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Riflessioni controcorrente sul regime fiscale delle polizze linked (a proposito di Cass. n. 6319/2019)

2 Maggio 2019

Stefano Massarotto, Studio Tributario Associato Facchini Rossi & Soci

Di cosa si parla in questo articolo

La recente sentenza della Cassazione Civile, Sez. III, del 5 marzo 2019, n. 6319, ha destato nuovo allarmismo nel mercato finanziario, riaccendendo il dibattito sulla qualificazione dei contratti assicurativi a prevalente contenuto finanziario. La sentenza affermerebbe che nelle polizze unit linked, caratterizzate dalla natura mista – finanziaria ed assicurativa sulla vita – anche ove sia prevalente la causa “finanziaria”, la parte qualificata come “assicurativa” deve comunque rispondere ai princìpi dettati dal codice civile (in particolare, l’art. 1882), dal codice delle assicurazioni e dalla normativa secondaria. Ciò significherebbe, secondo i giudici della Suprema Corte, che le polizze devono mantenere concretamente il “rischio demografico”, al fine di conservare, a pena di nullità, quella funzione assicurativa che è la causa concreta del contratto: diversamente si tratterebbe di un semplice “investimento in uno strumento finanziario”.

Il risultato è sicuramente un clima di incertezza interpretativa con effetti perniciosi per gli operatori di mercato e dove le principali “vittime” potrebbero essere i risparmiatori, i quali potrebbero essere esposti a contestazioni da parte dell’Amministrazione finanziaria volte a negare alle polizze linked (soprattutto se i contratti sono stipulati con imprese di assicurazione non residenti) il regime fiscale proprio dei “contratti di assicurazione sulla vita”.

In realtà, il tema della qualificazione giuridica delle polizze linked potrebbe – almeno in parte – non essere più così attuale e il conseguente disconoscimento del regime fiscale proprio delle polizze di assicurazione sulla vita potrebbe, tra l’altro, dare luogo a risultati non sempre favorevoli all’Erario. Ma vediamo brevemente perché.

1. La qualificazione giuridica delle polizze linked

Esula dallo scopo delle presenti note la ricostruzione del dibattito scaturito in sede dottrinale e giurisprudenziale in merito alla qualificazione giuridica delle polizze linked. Vale peraltro la pena evidenziare brevemente i termini della questione[1].

Da una parte, v’è chi, facendo leva sull’assenza del rischio demografico – ovvero il rischio dello scostamento tra la vita media della popolazione e la vita dell’assicurato- ed il fatto che il rischio d’investimento è solitamente allocato in capo all’assicurato (che si trova così esposto alle oscillazioni di valore del fondo cui è collegata la polizza), disconosce la natura assicurativa alle polizze linked. La causa del contratto dovrebbe, in altri termini, ritenersi estranea a quella tipica del contratto di assicurazione, con la conseguenza che ad esso devono essere applicate le norme relative all’intermediazione finanziaria.

È il caso, ad esempio, oltre che della citata sentenza n. 6319/2019, anche della nota ordinanza della Cassazione Civile, Sez. III, del 30 aprile 2018, n. 10333 che, ripresa in maniera impropriamente allarmistica dalla stampa quotidiana, affermerebbe che sono contratti di assicurazione sulla vita solo quelle polizze linked che garantiscono la restituzione del capitale a scadenza[2].

Occorre peraltro evidenziare che questo orientamento si è sviluppato sostanzialmente con riferimento ai contratti sottoscritti prima dell’emanazione del D.Lgs. n. 303 del 29 dicembre 2006 che – in un’ottica di tutela del risparmiatore – ha introdotto nell’art. 1, comma 1, lett. w-bis) del D.Lgs. n. 58 del 24 febbraio 1998, la categoria dei “prodotti finanziari emessi dalle imprese di assicurazione”, includendovi le polizze del Ramo III e del Ramo V, così prevedendo l’applicazione a tali prodotti di regole relative all’offerta e alla distribuzione analoghe a quelle previste per i prodotti strictu sensu finanziari.

In quest’ottica, la tesi volta a riqualificare le polizze linked come strumenti finanziari, non farebbe altro che anticipare, in via interpretativa, quanto poi disciplinato dal D.Lgs. n. 303/2006. E come tale andrebbe – più propriamente – contestualizzata nelle vicende storiche in cui si inseriva senza assumere, quindi, una valenza generalizzata in ipotesi ordinarie (e più attuali).

Su opposto versante, si pone, invece, chi sostiene che il contratto è pur sempre caratterizzato dall’obbligo dell’impresa assicuratrice di eseguire una prestazione certa (ancorché agganciata al valore di un fondo o di un indice) al verificarsi di un evento attinente alla vita umana (ovvero alla morte dell’assicurato); conseguentemente, anche le polizze linked rientrerebbero nello schema giuridico tipico del contratto di assicurazione sulla vita, caratterizzato dalla funzione di tutela del risparmio.

Questo ultimo orientamento si è sviluppato, in particolare, negli ultimi anni anche a seguito della nuova nozione di “prodotti di investimento assicurativi” disciplinati dal Regolamento (UE) n. 1286/2014 (c.d. PRIIPs) e dalla Direttiva (UE) sulla distribuzione assicurativa n. 2016/97 (c.d. IDD). La Corte di Giustizia UE, inoltre, non pare aver avuto mai incertezze sul regime giuridico da applicare alle polizze linked prive di rendimento minimo garantito: con la sentenza del 31 maggio 2018, causa C-542/16 ha infatti da ultimo ribadito il proprio consolidato orientamento secondo cui le polizze assicurative sono assoggettate alla relativa disciplina di settore anche se non viene garantita la restituzione del capitale sempreché sia prevista, a fronte del pagamento del premio da parte del contraente, una prestazione della compagnia di assicurazione al verificarsi dell’evento assicurato[3].

Come è stato inoltre autorevolmente sostenuto, “nell’ambito dei mercati regolati, caratterizzati da un’articolata e puntuale normativa settoriale, di derivazione prevalentemente europea, nonché della presenza di specifiche autorità nazionali e sovranazionali, il potere del giudice di riqualificare il contratto non possa atteggiarsi in maniera “ordinaria” ma richiede oneri di allegazione “rafforzati”“[4].

2. Il regime fiscale polizze linked in caso di disconoscimento della causa assicurativa

È noto che, per quanto riguarda le imposte dirette, i redditi rinvenienti dalle polizze linked rientrano, in linea di principio, tra i redditi di capitale di cui all’articolo 44, comma 1, lett. g-quater), del D.P.R. n. 917 del 22 dicembre 1986 (T.U.I.R.), ovverosia tra “i redditi compresi nei capitali corrisposti in dipendenza di contratti di assicurazione sulla vita[5].

Diversamente, laddove – come potrebbe essere il caso oggetto della sentenza n. 6319/2019 – venga negata a talune polizze linked la natura giuridica di contratti di assicurazione sulla vita, ne conseguirebbe il disconoscimento del regime fiscale di cui al citato art. 44, comma 1, lett. g-quater)[6], con la necessità di comprendere in quale delle altre categorie di reddito previste dal T.U.I.R. potrebbero essere ricompresi i redditi derivanti da un generico “strumento finanziario”[7].

In quest’ambito, riteniamo innanzitutto che si debba escludere che le polizze possano essere trattate alla stregua di una gestione collettiva patrimoniale di cui all’art. 44, lett. g) del T.U.I.R.. E ciò principalmente per il motivo che nelle polizze linked, a differenza delle gestioni collettive[8], viene a mancare – generalmente – il fattore di terzietà del patrimonio investito che è, invece, di proprietà della compagnia di assicurazione, con conseguente esposizione al cosiddetto “rischio controparte”, e cioè all’eventualità che questa non sia in grado di far fronte alle proprie obbligazioni[9].

Di converso, occorrerebbe approfondire se le polizze linked riqualificate quali generici “prodotti finanziari” siano riconducibili in una delle seguenti fattispecie:

  1. ad uno schema di mandato di gestione individuale senza rappresentanza posto in essere da un gestore (la compagnia assicurativa) non istituzionalmente a ciò autorizzato; ed invero, a differenza della gestione individuale “istituzionale” – ove non si determina il passaggio di proprietà sostanziale del patrimonio affidato, che resta distinto sia dal patrimonio dell’intermediario, sia da quello di eventuali altri investitori[10], di talché i redditi e le perdite sono imputabili fiscalmente al cliente mandante[11] – le sopra citate polizze potrebbero essere potenzialmente riconducibili tra le fattispecie produttive di redditi di capitale di cui alla disposizione residuale (e di chiusura) prevista dall’art. 44, comma 1, lett. h) del T.U.I.R. (secondo cui costituiscono redditi di capitale “gli interessi e gli altri proventi derivanti da altri rapporti aventi per oggetto l’impiego del capitale, esclusi i rapporti attraverso cui possono essere realizzati differenziali positivi e negativi in dipendenza di un evento incerto”), con conseguente concorso alla formazione del reddito imponibile del percettore secondo le aliquote marginali I.R.P.E.F.[12]; ovvero
  2. tra i contratti derivati e gli altri rapporti finanziari disciplinati dall’art. 67, comma 1, lett. c-quater) e c-quinquies) del T.U.I.R. (e quindi produttivi, esclusivamente, di redditi diversi di natura finanziaria), in considerazione principalmente del fatto che – non trattandosi di contratto assicurativo ma di semplice “prodotto finanziario” – la somma di denaro (rectius, il premio) pagata all’atto della sottoscrizione del contratto non sarebbe data a mutuo[13] alla compagnia assicurativa, atteso che in relazione ad essa non spetterebbe al contraente alcun diritto di restituzione e tanto meno di percezione di interessi sulla stessa; si potrebbe, infatti, argomentare che la somma corrisposta dall’investitore, in particolare, costituirebbe il corrispettivo pagato per acquisire il diritto ad ottenere a scadenza dalla compagnia assicurativa l’eventuale pagamento di una somma di denaro (parametrata, in allora, al valore del portafoglio di riferimento) e, come tale, deve ritenersi acquisita a titolo definitivo da parte della compagnia assicurativa (rappresentando, in altre parole, il compenso per una prestazione di servizi e non certo un impiego di capitale).

Infine, una constatazione, a nostro avviso, non controvertibile: l’eventuale disconoscimento della natura di “contratto di assicurazione sulla vita” dovrebbe comportare la necessità, per l’Erario, di rimborsare l’imposta dello 0,45% sulle riserve matematiche e l’analoga imposta sul valore di contratti assicurativi (cd. “IVCA”, prevista, quest’ultima nei casi di polizze collocate da compagnie estere operanti in regime di libera prestazione di servizi, che non hanno optato per l’applicazione dell’imposta sostitutiva ex art. 26-ter, comma 3, D.P.R. n. 600/1973, direttamente o mediante un rappresentante fiscale), rispettivamente, alla compagnia e al contraente[14]. Esse assumono infatti natura di acconto rispetto all’imposta sostitutiva di cui all’art. 26-ter del D.P.R. n. 600/1973; in caso di riqualificazione del contratto, quest’ultima ritenuta non sarebbe dovuta e quindi non vi sarebbe ragion d’essere nemmeno nell’imposta sulle riserve matematiche o nell’IVCA.

3. Conclusioni

Oggi il trattamento tributario delle polizze linked è oramai di fatto sostanzialmente allineato a quello degli altri redditi da attività finanziarie (con tassazione al 26% dei redditi finanziari)[15].

Ora, è vero che l’investimento in una polizza linked prevede un regime fiscale differente rispetto all’investimento diretto in strumenti finanziari: ad esempio, compensazione dei redditi di capitale con le minusvalenze da cessione, tax deferral al riscatto della polizza, tassazione con l’aliquota del 26% anche di redditi altrimenti soggetti all’aliquota marginale IRPEF, nonché esclusione dalla formazione dell’attivo ereditario delle somme corrisposte agli eredi “in forza di assicurazioni previdenziali obbligatorie o stipulate dal defunto”, trattandosi di indennità spettanti a detti soggetti per diritto proprio e non per diritto successorio. Ma è altrettanto vero che questo regime fiscale è del tutto sistematico e simile a quello di altri tipici strumenti finanziari, quali, ad esempio, gli O.I.C.R. e i contratti di capitalizzazione, i quali hanno quale minimo comune denominatore il fatto di essere caratterizzati per il rispetto del requisito generale di “autonomia” di “chi gestisce” rispetto a “chi investe”.

Occorre quindi chiedersi se l’azione di contrasto da parte dell’Amministrazione finanziaria, volta a negare il regime fiscale proprio dei contratti di assicurazione sulla vita, debba essere mirata solo nei confronti di situazioni effettivamente patologiche – in cui il contratto assicurativo si presta alla realizzazione di finalità improprie, ponendosi quale mero diaframma con il patrimonio personale del contribuente (il quale mantiene il potere di disporre degli assets in polizza) –, senza andare oltre.

 


[1] Per approfondimenti, ci sia consentito rinviare a Paolo di Felice – Stefano Massarotto, La qualificazione delle polizze unit e index linked ai fini fiscali, in Strumenti finanziari e fiscalità, n. 36/2018, pagg. 11 e ss..

[2] Come chiarito tempestivamente dall’ANIA, lo specifico thema decidendum non era la qualificazione del contratto, ma gli accordi sulla composizione della unit e le regole di condotta in termini di correttezza del processo di vendita del prodotto e dell’esecuzione del contratto assicurativo. E l’affermazione della necessità della garanzia della conservazione del capitale a scadenza è svolta in maniera incidentale nel processo e non aveva particolare rilievo rispetto al petitum. Cfr. sul punto, B. Bonfanti, Prestazione di servizi di investimento alla clientela a mezzo di fiduciaria statica e disciplina di trasparenza. A proposito di Cass. n. 10333/2018, in Riv. di Dir. Bancario, n. 6/2018.

[3] Cfr. altresì Corte di Giustizia C-166/11 del 1° marzo 2012.

[4] Cfr. l’intervento di Stefano de Polis, Segretario Generale IVASS, I contratti assicurativi di investimento alla luce del recepimento della direttiva IDD tra tendenze di mercato, dibattito giurisprudenziale ed evoluzione del contesto normativo, del 6 dicembre 2018 presso l’Aula Magna Corte di Cassazione, ove viene, inoltre, evidenziato che “La riconducibilità di un prodotto a quelli assicurativi o finanziari ha, infatti, importanti ricadute su disciplina applicabile e autorità competenti poiché tali mercati sono caratterizzati da stringenti riserve di attività assoggettate a specifiche autorizzazioni …”; ed inoltre “l’IFRS 4 prevede che un contratto sia classificato assicurativo se il rischio tipico è “significativo”; …per il portafoglio vita i criteri applicativi sviluppati dalle compagnie si basano sulla misura della significatività delle prestazioni monetarie addizionali in caso di accadimento dell’evento assicurato, in genere una soglia minima compresa tra il 5% e il 10% dell’ammontare pagato se l’evento non accadesse”.

[5] Non è questa la sede per occuparci del tema dell’utilizzo “improprio” del contratto assicurativo, al fine di schermare l’effettivo possessore delle attività finanziarie (e dei relativi redditi). Per approfondimenti, ci sia consentito di rinviare a L. Rossi – S. Massarotto, Spunti di riflessione sulla qualificazione ai fini fiscali dei contratti assicurativi a contenuto finanziario, in Boll. Trib. n. 9/2017, pag. 669 e segg..

[6] Cfr. la Commissione Tributaria Provinciale, Sez. I, del 10 dicembre 2018, n. 5608 che dopo aver disconosciuto la natura di “contratto di assicurazione sulla vita” ad una polizza linked, conclude – curiosamente – nel senso di aver dimostrato “la natura di reddito di capitale da sottoporre a tassazione ai sensi dell’art. 44, primo comma, lettera g-quater del Tuir” applicando la tassazione presuntiva di cui all’art. 6 del D.L. 28 giugno 1990, n. 167: l’incoerenza del ragionamento dei giudici di primo grado è evidente e, quindi, non è il caso di attardarsi.

[7] Ai fini dell’imposta di successione, dovrebbe essere prevista, in ogni caso, l’esclusione dalla formazione dell’attivo ereditario delle somme corrisposte ai beneficiari, laddove le polizze linked rappresentino comunque contratti di investimento a favore di un terzo (di cui all’art. 1411 del cod. civ.), trattandosi di indennità spettanti a detti soggetti iure proprio e non iure successionis. Cfr. ANIA, circolare del 5 agosto 2010, prot. 0252.

[8] Cfr. Circolare dell’Agenzia delle entrate del 24 giugno 1998, n. 165/E, par. 1.1.9, ove è stato precisato che, “In sostanza, si assoggettano a tassazione come redditi di capitale gli utili derivanti dalle cosiddette gestioni collettive di masse patrimoniali di terzi”, richiedendo, quindi, che il patrimonio gestito sia (e rimanga) di pertinenza degli investitori e non si confonda con quello del gestore.

[9] In merito all’impossibilità di assimilazione ad una gestione collettiva del risparmio, cfr. P. Corrias, Previdenza, Risparmio ed investimento nei contratti di assicurazione sulla vita, in Riv. Dir. Civ., n. 1/2009, pag. 99

[10] Cfr., ex multis, F. Annunziata, La disciplina del mercato mobiliare, Giappichelli, 2015, pag. 105.

[11] Cfr. risoluzioni dell’Agenzia delle entrate del 29 marzo 2002, n. 105/E e del 23 aprile 2002, n. 125/E.

[12] Cfr. ex multis, F. Gallo, La nozione dei redditi di capitale alla luce del D.Lgs. 21 novembre 1997, n. 461, in Diritto e pratica tributaria, I, 1998, pag. 1219 e segg..

[13] La Relazione ministeriale di accompagnamento al D.Lgs. 21 novembre 1997, n. 461 rileva come la lettera h) dell’art. 44 sia stata riformulata al fine di attribuire ad essa una funzione definitoria dell’intera categoria dei redditi di capitale, con la conseguenza che un provento viene ricondotto nel novero dei redditi di capitale solo se lo stesso deriva dal “mero godimento del capitale investito, ossia da un impiego statico di capitale (da intendersi come rapporto – di fatto – assimilabile ad un contratto di mutuo)”, che comporta, quindi, il diritto, in capo all’investitore, alla restituzione integrale del capitale impiegato e alla percezione di interessi (quantunque variabili) sullo stesso.

[14] Cfr. art. 1, comma 2 e segg. del D.L. 24 settembre 2002, n. 209 (conv. con mod. nella L. 22 novembre 2002, n. 265).

[15] Lo stesso modesto rischio biometrico comporterà che solo una modesta porzione della somma attribuita ai beneficiari in caso di decesso dell’assicurato possa godere del regime di piena esenzione (ex art. 34 del D.P.R. n. 601/1973); pertanto, la norma fiscale attuale contiene già gli anticorpi ad una tale situazione.

 

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