Nel caso di specie, un investitore stipulava con un intermediario un contratto di intermediazione in cambi. Poiché, tuttavia, l’intermediario non poteva detenere disponibilità liquide della clientela, veniva contestualmente aperto un conto corrente vincolato presso una banca terza, autorizzata tramite mandato a ricevere gli accrediti e ad effettuare i trasferimenti dei flussi derivanti dalle operazioni monetarie che lo stesso intermediario avrebbe aperto e poi concluso quotidianamente sul mercato delle valute.
Nel costituirsi in giudizio, l’investitore contestava l’illegittimità dei trasferimenti operati dalla banca, che avrebbero consentito all’intermediario, poi fallito, di ricevere importi non dovuti e che non trovavano giustificazione nell’attività di intermediazione valutaria a cui era autorizzato.
Nel respingere le domande attoree, il giudice di primo grado evidenziava come la banca avesse solamente fornito un servizio di deposito in conto corrente, limitandosi ad adempiere ad ordini di bonifico provenienti da un operatore regolarmente autorizzato dal cliente. Coerentemente la banca, essendo estranea al rapporto di intermediazione in cambi, doveva ritenersi esclusivamente tenuta ad una verifica della legittimità formale delle richieste di bonifico. Né quindi all’adempimento degli obblighi informativi gravanti sull’intermediario, né a verificare l’utilizzo delle provviste finanziarie rese così disponibili all’intermediario.
Nel riformare la sentenza di primo grado, la Corte di Appello di Roma ha posto l’accento sul collegamento negoziale tra il contratto di conto corrente ed il contratto di intermediazione in cambi, che comportava per la banca un obbligo di verifica dell’utilizzo da parte dell’intermediario delle provviste finanziarie.
A fronte di tale obbligo di verifica, la banca avrebbe dovuto non eseguire le operazioni di bonifico: a) al momento dei versamenti operati dalla cliente sul conto vincolato, in assenza di preventiva documentazione delle operazioni di intermediazione in cambi valutari già compiuti (stante il limite di operatività “a pronti” e non “a termine”, previsto nel contratto di intermediazione richiamato in mandato); b) a titolo di commissioni di gestione, possibili solo in caso di gestioni patrimoniali, vietate alla società di intermediazione.
In sostanza, conclude la Corte d’Appello, la banca, mediante la creazione del conto vincolato alla operatività della società di intermediazione in cambi, generato dalla preclusione di detenere le disponibilità liquide dei clienti, avrebbe posto in essere lo strumento necessario e indispensabile per l’attiva di impresa dell’intermediario e, mediante i vincoli sottoscritti, avrebbe predefinito la operatività che, poi, ha violato, configurandosi quindi una responsabilità a titolo oggettivo, in quanto aderendo all’accordo di collaborazione e collaborando, ha consapevolmente accettato i rischi insiti in quella sua particolare scelta imprenditoriale.