Complesse – ed anche molto ampie – sono le problematiche trattate dalla sentenza n. 21488 del 2016 del Tribunale di Roma (Sezione Specializzata Tribunale delle Imprese).
Il caso di specie spazia dall’istituto dell’annullabilità a quello degli interessi compensativi, presentandosi dapprima sotto le più leggeri vesti di una socia (di una s.r.l.), che intenta un’azione contro l’amministratrice, la società stessa e contro altra società.
La prima domanda si basa sulla pretesa nullità di due contratti di cessione di immobili stipulati proprio dall’amministratrice e considerati indeterminati tanto nell’ammontare del corrispettivo, quanto nelle modalità di pagamento. Sostiene infatti l’attrice che, avendo le parti indicato solo il prezzo provvisorio senza nulla specificare sui limiti temporali per il calcolo del definitivo, i due contratti dovrebbero essere considerati nulli. Dopo aver svolto un primo ragionamento attinente al profilo della legittimazione attiva negli istituti della nullità (per, appunto, dovuta all’indeterminatezza del corrispettivo) e dell’annullabilità (nel caso di specie, per un, preteso, conflitto di interessi), il tribunale conclude che la socia possa ritenersi legittimata esclusivamente a far valere la nullità dei due contratti. Nonostante ciò, i giudici non considerano il corrispettivo indeterminato, dal momento che i criteri per la sua fissazione sono chiaramente esplicati nei due contratti; mentre (così afferma la corte romana) l’eventuale mancanza dell’indicazione delle modalità di corresponsione dello stesso dovrebbe tutt’al più imputarsi alla fase esecutiva del contratto di compravendita, fase che per sua natura viene in considerazione solo in un momento successivo, incidendo sull’esecuzione e non sulla validità del medesimo.
La seconda questione sollevata dall’attrice riguarda invece la scelta gestoria, considerata dalla socia violazione dei doveri amministrativi, di cedere gli immobili, i quali costituivano un cespite rilevante per la società. Tuttavia, il Tribunale di Roma sul punto si esprime chiaramente: non si può mai contestare la scelta dell’amministratore in sé e per sé, ma solo eventualmente le modalità con le quali la stessa sia stata adottata. Bisogna, in altre parole, verificare che l’organo amministrativo abbia agito informato, considerato varie offerte, perseguito nella sua azione una coerenza logica. Dal momento che, nel proprio piano strategico, la società aveva scelto di focalizzarsi su taluni settori imprenditoriali, a discapito di quello immobiliare-locatizio, è coerente la decisione dell’amministratrice di vendere quei cespiti che non servivano a perseguire le attività scelte. A questo si aggiunge, tra l’altro, la mancanza di un conflitto di interessi e l’inadempimento probatorio da parte dell’attrice (che si è limitata a sostenere una lacunosa diligenza dell’organo amministativo, senza fornirne alcuna evidenza).
L’attrice solleva inoltre un terzo punto, sostenendo di avere diritto ad un risarcimento del danno ex art. 2043 cod. civ. da parte della società cessionaria (la quale aveva, tra l’altro, l’amministratrice stessa come socia). La domanda, tuttavia, non viene accolta, non avendo l’attrice adempiuto ad alcun onere probatorio. A ciò si aggiunge l’assenza di un intento fraudolento, che rende – per i giudici – non accogliibile la richiesta risarcitoria.
Ma se la prima parte della sentenza appare, per le tematiche affrontate, interessante all’occhio del giurista, ancora di più lo risulta la seconda, dove i giudici romani vanno ad occuparsi della domanda riconvenzionale della società e dell’amministratrice. Infatti, da parte di quest’ultime viene chiesta la condanna dell’attrice per gli atti compiuti dalla stessa nel corso del periodo in cui essa fu amministratrice, sulla base di quattro rimostranze.
La prima causa di mala gestio riguarderebbe lo scoperto debitorio nei confronti delle banche, ma la tesi viene rigettata dalla corte, dal momento che ciò che conta è la situazione patrimoniale della società al tempo del finanziamento e non certo l’eventuale sopravvenuta inadempienza della stessa: l’amministratore, del resto, non può rispondere tout court del capitale sociale.
La seconda questione riconvenzionale critica invece il percepimento da parte dell’attrice – per il tempo in cui fu amministratrice – di compensi che non erano mai stati deliberati dall’Assemblea, né tanto meno nell’atto di nomina. La disciplina dell’articolo 2389 cod. civ. sul punto è molto chiara: non ammette infatti altra modalità per la determinazione del compenso degli amministratori. Ed anzi la corte sostiene che in ultima istanza si sarebbe dovuto applicare l’art. 2233 cod. civ., con fissazione del compenso da parte dell’autorità giudiziaria. Mancando uno qualsiasi di tali requisiti, la domanda è accolta e l’attrice condannata alla restituzione delle somme.
Viene quindi contestato all’ex-amministratrice l’acquisto di due immobili (a Londra e a Miami) per proprio interesse con denaro della società. Particolarmente interessante è sul punto la difesa opposta: l’attrice sostiene infatti di non poter essere considerata responsabile delle compravendite, dal momento che – nei fatti – ad amministrare e muovere le somme di denaro non era lei (amministratore di diritto), ma gli altri due soci. Il tribunale di Roma afferma quindi che la difesa della parte attrice non solo riconosce l’avvenuto acquisto dei due immobili, ma anche la responsabilità è imputabile alla stessa. Infatti, tali atti di mala gestio non possono considerarsi in alcun modo giustificati dal momento che l’amministratore di diritto è responsabile per quanto compiuto dagli amministratori di fatto, qualora non abbia agito per impedire la loro attività. Si legge chiaramente nel testo della sentenza: “l’amministratore di diritto è responsabile dei danni che terzi, ingeritisi nella gestione della società come pretesi amministratori di fatto senza alcun controllo o ostacolo da parte dell’amministratore di diritto, abbiano causato alla società stessa”.
L’ultima domanda riconvenzionale, relativa al mancato percepito di canoni locativi a causa di inadempimenti dell’amministratrice, viene invece rigettata per mancanza di prove.
Infine, i giudici romani sostengono il non riconoscimento di interessi compensativi alle convenute, poiché non è stato chiesto (né tantomeno provato) un “danno maggiore rispetto a quello coperto con la rivalutazione monetaria”. Il ragionamento trova del resto il suo fondamento nella convinzione di una equipollenza tra lucro cessante ed interessi compensativi sotto il profilo della liquidazione del danno.