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Attualità

Revoca dell’amministratore e clausola di esclusione del risarcimento dei danni

10 Maggio 2024

Francesco Autelitano, Partner, Trifirò & Partners Avvocati

Di cosa si parla in questo articolo

Il presente contributo analizza il recente orientamento assunto dal Tribunale di Milano con sentenza del 8 gennaio 2024 in relazione alla clausola statutaria che esclude il diritto al risarcimento dei danni in caso di revoca senza giusta causa dell’amministratore di società di capitali.


1. La questione giuridica

Il Tribunale di Milano, Sezione Spec. in materia di Impresa, con la sentenza 8 gennaio 2024, n. 131, ha affrontato la particolare questione riguardante la clausola statutaria che esclude il diritto dell’amministratore di società di capitali al risarcimento dei danni nel caso in cui il medesimo venga revocato senza giusta causa.

La questione giuridica pone in rilievo, in particolare, la conformità della clausola statutaria del citato tenore, rispetto alla norma di cui all’art. 2383, co. 3, cod. civ., secondo cui gli amministratori sono revocabili dall’assemblea in qualunque tempo, salvo il diritto dell’amministratore al risarcimento dei danni, se la revoca avviene senza giusta causa.

La sentenza citata si segnala per l’ampia disamina della natura del rapporto intercorrente tra la società e l’amministratore, finalizzata alla soluzione del tema sopra detto, e quindi per le conclusioni cui la medesima è pervenuta, che costituiscono importanti indicazioni[1] sia in ambito di contenzioso che in sede di regolamentazione negoziale e stragiudiziale dei relativi rapporti.

2. Il caso di specie

Nel caso di specie, due ex amministratori di società hanno convenuto quest’ultima in giudizio chiedendone la condanna al risarcimento dei danni loro causati dalla revoca dalla carica, deducendo che la revoca era stata deliberata in totale assenza di giusta causa, la cui indicazione era stata del tutto omessa in sede assembleare.

In particolare, gli ex amministratori hanno chiesto il risarcimento del lucro cessante, con riferimento agli emolumenti persi a causa della revoca delle cariche, nonché il risarcimento di ulteriori danni all’immagine.

Nell’esaminare le domande degli attori, il Tribunale rileva che, vista l’assenza di motivazione della revoca nella delibera assembleare, le stesse andrebbero in linea generale accolta, in virtù dell’orientamento giurisprudenziale consolidato, per il quale “le ragioni che integrano la giusta causa devono essere specificamente enunciate nella delibera assembleare senza che sia possibile una successiva deduzione in sede giudiziaria di ragioni ulteriori[2].

Sennonché, osservano i Giudici, nel caso di specie lo statuto della società prevede espressamente che “in caso di nomina a tempo indeterminato, [gli amministratori] possono essere revocati in ogni tempo e senza necessità di motivazione e senza alcun diritto al risarcimento di eventuali danni”.

La questione preliminare da affrontare ha pertanto ad oggetto la valutazione della validità della clausola statutaria citata, poiché, in caso positivo, essa “rende irrilevante ogni questione in tema di giusta causa di revoca dell’amministratore – anche solo formale, quale la sua omessa indicazione in sede di deliberazione della revoca – e disconosce qualsivoglia diritto dell’amministratore revocato ad un indennizzo stabilendo con ciò una disciplina di revoca ad nutum “assoluta”, sciolta da ogni obbligo corrispettivo in capo alla Società[3].

3. Il rapporto intercorrente tra amministratore e società

Nell’esaminare il tema sopra indicato, il Collegio prende le mosse dalla qualificazione del rapporto contrattuale che lega l’amministratore e la società amministrata, richiamando in proposito la giurisprudenza della Corte di Cassazione secondo cui tra la società e l’amministratore si instaura un vero e proprio rapporto contrattuale, dovendosi considerare che, nei rapporti tra loro intercorrenti – i c.d. “rapporti interni” – essi devono essere considerati, come d’altronde sono, due soggetti di diritto autonomi e distinti dei quali l’uno svolge una prestazione in favore dell’altro, talché la questione maggiormente problematica ha riguardato piuttosto l’individuazione del tipo negoziale all’interno del quale il predetto rapporto avrebbe dovuto essere sussunto.

A quest’ultimo riguardo, il Tribunale ha richiamato l’insegnamento della Corte di Cassazione a Sezioni Unite laddove: (i) da un lato, ha escluso che la prestazione dell’amministratore possa essere assimilata a quella di un lavoratore subordinato o parasubordinato ovvero di un prestatore d’opera, non essendo essa soggetta ad alcun coordinamento o eterodirezione (neppure da parte dell’assemblea dei soci); (ii) dall’altro, ha ricondotto il rapporto tra la società e l’amministratore nell’ambito dei rapporti societari cui fa riferimento l’articolo 3, comma 2, lett. a) del D. Lgs. 168 del 2003, in particolare affermando: “è stato correttamente osservato (in particolare da Cass. n. 14369/15) che tra i “rapporti societari” ai quali essa fa riferimento deve necessariamente comprendersi il rapporto tra società ed amministratori, data l’essenzialità del rapporto di rappresentanza in capo a questi ultimi come rapporto che, essendo funzionale, secondo la figura della c.d. immedesimazione organica, alla vita della società, consente alla stessa di agire. In altri termini, tale rapporto è rapporto “di società” perché serve ad assicurare l’agire della società, non assimilabile, in quest’ordine di idee, né ad un contratto d’opera (in questo senso, cfr. già Cass. 22046/14), né tanto meno ad un rapporto di tipo subordinato o parasubordinato[4].

Da tale inquadramento giuridico del rapporto negoziale deriva l’inapplicabilità dell’articolo 36 Cost. e la conseguente natura derogabile del diritto al compenso spettante all’amministratore, e così: (i) il rapporto societario di amministrazione può configurarsi anche come contratto a titolo gratuito; (ii) il diritto al compenso è rinunciabile da parte dell’amministratore, anche tacitamente, mediante un comportamento concludente che riveli in modo univoco la sua effettiva e definitiva volontà di rinunzia al diritto.

In questo senso la sentenza in commento ha richiamato ancora i principi giurisprudenziali che hanno rispettivamente affermato: “Il rapporto intercorrente tra la società di capitali ed il suo amministratore è di immedesimazione organica e ad esso non si applicano né l’art. 36 Cost. né l’art. 409, comma 1, n. 3) c.p.c.. Ne consegue che è legittima la previsione statutaria di gratuità delle relative funzioni[5]; e “La rinuncia al compenso da parte dell’amministratore può trovare espressione in un comportamento concludente del titolare che riveli in modo univoco una sua volontà dismissiva del relativo diritto[6].

4. Le clausole statutarie in materia di emolumenti degli amministratori e di revoca degli stessi

Il Tribunale di Milano ha inoltre ricordato che, in linea generale, nel rapporto interno con l’amministratore e sul piano contrattuale, le scelte negoziali per conto della società sono assunte ed espresse dai soci, ai quali spetta ex lege il potere di nominare e revocare gli amministratori e di determinarne, eventualmente, il compenso (artt. 2364, co. 1, n. 3 e 2389, co. 1, cod. civ.).

Pertanto, al fine di individuare le modalità di regolamentazione del rapporto contrattuale con l’amministratore, occorre fare riferimento a quegli atti attraverso i quali, nell’ambito dell’organizzazione societaria, si manifesta la volontà dei soci con particolare riferimento al rapporto di amministrazione.

Sovviene, in primo luogo, lo statuto della società, cui l’amministratore, nell’accettare la nomina, aderisce. Lo statuto – nel dettare le regole di organizzazione – individua i diritti degli amministratori, nonchè le competenze e le facoltà attribuite all’assemblea riguardo a tale rapporto.

Astrattamente, prosegue ancora il Tribunale di Milano, sono prospettabili quattro alternative, potendo lo statuto: (i) attribuire agli amministratori un diritto al compenso, (ii) subordinare il diritto al compenso all’assunzione di apposita delibera dell’assemblea, (iii) escludere il diritto al compenso e stabilire, dunque, la gratuità dell’incarico, ovvero (iv) non prevedere nulla al riguardo.

Il Collegio giudicante afferma, quindi, che sia coerente con il descritto contesto giuridico concludere che, “se lo statuto sociale può addirittura escludere il diritto dell’amministratore al compenso, prevedendo la gratuità dell’incarico, a maggior ragione può prevedere che, in caso di revoca, non gli spetti alcun indennizzo[7].

Tale previsione, infatti, contribuisce a configurare in via statutaria il rapporto che si instaura tra società ed amministratore una volta che questi abbia accettato la carica, atto negoziale che, come detto, implica l’accettazione di tutte le regole statutarie ed anzi l’assunzione dell’obbligo di rispettarle e farle rispettare.

Soggiunge, ancora, il Tribunale che il diritto dell’amministratore al risarcimento sorge, di norma, a seguito di un atto lecito della società amministrata – configurandosi la revoca dell’amministratore quale diritto potestativo, salvo il caso estremo dell’abuso – talché esso è più propriamente qualificabile in termini di diritto ad un indennizzo, avendo la norma (art. 2383, co. 3, cod. civ.) utilizzato il sintagma “risarcimento del danno” per assicurare all’amministratore avente diritto il pieno ristoro del pregiudizio subito piuttosto che per affermarne la derivazione da fatto ingiusto.

5. La deroga all’art. 2383, co. 3, cod. civ.

Per questa via, nel vagliare la validità della clausola in deroga all’art. 2383, co. 3, cod. civ., viene dunque riconosciuto meritevole di tutela l’interesse della società ad estendere al massimo, per via statutaria, il proprio diritto potestativo di revoca, negando accesso, a fronte della decisione di revoca, a valutazioni o pretese di sorta circa il fondamento di quella decisione, nonché alle correlative controversie.

La validità della clausola statutaria è stata considerata con riferimento sia all’art. 2383, co. 3, cod. civ. che all’art. 1725, co. 2, cod. civ. (in tema di mandato), con il rilievo che entrambe le norme sono riferite al rapporto societario di amministrazione e sono derogabili sia perché hanno ad oggetto rapporti puramente patrimoniali, sia perché non hanno riflessi né su diritti di terzi né su aspetti concernenti la struttura della società.

In conclusione, ad avviso del Tribunale di Milano, non sussistono motivi per ritenere non disponibile per via statutaria la disciplina delle conseguenze della cessazione del rapporto amministrativo per effetto di revoca[8].

Con la conseguenza che è irrilevante la mancanza di motivazione della delibera di revoca degli amministratori, proprio in quanto la clausola statutaria del descritto tenore non riconosce agli amministratori alcun indennizzo in alcun caso di revoca, fosse anche non sorretta da giusta causa.

6. Il risarcimento di ulteriori danni.

La sentenza precisa, inoltre, che esula dall’ambito sopra esaminato la domanda di risarcimento di danni ulteriori, quali i danni all’immagine chiesti nel caso di specie, che si assumono derivare dall’illiceità della delibera di revoca.

Tale tipologia di danni non sarebbe di per sé coperta dalla deroga statutaria, essendo essa riferita, come detto, al solo indennizzo disciplinato espressamente dall’art. 2383 cod. civ.

Infatti, con riferimento al danno derivante all’amministratore dalla delibera di revoca dalla carica sociale, la giurisprudenza ha individuato il pregiudizio ai diritti della persona (onore, reputazione, identità personale) come distinto da quello derivante dalla lesione del diritto dell’amministratore alla prosecuzione della carica sino a naturale scadenza, pregiudizio che si può verificare “allorché le stesse ragioni esternate della revoca, in luogo che essere semplicemente insussistenti o inidonee a fondare il potere di recesso, oppure le concrete modalità della cessazione del rapporto, connotate da colpa o dolo” siano appunto idonee a ledere quei diritti o, altrimenti esprimendo gli stessi concetti, in presenza di comunicazioni/dichiarazioni/esternazioni contenute “all’interno della deliberazione di revoca oppure al di fuori di essa” che palesino “ad esempio un’attività ingiuriosa o diffamatoria, animata da colpa o da dolo, posta in essere dalla società, lesiva del prestigio professionale dell’amministratore nel contempo revocato”, oppure quando “le concomitanti e concrete modalità della cessazione del rapporto, esterne alla deliberazione, si palesino contra ius[9].

La stessa giurisprudenza avverte tuttavia che di tali ulteriori e diversi danni, rispetto a quelli consistenti nel lucro cessante da revoca priva di giusta causa, l’amministratore deve offrire puntuale allegazione e prova. Questa deve estrinsecarsi, da un lato nell’individuazione del diritto leso – se da identificare nell’onore e reputazione come diritti della persona in quanto tale o nella loro più stretta declinazione relativa alla sfera professionale o nel diverso diritto alla “identità personale” – dall’altro nella chiara e specifica allegazione delle dichiarazioni/deliberazioni o comportamenti di determinati rappresentanti della Società od organi che, connotati da colpa o dolo, fossero risultati lesivi di quei diritti.

Nel caso di specie, il Tribunale di Milano non ha ritenuto che gli attori abbiano assolto agli oneri di allegazione e prova sopra descritti e ha quindi respinto anche queste ulteriori domande.

 

[1] Ciò, ovviamente, indipendentemente dal fatto che la sentenza si possa condividere totalmente ovvero sottoporre ad analisi critica, approfondimento che tuttavia esula dalla natura del presente lavoro.

[2] Trib. Milano, 20 aprile 2022, in banca dati De Jure; Trib. Milano, 9 giugno 2021, in Redazione Giuffrè, 2021; Trib. Milano, 20 maggio 2021, in ilsocietario.it, 2021; Trib. Milano, 17 dicembre 2018, in Redazione Giuffrè, 2019; Cass., 28 gennaio 2018, n. 2037, in Foro it. 2018, I, 864; Cass., 6 ottobre 2020, n. 21495, in Giust. Civ. mass., 2020

[3] Così la sentenza in commento, pag. 7.

[4] Cass., Sez. Un., 20 gennaio 2017, n. 1545, in Foro it., 2017, I, 891.

[5] Cass., 9 gennaio 2019, n. 285, in Foro it., 2019, I, 488.

[6] Cass., 13 febbraio 2020, n. 3657, in Foro it., 2020, I, 1209.

[7] Così la sentenza in commento, pag. 9.

[8] Si può solo incidentalmente osservare che, come innanzi esposto, la motivazione della sentenza rispetto alla questione dedotta è imperniata sulla verifica della derogabilità dell’art. 2383, co. 3, cod. civ., mentre non prende in considerazione la diversa prospettiva con cui si può valutare la medesima questione, costituita dalla verifica della validità della rinuncia preventiva a diritti non ancora maturati; questa seconda prospettiva si porrebbe dall’angolo visuale dell’amministratore e rispetto a ciò potrebbe essere rilevante indagare se l’accettazione ab origine, da parte dell’amministratore, della clausola statutaria, debba qualificarsi come rinuncia preventiva al diritto all’indennizzo che potrà eventualmente maturare in futuro. Il che toccherebbe la nota problematica della validità delle rinunce ai diritti futuri. Ma, come si è accennato, l’argomento non è stato approfondito dalla sentenza né è possibile farlo in questa sede.

[9] Cass., 26 gennaio 2018, n. 2037, in IUS Societario, 2018; Trib. Milano, 11 novembre 2013, n. 14157, in www.giurisprudenzadelleimprese.it.

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