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Giurisprudenza

Restrizione alla libertà di stabilimento: la Corte UE sulla legge italiana di diritto internazionale privato

6 Maggio 2024

Corte di Giustizia, Sez. III, 25 aprile 2024, C‑276/22, Pres. Larsen, Rel. Jürimäe

Di cosa si parla in questo articolo

La Corte di Giustizia, con sentenza resa nella causa C- 276/22, del 25 aprile 2024, si è pronunciata in ordine alla possibile restrizione alla libertà di stabilimento da parte della legge italiana di diritto internazionale privato, ovvero, nello specifico, dell’art. 25 della L. 218/1995.

La Corte di Cassazione, nel caso di specie, aveva chiesto alla Corte di Giustizia se gli artt. 49 e 54 TFUE ostassero alla normativa di uno Stato membro (ovvero all’art. 25, paragrafo 1, della L. 218/1995) che preveda, in via generale, l’applicazione del proprio diritto nazionale agli atti di gestione di una società stabilita in un altro Stato membro, in quanto svolge la parte principale delle sue attività nel primo Stato membro.

Rilevante, in primo luogo, per la Corte, è stabilire se la normativa italiana in questione, che prevede l’applicazione del proprio diritto nazionale agli atti di gestione di una società stabilita in un altro Stato membro, in ragione del fatto che tale società svolge la parte principale delle sue attività nel primo Stato membro, costituisca una restrizione alla libertà di stabilimento.

Sono restrizioni alla libertà di stabilimento, ai sensi dell’art. 49 TFUE, tutte le misure che vietano, ostacolano o rendono meno attrattivo l’esercizio di tale libertà: la normativa italiana in esame, in astratto, potrebbe rendere più difficile la gestione di tali società, in quanto potrebbe obbligarle a conformarsi ai requisiti imposti da entrambi tali diritti; di conseguenza, costituirebbe un ostacolo all’esercizio della libertà di stabilimento, poiché una società che si trovi nella situazione della società lussemburghese potrebbe essere assoggettata, cumulativamente, tanto al diritto lussemburghese quanto al diritto italiano, rendendo più difficile la gestione di tale società.

Secondo la Corte, tale restrizione alla libertà di stabilimento risultante dalla normativa italiana, non può peraltro essere giustificata da motivi imperativi di interesse generale come la tutela dei soci, dei creditori, dei dipendenti e dei terzi.

La restrizione di cui trattasi dovrebbe essere infatti idonea a garantire la realizzazione dell’obiettivo di tutela predetto e non dovrebbe eccedere quanto necessario per raggiungere tale obiettivo: secondo la Corte, infatti, se l’art. 25 della legge italiana in esame dovesse essere interpretato nel senso di implicare che qualsiasi atto di gestione di una società validamente costituita secondo il diritto di un altro Stato membro, ma che svolge la parte principale delle sue attività in Italia, debba sempre essere assoggettato alla normativa italiana, non sarebbe possibile verificare l’esistenza, in un caso concreto, di un rischio di lesione degli interessi dei creditori, dei soci di minoranza o dei lavoratori.

Infatti, tale rischio può dipendere, in particolare, dal tipo di atto adottato e variare in funzione della composizione dell’assetto societario della società di cui trattasi; peraltro, la normativa dello Stato membro in cui si è costituita la società potrebbe aver preso in considerazione tali interessi, circostanza di cui l’applicazione automatica della normativa italiana non consente di tener conto.

Pertanto, una normativa nazionale come quella di cui trattasi eccede secondo la Corte quanto necessario per raggiungere l’obiettivo di tutela degli interessi sopra richiamati.

Quanto all’obiezione che la normativa nazionale di cui al procedimento principale miri a contrastare le pratiche abusive, ostacolando comportamenti consistenti nel creare costruzioni puramente artificiose, prive di effettività economica, la Corte aveva già stabilito, da un lato, che il fatto di stabilire la sede, legale o effettiva, di una società in conformità alla legislazione di uno Stato membro al fine di beneficiare di una legislazione più vantaggiosa non costituisce di per sé un abuso; per altro verso, la mera circostanza che una società, pur avendo la propria sede in uno Stato membro, svolga la parte principale delle sue attività in un altro Stato membro, non può fondare una presunzione generale di frode, né giustificare una misura che pregiudichi l’esercizio di una libertà fondamentale garantita dal Trattato.

Nel caso di specie, se la normativa di cui trattasi dovesse essere interpretata nel senso che imponga l’applicazione sistematica della legge italiana a qualsiasi atto di gestione di una società avente sede in un altro Stato membro, ma che svolge la parte principale delle sue attività in Italia, ciò equivarrebbe a introdurre una presunzione secondo cui i comportamenti di tale società sarebbero sempre abusivi: una normativa di questo tipo sarebbe sproporzionata.

Pertanto, gli artt. 49 e 54 TFUE, secondo la Corte di Giustizia UE, devono essere interpretati nel senso che ostano alla normativa di uno Stato membro che preveda, in via generale, l’applicazione del suo diritto nazionale agli atti di gestione di una società stabilita in un altro Stato membro ma che svolge la parte principale delle sue attività nel primo Stato membro.

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