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Giurisprudenza

Riciclaggio e reato presupposto

11 Maggio 2016

Avv. Francesca De Simone

Cassazione Penale, Sez. II, 7 aprile 2016, n. 13901

Di cosa si parla in questo articolo

Con sentenza n.13901 del 7 aprile scorso, la Corte di Cassazione, sez. II penale ha statuito che per i capitali illecitamente detenuti all’estero sussiste il reato di riciclaggio se l’accusa prova l’esistenza del delitto presupposto, non potendosi solo presumere l’illecito tributario.

La pronuncia trae origine da una sentenza di condanna emessa in primo grado dal Tribunale di Busto Arsizio nel gennaio 2014, in ordine al quale all’imputato veniva contestato, tra l’altro, il reato di riciclaggio per aver fatto rientrare in Italia somme di denaro depositate, prima del 1998, dal padre defunto in luoghi a fiscalità privilegiata. In particolare, il figlio imputato rimpatriava le predette somme attraverso la costituzione e gestione di plurime società di diritto estero. A tal fine, la pubblica accusa aveva individuato il reato presupposto al riciclaggio nell’evasione fiscale posta in essere, via via, da diversi soggetti anche in concorso tra loro. Secondo la tesi accusatoria era configurabile il reato di riciclaggio in conseguenza dell’originario reato tributario perpetrato dal de cuius, da cui provenivano le somme trasferite all’estero e la consapevolezza del figlio di tale illecita provenienza.

Giova ricordare che il delitto di riciclaggio, previsto all’art. 648 bis, I co. c.p. punisce “fuori dei casi di concorso nel reato, chiunque sostituisce o trasferisce denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto non colposo, ovvero compie in relazione ad essi altre operazioni, in modo da ostacolare l’identificazione della loro provenienza delittuosa”. Dal nostro codice penale, dunque, il riciclaggio emerge come un reato concorsuale e associativo, nel senso che esso può essere commesso da un soggetto estraneo alla produzione della risorsa finanziaria, che non concorre, quindi, alla commissione del reato presupposto ma si presenta solo in fase successiva. Possiamo dire, pertanto, che esso si compone di due fasi distinte ma complementari: da una parte la commissione del reato presupposto da parte di un soggetto qualunque; dall’altra, l’intervento di un soggetto diverso dall’autore del reato presupposto, quale può essere, in genere, un congiunto ovvero una persona di fiducia, il quale, essendo a conoscenza dell’origine illecita della disponibilità, si preoccupa di gestire tale risorsa finanziaria, occultandone la provenienza e reinvestendone i proventi illeciti in un’attività apparentemente legale e di difficile riconoscimento da parte degli inquirenti[1].

Tanto premesso, a sostegno della propria tesi, la Procura rilevava che all’epoca dei fatti il padre dell’imputato non aveva altri redditi oltre quelli societari ne era provvisto di autorizzazione all’esportazione di valuta, con la conseguenza che il trasferimento in Italia era avvenuto con frode; evidenziava, ancora, che il figlio doveva essere necessariamente consapevole della provenienze illecita delle somme, essendosi rivolto a consulenti per eseguire il rimpatrio dei capitali ed avendo distrutto la documentazione relativa presente nel proprio computer.

In riforma alla sentenza del Giudice di prime cure, la Corte d’appello di Milano assolveva l’imputato dal reato di riciclaggio motivando, in modo assolutamente congruo, non manifestatamente illogico e tantomeno contradditorio, che non esiste alcun automatismo tra il trasferimento all’estero di denaro e il ricorso al mezzo fraudolento. Ed infatti, seppur l’accusa avesse articolato una ricostruzione possibile dei fatti, si trattava certamente di osservazioni logiche ma senza alcuna concreta prova sul delitto tributario.

Orbene, osserva la Corte che non può essere escluso a priori che i fondi di capitale costituti all’estero potessero essere di provenienza lecita e, peraltro, all’epoca non era vigente la norma secondo cui, ai soli fini fiscali, i capitali esteri non dichiarati si presumono costituiti con redditi sottratti ad imposizione in Italia (solo nel 2009, infatti, con il decreto legge 1° luglio 2009, n. 78, art. 12, co. 2, convertito con modifiche nella legge 3 agosto 2009, n. 102, è stata introdotta la presunzione secondo la quale, i capitali esteri non dichiarati si presumono costituiti con redditi sottratti a tassazione).

In altre parole, la decisione di merito relativamente ai profili descritti in sentenza è stata reputata corretta dalla Suprema Corte, ed infatti è vero che per la configurabilità della fattispecie di riciclaggio non è necessaria l’individuazione nei suoi esatti termini del reato presupposto[2] ma è anche vero che la stessa non è configurabile quando si verte in una situazione nella quale non sia addirittura “possibile stabilire se vi sia stato un reato (rectius: un delitto) presupposto”.

Pertanto se, come nel caso di specie, la provenienza delittuosa delle somme rappresenta solo una delle condotte ipotizzabili ma questa non è stata caratterizzata da alcuna prova decisiva ad escludere altre ipotesi alternative, ciò non può che determinare l’assoluzione dell’imputato rispetto all’accusa di riciclaggio.

In conseguenza delle descritte articolazioni, ne discende che merito della pronuncia in esame è l’aver fornito un chiarimento per quelle situazioni in cui non è possibile stabilire la sussistenza del reato di cui all’art.648 bis c.p. in assenza della concreta prova del precedente delitto tributario e, come nel caso di specie della consapevolezza dei terzi (del figlio) della sua consumazione avvenuta in passato.

Va, infine, accennato che la pronuncia in esame amplia la propria importanza se volgiamo lo sguardo al reato di autoriciclaggio recentemente introdotto dalla legge 186/2014 all’articolo 648-ter.1, in ordine al quale risponde del reato anche l’autore del delitto fiscale. Anche in questo caso, infatti, al fine di identificare la condotta descritta dalla norma sarà necessario fornire prova certa della sussistenza a monte di un delitto tributario.

 


[1] “La configurazione del reato di riciclaggio” – Giappichelli stralci, ed.2010.

[2] In precedenti pronunce la Corte ha, infatti, precisato che rispetto al reato ex art. 648 bis c.p. non è necessario che l’illecita provenienza da delitto non colposo risulti accertata con sentenza definitiva, potendo anche essere desunta sulla base di prove logiche (cfr. Cass. nn. 35763/2010, 47375/2009, 1025/2009).

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