Il presente contributo si sofferma sui possibili profili di illegittimità della deroga al principio del favor rei operata dal legislatore attraverso l’art. 5 del decreto legislativo 14 giugno 2024, n. 87 nell’ambito della riforma delle sanzioni tributarie.
Nel corso del 2023, attraverso la Legge Delega n. 111 del 9 agosto 2023, il legislatore ha avviato un’ampia riforma del sistema fiscale italiano, nell’ambito della quale risulta di particolare rilevanza la riforma del sistema delle sanzioni tributarie, amministrative e penali, i cui criteri direttivi sono contenuti nell’art. 20 della menzionata L. 111/2023.
In base alla predetta norma, tra i principali compiti affidati al legislatore delegato vi era quello del miglioramento della proporzionalità del sistema, mediante un’attenuazione della risposta sanzionatoria prevista dall’ordinamento per le violazioni fiscali, anche in un’ottica di allineamento rispetto agli altri Stati europei.
La relazione illustrativa alla legge delegante, infatti, ha chiarito eloquentemente che: “…viene previsto innanzitutto un intervento sulla proporzionalità delle sanzioni tributarie, attenuandone il carico e riconducendolo agli standard di altri Paesi europei. Non v’è, infatti, dubbio che le sanzioni amministrative attualmente previste raggiungano livelli intollerabili, che si discostano sensibilmente da quelle in vigore in altri Paesi, conducendo a una pretesa complessiva di fatto abnorme e in un disincentivo per il contribuente a esperire la tutela giudiziaria in conseguenza del rischio cui un esito negativo lo esporrebbe”.
In attuazione dei criteri forniti dal legislatore delegante, il Governo ha emanato il decreto legislativo 14 giugno 2024, n. 87 (d’ora in avanti anche il “Decreto”), con il quale è stata operata, tra l’altro, una generale mitigazione delle sanzioni tributarie.
L’entrata in vigore del Decreto è stata fissata dall’art. 7 al 29 giugno 2024.
Tuttavia, secondo quanto stabilito dall’art. 5 del Decreto, alcune disposizioni, ed in particolare proprio quelle che prevedono la mitigazione delle sanzioni tributarie amministrative (articoli 2, 3 e 4), hanno un ambito di applicazione temporale specifico, ovvero si rendono applicabili esclusivamente alle violazioni commesse a partire dal 1° settembre 2024.
L’introduzione della norma in oggetto da parte del legislatore delegato ha suscitato ampio dibattito, considerato che comporta l’impossibilità di applicare le sanzioni amministrative più miti previste dal Decreto alle violazioni già commesse e non ancora cristallizzate (non essendo la sanzione divenuta definitiva), e addirittura alle violazioni commesse nel periodo intercorrente tra l’entrata in vigore delle modifiche normative e il 1° settembre 2024.
L’art. 5 in parola si pone, dunque, in aperto contrasto con il principio, di matrice penalistica, del favor rei (o della lex mitior), trasposto in ambito tributario attraverso il comma 3, art. 3, D.Lgs. 18.12.1997 n. 472, secondo cui “Se la legge in vigore al momento in cui è stata commessa la violazione e le leggi posteriori stabiliscono sanzioni di entità diversa, si applica la legge più favorevole, salvo che il provvedimento di irrogazione sia divenuto definitivo”.
La scelta dell’attuale legislatore fiscale risulta inedita, posto che, guardando alle precedenti esperienze di riforma (si pensi al D.Lgs. n. 158 del 2015 e alla legge 6 agosto 2013, n. 97) del comparto sanzionatorio tributario, non è possibile ritracciare norme volte a derogare al principio del favor rei.
I significativi dubbi sulla legittimità della deroga al principio del favor rei in parola, sia in base alle norme interne di rango primario e costituzionale, sia in base alle norme sovranazionali applicabili, causeranno inevitabilmente un appesantimento del contenzioso tributario, in quanto il contribuente si troverà probabilmente costretto a richiedere l’applicazione dello ius superveniens (decreto legislativo 14 giugno 2024, n. 87) sia nei contenziosi instaurandi che nei contenziosi già instaurati, finanche in sede di legittimità, domandando al giudice la disapplicazione dell’art. 5 in parola e, in subordine, il promovimento della questione di costituzionalità e/o il rinvio alle giurisdizioni unionali.
A tal fine di seguito verranno analizzati i profili di illegittimità dell’art. 5 del Decreto, che potrebbero essere fatti valere dal contribuente al fine di ottenere l’applicazione delle sanzioni più miti previste dal D.Lgs. n. 87/2024.
Il principio del favor rei nel sistema delle sanzioni tributarie
Ai presenti fini, è anzitutto opportuno dare brevemente conto della genesi del principio del favor rei nel settore tributario.
L’introduzione del principio in parola in ambito fiscale trae origine dalla legge 23 dicembre 1996, n. 662, che ha individuato i criteri direttivi per la “revisione organica” della disciplina delle sanzioni tributarie non penali.
Al momento della riforma innescata dalla legge delega del ‘96 il sistema delle sanzioni amministrative era complessivamente disciplinato attraverso il rinvio ai principi generali di matrice penalistica (artt. 1-11 della legge 24 novembre 1981, n. 689), che tuttavia risultavano inapplicabili alle sanzioni tributarie, regolate dalla legge n. 4 del 1929.
Il progressivo svuotamento della funzione di legge-guida riconosciuto alla legge n. 4 del 1929, tuttavia, non permetteva di continuare a giustificare l’esistenza di una disciplina sanzionatoria amministrativa specifica per le violazioni tributarie.
Si avvertì, quindi, la necessità di una generale riforma del sistema sanzionatorio tributario, intesa a conseguire un’organica razionalizzazione della relativa disciplina che, venuta meno l’originaria connotazione risarcitoria delle sanzioni tributarie, le conformasse ai principi generali delle sanzioni amministrative dettati dalla legge n. 689 del 1981, con il conseguente trasferimento alla materia tributaria delle garanzie che circondano le sanzioni penali.
Alla necessità di riassetto organico del sistema delle sanzioni amministrative il legislatore delegante rispose, dunque, con l’art. 3, comma 133, della menzionata legge delega.
Nel fissare i criteri direttivi per il legislatore delegato, il legislatore delegante orientò la propria scelta verso una marcata accentuazione dell’impronta penalistica di alcuni istituti, in modo da avvicinare il più possibile alle figure criminose gli illeciti di natura amministrativa.
Tali criteri direttivi erano destinati a comportare da un lato che le sanzioni tributarie assumessero, al pari delle pene, natura afflittiva, e dall’altro che il contribuente potesse beneficiare delle stesse guarentigie riconosciute al reo destinatario di una sanzione penale.
In attuazione del criterio direttivo della legge delega relativo all’assoggettamento della sanzione amministrativa “ai principi di legalità, imputabilità e colpevolezza”, il legislatore delegato ha dunque introdotto l’articolo 3 del Decreto Legislativo Delegato n. 472/97, che ha attuato la trasposizione, nell’ambito delle sanzioni tributarie, dei principi di legalità, di irretroattività della norma sanzionatoria, e del favor rei, con la conseguente abolizione dell’opposta regola dell’“ultrattività” della disposizione sanzionatoria prevista dall’art. 20 della legge 7 gennaio 1929, n. 4.
I profili di illegittimità dell’art. 5 del Decreto
Si è detto come la deroga espressa al principio del favor rei statuita dall’art. 5 del Decreto comporta potenzialmente una serie di significative criticità, che fanno sorgere seri dubbi in merito alla legittimità della previsione in esame, sia in rapporto alle norme interne di rango costituzionale, sia in base alle norme dell’ordinamento sovranazionale.
Appare tuttavia opportuno rilevare che le criticità determinate dalla deroga al principio del favor rei si manifestano già a livello di fonti primarie.
Dall’analisi della struttura dell’art. 3, D.Lgs. 472/97 emerge, infatti, che la formulazione letterale della disposizione pare non ammettere nessuna deroga al principio del favor rei da parte di una legge successiva.
Mentre il 2° comma della norma in esame, relativo al fenomeno dell’abolito criminis, sancisce che, nel caso di sopravvenuta abrogazione della norma sanzionatoria, nessuno può essere assoggettato a sanzione sulla base della norma orami abrogata (anche per le violazioni pregresse), “salvo” però, che non esista una disposizione di legge di segno contrario[1], il 3° comma, dettato in relazione ai casi di introduzione di una sanzione più mite per una fattispecie che rimane comunque punibile, stabilisce l’applicabilità della sanzione più mite anche per le violazioni pregresse, senza alcuna eccezione (fatta salva solo l’ipotesi in cui il provvedimento sanzionatorio sia divenuto definitivo).
Appare, dunque, evidente la rilevante differenza dal punto di vista delle regole di applicazione delle norme che danno origine a fenomeni di abolitio criminis (art. 3, 2° comma) rispetto a quelle che introducono una lex mitior (art. 3, 3° comma), posto che nel primo caso è espressamente prevista la possibilità di derogare all’applicazione retroattiva tramite apposita disposizione di legge; nel secondo caso, invece, la retroattività della lex mitior non ammette deroghe, e quindi il trasgressore ha il diritto ad un ricalcolo della sanzione eventualmente già applicata.
Si dirà infra che i principi contenuti all’interno dell’art. 3, D.Lgs. 472/97 possono oggi essere considerati “costituzionalizzati”.
Ma anche a prescindere dall’eventuale copertura costituzionale pare potersi affermare che, secondo le intenzioni del legislatore del ‘97, in ragione della differente formulazione dei commi 2° e 3° (determinata dalla presenza della locuzione “salvo diversa previsione di legge” nel solo 2° comma), al principio del favor rei è attribuita una particolare forza di resistenza rispetto alle norme di grado pari-ordinato.
Se, infatti, generalmente le antinomie tra norme di pari grado possono essere risolte secondo il principio lex posterior derogat priori, la scelta (netta) del legislatore di confermare espressamente la possibilità di introdurre una deroga legislativa per le ipotesi di abolito criminis, non replicata in relazione al principio del favor rei (disciplinato dalla medesima norma), pare sintomatica della volontà di conferire una forza di resistenza (rispetto alle leggi successive) peculiare al terzo comma dell’art. 3, D.Lgs. 472/97.
Peraltro, è in realtà necessario osservare che la progressiva estensione dei principi sanciti in materia di pene al settore delle sanzioni amministrative, anche in ragione della giurisprudenza sovranazionale di cui si darà contro infra, relativa alle sanzioni “sostanzialmente penali”, rendono probabilmente anacronistica e non esente da criticità anche la previsione, contenuta nel comma 2, secondo cui le regole dettata in materia di abolitio criminis (in campo tributario) possono essere derogate per legge (essendo tale deroga certamente illegittima in materia penale).
Se, tuttavia, l’illegittimità di una deroga da parte di una norma successiva al principio relativo ai casi di abolito criminis, seppur sostenibile, deve considerarsi incerta, vista la chiara formulazione del comma 2, per quanto riguarda il principio del favor rei l’illegittimità di una siffatta deroga appare certa, ancora una volta in ragione della chiara formulazione normativa (del 3° comma della norma in parola).
i. Eccesso di delega (violazione dell’art. 76 Cost.)
Portando l’analisi dal livello delle disposizioni primarie a quello delle norme costituzionali, la scelta del legislatore delegato di derogare al principio del favor rei, in assenza di un espresso criterio direttivo della Legge Delega sul punto, fa anzitutto emergere un potenziale vizio di eccesso di delega.
Il legislatore delegante del 2023 non ha, infatti, dettato alcun criterio direttivo volto a legittimare una modifica o una deroga ai principi fondamentali regolatori del sistema sanzionatorio tributario, ma ha investito il governo dell’esigenza di razionalizzare il sistema sanzionatorio amministrativo e penale e di migliorarne la proporzionalità, attenuando il carico delle sanzioni e riconducendolo ai livelli esistenti in altri Stati europei.
La delega concessa al Governo non pare in alcun modo fornire copertura alla deroga al principio cardine del sistema sanzionatorio del favor rei, né la scelta del legislatore delegato pare potersi ritenere legittimamente inserita in uno spazio lasciato (intenzionalmente) vacante dalla Legge Delega, posto che la deroga al principio del favor rei, come anticipato, è idonea ad incidere su uno dei pilastri del sistema sanzionatorio tributario risultante dalla riforma del ‘97, spezzando quella simmetria nelle garanzie riservate all’autore delle violazioni amministrative e agli autori delle condotte di reato che ha ispirato la riforma, e che trova la sua ratio nella natura afflittiva che le sanzioni tributarie, a seguito dell’intervento riformatore, hanno assunto, al pari delle sanzioni penali.
Conseguentemente, a seguito del travalicamento, da parte del legislatore delegato, della Delega allo stesso concessa, potrebbe efficacemente sostenersi l’incostituzionalità dell’art. 5 del Decreto per contrasto con l’art. 76 Cost.[2].
L’eccesso di delega, traducendosi in un’usurpazione del potere legislativo da parte del Governo, determina, infatti, la violazione dell’art. 76 Cost., in ossequio al principio secondo cui il potere legislativo costituisce una prerogativa del Parlamento.
ii. Violazione dell’art. 25 Cost
Un ulteriore profilo di incostituzionalità dell’art. 5 del Decreto potrebbe essere rintracciato con riferimento all’art. 25, comma 2, Cost., che prevede espressamente i principi di legalità e di irretroattività con rifermento alle reazioni sanzionatorie che l’ordinamento riserva alle violazioni compiute dai consociati.
Secondo la dottrina maggioritaria[3], infatti, l’art. 3, D.Lgs. n. 472 del 1997 trova il suo riferimento costituzionale proprio nell’art. 25 Cost., in quanto traspone nella materia sanzionatoria tributaria i principi di riserva di legge e di irretroattività di matrice penalistica, coerentemente con la concezione unitaria del fenomeno punitivo, che ricomprende tutte le forme attraverso cui può configurarsi la reazione dell’ordinamento ad una violazione (amministrativa o penale) dei consociati.
Quanto precede troverebbe tra l’altro conferma nella circostanza secondo cui, come accennato, la legge di delega fiscale n. 662 del 23 dicembre 1996, cui deve ricondursi l’origine dell’introduzione dell’art. 3 in parola, aveva come precipuo scopo quello dell’estensione dei principi penalistici alle violazioni in materia tributaria, ed era dunque ispirata dal principio dell’unitarietà delle sanzioni amministrative e penali, in ragione dell’afflittività che avrebbe caratterizzato le prime a seguito della riforma.
Una volta individuato un rapporto diretto tra l’art. 25 Cost. e l’art. 3, D.Lgs. n. 472/97, declinato nel senso che la prima norma fornisce copertura costituzionale ai principi contenuti nella seconda, la deroga a tali principi compiuta attraverso una legge ordinaria, quale l’art. 5 del Decreto, potrebbe essere considerata costituzionalmente illegittima.
iii. Violazione dell’art. 3 Cost
Un’ulteriore criticità riguardo la legittimità costituzionale dell’art. 5 del Decreto potrebbe profilarsi in relazione all’art. 3 Cost., per violazione dei principi di uguaglianza e ragionevolezza dallo stesso sanciti.
La norma menzionata, infatti, disponendo l’applicabilità della lex mitior prevista dal Decreto esclusivamente per le violazioni commesse a partire dal 1° settembre 2024, potrebbe determinare un’irragionevole differenza di trattamento tra i contribuenti che hanno commesso una violazione amministrativa fino al 31 agosto 2024 e i contribuenti che hanno commesso, per ipotesi, la medesima violazione amministrativa a partire dal 1° settembre 2024.
L’unica differenza tra le condotte dei due soggetti menzionati atterrebbe ai momenti in cui le violazioni sono state commessa, che potrebbero essere in ogni caso anche molto ravvicinati tra loro (si pensi all’ipotesi estrema in cui due soggetti commettano un’identica violazione tributaria, l’uno il 31 agosto 2024 e l’altro il 1° settembre 2024).
Pare evidente l’irragionevolezza insita nell’individuazione, da parte del legislatore, dell’elemento temporale come discrimen al fine di applicare sanzioni di diversa intensità per violazioni identiche, considerato che i parametri che possono ragionevolmente determinare differenze nel trattamento sanzionatorio sono quelli, indicati dagli artt. 3, comma 3-bis, e 7, D.Lgs. 18.12.1997 n. 472, dell’offensività della condotta del soggetto agente e della gravità della violazione, desunta anche dalla personalità del trasgressore.
Peraltro, già in materia penale la Corte Costituzionale ha avuto modo di statuire che il principio fondamentale della retroattività della lex mitior può essere derogato solo ove vi siano giustificazioni oggettivamente ragionevoli[4] e sempreché non venga leso il principio di eguaglianza dettato dall’articolo 3 della Costituzione[5], che impone l’equiparazione del trattamento sanzionatorio dei medesimi fatti, indipendentemente dall’elemento della loro commissione in un periodo precedente o successivo all’entrata in vigore della modifica mitigatrice.
La Corte Costituzionale, quindi, ha già valutato (ovviamente) come irragionevole, e contraria al principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 Cost., la scelta del legislatore consistente nell’individuare nella circostanza della commissione di una violazione prima o dopo l’entrata in vigore della norma mitigatrice il discrimen per l’irrogazione di punizioni di diversa severità.
Inoltre, la Corte costituzionale[6] ha anche avuto modo di chiarire che il principio di retroattività della lex mitior, costituzionalmente tutelato dall’art. 3 Cost., “deve ritenersi applicabile anche alle sanzioni amministrative che abbiano natura “punitiva””, in quanto “Laddove…«la sanzione amministrativa abbia natura “punitiva”, di regola non vi sarà ragione per continuare ad applicar[la] […], qualora il fatto sia successivamente considerato non più illecito; né per continuare ad applicarla in una misura considerata ormai eccessiva (e per ciò stesso sproporzionata) rispetto al mutato apprezzamento della gravità dell’illecito da parte dell’ordinamento. E ciò salvo che sussistano ragioni cogenti di tutela di controinteressi di rango costituzionale, tali da resistere al medesimo “vaglio positivo di ragionevolezza”, al cui metro debbono essere in linea generale valutate le deroghe al principio di retroattività in mitius nella materia penale»”[7].
Quanto ora argomentato non sembra possa essere scalfito dal tentativo compiuto dal legislatore delegato (all’interno della relazione illustrativa al D.Lgs. n. 87/2024) di giustificare la manifesta irragionevolezza dell’applicazione delle sanzioni mitigate solo per il futuro, attraverso il richiamo all’interesse all’equilibrio del bilancio pubblico tutelato dall’art. 81 Cost., da cui deriverebbe una valutazione di “bilanciamento e prevalenza con altri valori costituzionalmente protetti”, che porterebbe a giustificare la frustrazione di altri principii costituzionali, quali quelli di uguaglianza e ragionevolezza.
A seguito della riforma del ‘97 le sanzioni tributarie hanno assunto, similmente alle pene, natura spiccatamente afflittiva, abbandonando la funzione risarcitoria che le caratterizzava ante-riforma.
Tali sanzioni, dunque, generano delle “entrate”, in senso lato, per le casse statali, esclusivamente alla luce della circostanza, di natura contingente, secondo cui è riservato allo Stato il compito di punire le violazioni commesse dai consociati; tuttavia, le stesse non sono affatto dirette ad incrementare il patrimonio erariale, bensì hanno l’obiettivo di decrementare il patrimonio dei contribuenti che commettono le violazioni, in chiave punitiva.
La modulazione della risposta sanzionatoria in base alle esigenze di gettito appare, dunque, illegittima ed ingiusta[8], in quanto la natura afflittiva delle sanzioni tributarie comporta che gli unici parametri idonei ad incidere sulla loro modulazione siano quelli che attengono all’offensività della condotta in un’ottica di proporzionalità.
Sarebbe certamente illegittimo, dunque, il comportamento del legislatore consistente nell’orientare gli interventi legislativi che riguardano le sanzioni avendo riguardo alle esigenze di gettito.
Del resto, la nota giurisprudenza costituzionale[9] che si è occupata di illustrare i rapporti tra l’interesse all’equilibrio del bilancio pubblico e gli altri principi di rango costituzionale (tra cui anche i principii contemplati dall’art. 3 Cost.) aveva ad oggetto la legittimità costituzionale di un’imposta, ovvero del principale strumento precipuamente destinato al reperimento di risorse pubbliche.
I principii espressi dalla menzionata giurisprudenza non sembrano estensibili al campo delle sanzioni tributarie, il cui fine, come anticipato, è spiccatamente punitivo.
iv. Violazione dell’art. 7 CEDU e 49 della Carta di Nizza, e conseguente incostituzionalità per contrasto con l’art. 117 Cost.
Inoltre, esistono profili di frizione tra l’art. 5 citato e alcune disposizioni dell’ordinamento sovranazionale (che in ogni caso trovano ingresso nell’ordinamento interno attraverso gli artt. 11 e 117 della Costituzione).
Diverse disposizioni di carattere sovranazionale, cui la Corte Costituzionale ha assegnato il rango di fonti interposte[10], contemplano, infatti, il principio di retroattività della lex mitior.
In particolare, il principio in oggetto è espresso dall’art. 7 della CEDU, così come interpretato dalla Corte EDU[11], e dall’art. 49, par. 1, della Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE.
L’ambito applicativo delle predette disposizioni, che fanno espresso riferimento ai concetti di reato e di pena, non deve ritenersi limitato alle fattispecie che i legislatori nazionali qualificano come penalmente rilevanti.
A livello sovranazionale, infatti, la qualificazione di una sanzione come penale non corrisponde a quella adottata dai singoli legislatori nazionali, dovendosi invece ricorrere all’utilizzo dei noti criteri individuati dalla Corte EDU nel caso Engel.
La menzionata Corte, attraverso una serie di pronunce[12], ha nel corso degli anni enucleato ed affinato i c.d. “criteri Engel”, necessari a decidere se ci si trova di fronte ad una sanzione di “natura sostanzialmente penale”.
In base a tali criteri le sanzioni di tipo particolarmente afflittivo, indipendentemente dalle categorie utilizzate dai legislatori nazionali, devono essere considerate alla stregua di sanzioni penali, con conseguente necessità di osservare le garanzie che la CEDU riserva ai soggetti nei cui confronti vengono irrogate tali sanzioni.
Non si pongono dubbi particolari per quanto attiene alla natura sostanzialmente penale delle sanzioni tributarie previste dall’ordinamento italiano, in ragione della loro particolare afflittività e della loro funzione punitiva e dissuasiva[13].
Dalla valutazione relativa alla natura sostanzialmente penale delle sanzioni amministrative, ed in particolare delle sanzioni tributarie, deriva, dunque, l’applicabilità alle stesse dell’art. 7 CEDU, nonché del principio di retroattività della lex mitior ivi (implicitamente) statuito.
Conclusioni
Le plurime criticità relative alla previsione della deroga al principio del favor rei di cui all’art. 5 del Decreto potrebbero essere rilevate dai contribuenti al fine di richiedere l’applicazione delle sanzioni più miti previste dal D.Lgs. n. 87/2024, sia nei contenziosi instaurandi che nei contenziosi già instaurati, anche in sede di legittimità.
La giurisprudenza di legittimità[14] ha infatti statuito che l’applicazione dello “ius superveniens”, costituito dall’introduzione di norme più favorevoli al contribuente, deve essere rilevata “anche d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio, e quindi anche in sede di legittimità, all’unica condizione che il provvedimento sanzionatorio non sia divenuto definitivo”, sicché il giudice tributario può applicare (anche) d’ufficio la sanzione più favorevole[15].
Tale circostanza determinerà verosimilmente l’indesiderato effetto del significativo aggravamento dell’attività delle Corti di Giustizia Tributaria e della Corte di Cassazione, che saranno probabilmente chiamate ad esprimersi sui complessi temi di cui si è dato conto in tutti i giudizi in cui la pretesa degli uffici riguarda anche le sanzioni (ovvero la quasi totalità dei giudizi tributari).
Al fine di scongiurare il verificarsi della circostanza che precede è auspicabile un intervento in tempi rapidi della Corte di Cassazione che, nel suo ruolo di giurisdizione di vertice e di indirizzo, potrebbe fornire delle indicazioni in merito alla possibilità di disapplicare l’art. 5 del Decreto, o in merito alla non manifesta infondatezza della relativa questione di costituzionalità.
Si segnala, peraltro, che la Corte di Cassazione è già stata investita della questione.
Da quanto si evince dall’ordinanza n. 21150 del 29 luglio 2024, infatti, un contribuente ha sottoposto alla Corte di Cassazione, attraverso il deposito di una memoria successiva alla celebrazione della pubblica udienza, la questione relativa alla potenziale illegittimità dell’art. 5 del Decreto, e la conseguente necessità di applicare al caso di specie la disciplina sanzionatoria più mite derivante dallo ius superveniens costituito dal decreto legislativo 14 giugno 2024, n. 87, in ragione del principio del favor rei di cui all’art. 3, comma 3, D.Lgs. n. 472/1997.
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza in esame, ha ritenuto di assegnare termine al Pubblico Ministero ed alle parti, ai sensi dell’art. 384, comma 3, cod. proc. civ., per il deposito di osservazioni sulle suddette questioni.
La circostanza secondo cui la Corte di Cassazione, meritevolmente, e coerentemente con la propria funzione nomofilattica e di indirizzo, ha ritenuto d’ufficio di assegnare termine alle parti per ulteriori osservazioni, nonostante fosse già stata celebrata la pubblica udienza, dimostra che anche per i giudici di legittimità non possono essere ignorate l’esistenza e la significatività del problema de quo.
Concludendo si segnala che, anche nel caso in cui la giurisprudenza dovesse ritenere applicabile la previsione di cui all’art. 5 del Decreto, nonostante i plurimi profili di illegittimità già segnalati, ai contribuenti residuerebbe comunque un ulteriore strumento per tentare di ottenere l’applicazione delle sanzioni più miti previste dal D.Lgs. 87/2024.
Le sanzioni previste dal regime anteriore al predetto decreto legislativo, infatti, risultano senz’altro eccessive e sproporzionate, secondo quanto chiarito dallo stesso legislatore delegante che, come anticipato, nella relazione illustrativa alla L. 111/2023 le ha definite “intollerabili” ed “abnormi”.
Considerato che il principio di proporzionalità delle sanzioni è previsto dall’art. 49 della Carta di Nizza, e che tale principio risulta di diretta applicazione negli ordinamenti nazionali[16], i contribuenti potrebbero richiedere in sede giurisdizionale la rimodulazione delle sanzioni irrogate dagli uffici, in quanto violative del più volte menzionato principio di proporzionalità[17].
In tal caso i giudici nazionali potrebbero decidere di quantificare le sanzioni oggetto del contendere nella migliorativa misura prevista dal citato D.Lgs. 87/2024, orientato, almeno secondo le intenzioni del legislatore delegante, al rispetto del principio di proporzionalità.
[1] “Salvo diversa previsione di legge, nessuno può essere assoggettato a sanzioni per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce violazione punibile”,
[2] Secondo cui “L’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo se non con determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti”.
[3] cfr. L. Del Federico, Le sanzioni amministrative nel diritto tributario, Milano, 1993, 19 ss.; Id., Il principio di legalità, in Trattato di diritto sanzionatorio tributario, a cura di A. Giovannini – A. Di Martino – E. Marzaduri, Milano, 2016, 1421 ss.; R. Cordeiro Guerra, Illecito tributario e sanzioni amministrative, Milano, 1996, 150 ss.
[4] Corte Costituzionale, sent. n. 236/2011.
[5] Corte Costituzionale, sent. n. 394/2006.
[6] Corte Costituzionale sent. n. 63/2019.
[7] In senso conforme Corte Costituzionale n. 68/2021.
[8] Sul punto si veda Circolare Assonime n. 25/2015.
[9] Corte Cost. 11.2.2015 n. 10.
[10] Corte costituzionale sent. nn. 348 e 349 del 2007.
[11] Anche se l’articolo 7 della Convenzione non menziona espressamente il principio della retroattività della legge penale più mite la Corte ha ritenuto che questa disposizione non solo garantisca il principio di non retroattività delle leggi penali più severe, ma anche, e implicitamente, il principio di retroattività della legge penale più mite. Questo principio si riflette nella norma secondo la quale, se la legge penale in vigore al momento della commissione del reato e le successive leggi penali adottate prima della pronuncia di una sentenza definitiva sono diverse, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli all’imputato (Scoppola c. Italia (n. 2) [CG], §§ 103-109).
[12] Corte EDU, Engel e altri c. Paesi Bassi, 8 giugno 1976; Corte EDU, Zolotukhin c. Russia, 10 febbraio 2009; Corte EDU, Grande Stevens c. Italia, 4 marzo 2014; Corte EDU, Nykänen c. Finlandia, 20 maggio 2014; Corte EDU, Lucki Dev c. Svezia, 27 novembre 2014; Corte EDU, Kiiveri c. Finlandia, 10 febbraio 2015.
[13] Cass. n. 2245/2022, con cui la Cassazione ha ritenuto di natura sostanzialmente penale le sanzioni per infedele dichiarazione IRES, IRAP ed IVA previste agli artt. 1, comma 2, e 5, comma 4, DLgs. n. 471 del 1997.
[14] V. sentenze 18 gennaio 2008, n. 1055 e 22 luglio 2009, n. 17069.
[15] Cfr. Cass. 24 gennaio 2013, n. 1656; 24 luglio 2013, n. 17972; 17 febbraio 2016, n. 3119.
[16] Corte di giustizia Ue, sentenza C-205/2020, dell’8 marzo 2022.
[17] Ciò sia nelle fattispecie aventi ad oggetto i tributi armonizzati, che nelle fattispecie relative ai tributi non armonizzati, in virtù del riconoscimento da parte della Corte costituzionale (sentenza n. 46/2023) della valenza generale del principio di proporzionalità.