 2393 e 2395 e 2949 c.c., con la conseguenza che la prescrizione quinquennale dell’azione decorre(va?), a seconda dei casi, dalla cessazione del sindaco dalla carica (volendo ritenere applicabile anche ai sindaci – secondo un orientamento ormai minoritario in giurisprudenza – la sospensione della prescrizione in pendenza di carica) o dalla percepibile manifestazione del danno all’esterno.
L’intento pare non essere stato in pieno realizzato.
In primis per la ragione sopra esposta: si crede che, per costruire un vero parallelismo con la disciplina dei revisori, il termine avrebbe dovuto essere quello del deposito della relazione di cui all’articolo 2429 c.c. concernente l’esercizio durante il quale è stata svolta l’attività (dunque, la condotta o l’omissione) cui l’azione si riferisce e non quello in cui il danno si verifica. Potrebbe darsi addirittura che durante l’esercizio in cui il danno si manifesta il sindaco non ricopra più nemmeno la carica e, dunque, in quell’ipotesi, non si comprende agevolmente da che momento potrebbe iniziare a decorrere la prescrizione.
In secondo luogo, il giorno indicato dalla norma come dies a quo del termine prescrizionale (ossia il giorno del deposito della relazione al bilancio presso la sede sociale), non essendo soggetto a pubblicità, risulta conoscibile esclusivamente dalla società, il che implica che difficilmente possa valere per azioni diverse da quelle da promuoversi da parte dalla società (e dai soci, invero, anche ai sensi dell’articolo 2395 c.c.), ed in particolare per quelle che possono proporre altri soggetti legittimati, quali i terzi creditori.
La riforma, inoltre, dichiarando di ispirarsi alla disciplina della responsabilità dei revisori legali dei conti, non sembra considerare la recente pronuncia resa sul tema dalla Corte Costituzionale[7].
Il Giudice delle leggi, dichiarando non fondata la questione di legittimità sull’articolo 15 comma 3 del D. Lgs. 39/2010, ha rilevato che l’illecito del revisore nei confronti della società si compie con l’inadempimento da parte del revisore (ossia con la relazione di revisione che sia erronea o scorretta), con l’effetto che il momento del deposito della relazione integra l’illecito contrattuale, già di per sé produttivo di danni nei confronti della società, e con l’ulteriore ragionevole conseguenza che tale momento coincida con il dies a quo della prescrizione. Al contrario, nell’ipotesi di danni a soci o a terzi il deposito della relazione «configura unicamente una condotta che ingenera un affidamento potenzialmente idoneo a sviare la loro libertà negoziale. Pertanto, sino a quando non risulti che siano state compiute scelte direttamente condizionate dalla relazione, i soci e i terzi non hanno alcun interesse a far valere una pretesa, non avendo ancora subito qualsivoglia danno». Solo dal prodursi di questo danno può, pertanto, iniziare a decorrere il termine per la prescrizione della relativa azione tesa a ottenere il risarcimento dello stesso.
Permane, dunque, il dubbio che il termine prescrizionale con decorso dal deposito della relazione ex articolo 2429 c.c. possa valere esclusivamente per le azioni promosse dalla società (la quale, anche stando al dettato della Corte Costituzionale, potrebbe agire per il ristoro di un danno immediatamente percepibile), mentre per le azioni promosse dagli altri legittimati la disciplina resti quella previgente.
In sintesi, questo nuovo quarto comma sembra porre più problemi interpretativi di quanti ne risolve.
Da ultimo assume senz’altro un rilievo centrale il tema dell’efficacia della nuova norma nel tempo, atteso che nessuna norma transitoria è stata prevista dal Legislatore.
È noto che la legge (civile) non dispone che per l’avvenire e dunque, salva espressa deroga, lo ius superveniens non ha efficacia retroattiva.
Sebbene il principio sia chiaro, non è immediato comprendere in quali casi si possa in concreto ravvisare un’ipotesi di applicazione retroattiva di una norma. In altri termini, nel caso di specie, ci si domanda se sia consentita o se, comportando profili di retroattività della disciplina, sia esclusa l’applicazione della nuova norma nei processi instaurati dopo la sua entrata in vigore ma riguardanti fatti verificatisi prima, o finanche in procedimenti già pendenti all’entrata in vigore della novella.
Secondo la giurisprudenza di legittimità[8], se una norma sopravvenuta non modifica la fattispecie generatrice dell’obbligazione sarebbe consentita la sua applicazione a qualsiasi procedimento pendente o instaurato, anche in considerazione del fatto che fino alla definizione del quantum del danno e dell’attribuzione della responsabilità la fattispecie non si è “esaurita”[9] e dunque l’applicazione della novella non potrebbe dirsi propriamente “retroattiva” anche se inerente a fatti passati.
Se così è – dato che, come si è detto in apertura, non sono cambiati per effetto della riforma i presupposti generatori della responsabilità dei sindaci – allora il nuovo articolo 2407 c.c. dovrebbe applicarsi sia ai procedimenti non ancora instaurati, anche se relativi a fatti già compiuti, sia ai procedimenti già pendenti.
Guardando ai risvolti pratici dell’applicazione del nuovo secondo comma dell’articolo 2407 c.c. sorge un interrogativo. L’azione di responsabilità contro i sindaci, per lo meno quella promossa dalla società, ha natura contrattuale[10] e ciò implica che, ai sensi dell’articolo 1218 c.c., l’attore in giudizio sia tenuto ad allegare soltanto l’inadempimento e il danno, nonché a dare prova del nesso causale tra i predetti elementi.
La formulazione del riformato articolo 2407 c.c. prevede che «Al di fuori delle ipotesi in cui hanno agito con dolo, …, i sindaci che violano i propri doveri sono responsabili per i danni cagionati … nei limiti di un multiplo del compenso annuo percepito» e ciò significa che l’attore, qualora voglia superare il limite del cap al danno risarcibile, debba dare prova anche dell’elemento soggettivo della condotta del sindaco. La norma, in sostanza, sembra spostare gli equilibri dell’onere della prova.
Tale rilievo fa sorgere dubbi sul fatto che l’articolo riformato sia applicabile ai giudizi già in corso, anche alla luce di quella giurisprudenza[11], resa a proposito dell’applicabilità dell’articolo 2486 c.c. come riformato dal CCII, che è giunta alla conclusione che il nuovo dettato normativo fosse applicabile nei giudizi pendenti in quanto non modificativo della fattispecie generatrice di danno (così come è nel caso di specie) e non volto a stabilire un criterio nuovo di riparto di oneri probatori.
[1] Articolo 2407 c.c.: «1. I sindaci devono adempiere i loro doveri con la professionalità e la diligenza richieste dalla natura dell’incarico; sono responsabili della verità delle loro attestazioni e devono conservare il segreto sui fatti e sui documenti di cui hanno conoscenza per ragione del loro ufficio.
Al di fuori delle ipotesi in cui hanno agito con dolo, anche nei casi in cui la revisione legale è esercitata dal collegio sindacale a norma dell’articolo 2409-bis, secondo comma, i sindaci che violano i propri doveri sono responsabili per i danni cagionati alla società che ha conferito l’incarico, ai suoi soci, ai creditori e ai terzi nei limiti di un multiplo del compenso annuo percepito, secondo i seguenti scaglioni: per i compensi fino a 10.000 euro, quindici volte il compenso; per i compensi da 10.000 a 50.000 euro, dodici volte il compenso; per i compensi maggiori di 50.000 euro, dieci volte il compenso.
All’azione di responsabilità contro i sindaci si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni degli articoli 2393, 2393-bis, 2394, 2394-bis e 2395.
L’azione di responsabilità verso i sindaci si prescrive nel termine di cinque anni dal deposito della relazione di cui all’articolo 2429 concernente l’esercizio in cui si è verificato il danno».
[2] Tra le molte pronunce si vedano Cass. Civ. 28.10.2024, n. 27789; Cass. Civ. 11.12.2020, n. 28357; Cass. Civ. 13.06.2014, n. 13517 e, nel merito, Trib. Roma, Sez. Spec. Imprese, 04.10.2023, n. 14011 in DeJure Giuffrè.
[3] Si guardi ad esempio alla motivazione di Cass. Civ. 13.06.2014, n. 13517, ove si legge che «ai fini della configurabilità della violazione del dovere di vigilanza imposto ai sindaci, non è necessaria l’individuazione di specifici comportamenti che si pongano espressamente in contrasto con tale dovere, essendo invece sufficiente che i componenti dell’organo di controllo non abbiano rilevato una macroscopica violazione o comunque non abbiano in alcun modo reagito di fronte ad atti di dubbia legittimità e regolarità, e non abbiano quindi posto in essere quanto necessario per assolvere l’incarico con diligenza, correttezza e buona fede, eventualmente anche segnalando all’assemblea le irregolarità riscontrate, ovvero denunziando i fatti al P.M., per consentire l’adozione delle iniziative previste dall’art. 2409 c.c.».
[4] Dottrina e giurisprudenza hanno precisato che il tratto essenziale della solidarietà nel lato passivo dell’obbligazione consiste nell’identità della prestazione dovuta dai coobbligati e nella direzione al soddisfacimento dello stesso interesse creditorio. Per tutti, Cian-Trabucchi, Sub art. 1292, in Commentario breve al codice civile, Milano, 2024, ove diversi riferimenti.
[5] La giurisprudenza sul tema ha precisato che la circostanza che le condotte lesive siano fra loro autonome e pure fondate su titoli di responsabilità diversi (diversi titoli contrattuali, ovvero titoli contrattuali ex extracontrattuali) non è, di per sé, d’ostacolo alla costituzione della solidarietà nel rapporto. Si veda Cass. civ. sez. un. 27.04.2022, n. 13143.
[6] Il tema è stato affrontato dalla giurisprudenza in tema di condanna solidale del danneggiante e dell’assicurazione nei limiti del massimale. Si vedano Cass. civ. 10.06.2013, n. 14537; Cass. civ. 13.11.2019, n. 29328.
[7] Si tratta di Corte Cost. 01.07.2027, n. 115.
[8] Si veda Cass. Civ. Sez. Un. 2061 del 2021.
[9] Si veda Cass.Civ. 03.04.1987, n. 3231; Cass. Civ. 11.11.2019, n. 28990.
[10] Tra le molte pronunce si vedano Cass. Civ. 09.04.2024, n. 9427 e, nel merito, Trib. Roma, Sez. spec. Impresa, 04.10.2023, n. 14011 e Trib. Milano, 01.06.2020, n. 3090, tutte in DeJure Giuffrè.
[11] Il riferimento è a Cass. Civ. 28.02.2024, n.5252.