La pronuncia in esame affronta il caso dell’intermediario finanziario che abbia posto in essere una vendita coattiva di titoli azionari in esecuzione di un meccanismo di stop-loss (vale a dire, la vendita coattiva dei titoli nel caso in cui il valore degli stessi raggiunga un valore minimo definito contrattualmente), in mancanza del verificarsi del legittimo presupposto, ossia in mancanza del raggiungimento del prestabilito valore minimo del titolo sul mercato azionario.
La Suprema Corte afferma che tale vendita coattiva integra un inadempimento della banca e determina un danno per l’investitore, derivante dalla apprezzabile, seria e consistente possibilità perduta di vendere il titolo ad un prezzo superiore a quello di stop-loss e con il limite massimo del prezzo raggiunto dal titolo prima dell’avverarsi del valore di stop-loss successivo.
La circostanza che l’investitore non abbia venduto il titolo ad un prezzo maggiore di quello di acquisto nel periodo antecedente alla vendita coattiva non costituisce elemento di gravità ed univocità ex art. 2729 c.c. ai fini della valutazione del prevedibile comportamento dell’investitore stesso, che deve invece fondarsi sull’analisi in continua evoluzione dell’andamento del titolo. In altre parole, la circostanza che l’investitore non abbia venduto il titolo ad un determinato prezzo non implica la conclusione che nel periodo successivo questi non si sarebbe deciso a vendere il titolo anche ad un prezzo inferiore a quello precedentemente raggiunto, finanche inferiore a quello di acquisto.
La Corte precisa altresì che, con riferimento all’onere probatorio in materia di inadempimento contrattuale, grava sulla parte inadempiente l’onere di provare che l’inadempimento è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile. Pertanto, la banca deve dimostrare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno del cliente, annullando l’operazione o riacquistando immediatamente i titoli che erano stati venduti in assenza dei relativi presupposti.