Nelle risposte a interpello n. 130 del 2 marzo 2021 e n. 145 del 3 marzo 2021[1], l’Agenzia delle Entrate si è occupata del trattamento a fini IVA delle somme corrisposte nell’ambito di accordi transattivi, concludendo per l’imponibilità ai fini IVA sulla base della disposizione “di chiusura” contenuta nell’art. 3, comma 1, del DPR n. 633/1972 (“Decreto IVA”) secondo cui costituiscono prestazioni di servizi “le prestazioni verso corrispettivo dipendenti … in genere da obbligazioni di fare, non fare e di permettere quale ne sia la fonte”.
Le argomentazioni spese nei due documenti di prassi appaiono molto simili, nonostante la sostanziale diversità delle fattispecie oggetto di analisi[2]: (i) l’ampia formulazione dell’art. 3, comma 1, del Decreto IVA; (ii) la sentenza della Corte di Cassazione n. 20233 del 31 luglio 2018[3]; (iii) l’inapplicabilità alle fattispecie esaminate dei principi espressi dalla CGUE nelle sentenze Mohr e Landboden-Agrardienste (rispettivamente cause C-215/94 del 29 febbraio 1996 e C-384/95 del 18 dicembre 1997)[4]; (iv) la giurisprudenza della CGUE secondo cui “una prestazione di servizi è imponibile solo quando esista un nesso diretto fra il servizio prestato e il controvalore ricevuto (…)”[5].
Le conclusioni raggiunte dall’Agenzia delle Entrate (così come la sentenza della Corte di Cassazione posta alla base delle stesse) appaiono motivate da una imprecisa interpretazione delle disposizioni euro-unionali e dei principi affermati dalla Corte di Giustizia.
In primo luogo, nonostante la formulazione ampia dell’art. 3, comma 1 del Decreto IVA, nel sistema dell’IVA il presupposto oggettivo può ritenersi, di norma, integrato quando le cessioni di beni o le prestazioni di servizi siano effettuate “a titolo oneroso”[6] ossia “verso corrispettivo”[7]. In particolare, gli elementi caratteristici del requisito oggettivo si concretizzano nel principio (i) di onerosità e (ii) di scambio dell’operazione inter partes[8].
Secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia – citata dalla stessa Agenzia delle Entrate – un’operazione può considerarsi onerosa solo qualora sia individuabile una controprestazione. A tal fine non è quindi sufficiente il pagamento ma anche che tale pagamento sia correlato ad una prestazione economicamente valutabile, ancorché non necessariamente dipendente da un contratto a prestazione corrispettive[9] [10]. Occorre, in altre parole, che vi sia stato un “consumo”[11].
Questo fondamentale principio non è derogato nell’ipotesi in cui la prestazione sia solo “negativa” (consistendo in un’obbligazione di “non fare” o di “permettere”). Anche questo tipo di operazioni assume, infatti, rilevanza ai fini IVA solo se effettuata a titolo oneroso, e cioè quando sussiste un collegamento sinallagmatico (economicamente valutabile) fra la prestazione resa e il corrispettivo (in denaro o in natura) ricevuto, tale per cui le somme versate costituiscono l’effettivo corrispettivo di una prestazione individuabile fornita nell’ambito di un rapporto giuridico nel quale avvenga uno scambio di reciproche prestazioni[12].
In questo senso, quindi, la rilevanza ai fini IVA dell’operazione non pare possa essere ancorata alla mera circostanza che negli accordi vi sia una espressa rinuncia all’esercizio di ogni ulteriore pretesa nei confronti della controparte e/o alla rinuncia della propria pretesa. Questo tipo di obbligazioni di fare o non fare di per sé considerato non sembra avere i connotati di una “prestazione individuata ed economicamente valutabile” a fronte della quale è ricevuto il pagamento. Inoltre, la circostanza che questo tipo di impegni sia assunto nell’ambito di una transazione relativa a una controversia avente ad oggetto il risarcimento del danno imporrebbe la necessità di svolgere un’analisi ulteriore.
Infatti, l’art. 15, n. 1) del Decreto stabilisce, coerentemente con il principio di onerosità sopra descritto, che non concorrono a formare la base imponibile “le somme dovute a titolo di (…) penalità per ritardi o altre irregolarità nell’adempimento del cessionario o del committente”[13]. Questa norma esclude l’imponibilità ai fini IVA dei pagamenti dovuti a titolo di risarcimento del danno causato da inadempimento, proprio nell’assunto che i medesimi non costituiscano il “corrispettivo” di una cessione di beni o prestazione di servizi, ma siano diretti a reintegrare il patrimonio della parte che ha subito un effettivo pregiudizio a causa del comportamento della controparte[14].
Ebbene la necessità di verificare se le somme siano state corrisposte a titolo di corrispettivo per una prestazione economicamente valutabile (e siano quindi imponibili ai fini IVA) ovvero a titolo di risarcimento del danno (e non siano quindi rilevanti ai fini IVA) non viene meno per la sola circostanza che il pagamento sia intervenuto nell’ambito di un accordo transattivo. Infatti, nell’ottica euro-unionale l’assunzione dell’obbligo di rinuncia alle controversie pendenti o future non è di per sé idoneo a configurare una nuova prestazione rilevante ai fini IVA se, da un punto di vista sostanziale, emerge che la causa economica del pagamento sia in realtà da ravvisarsi nel risarcimento di un danno[15].
Sotto questo profilo occorre precisare che la Corte di Giustizia è costante nell’affermare che ciò che conta ai fini dell’IVA è la realtà economica delle operazioni. La necessità di un’applicazione uniforme della disciplina in materia di IVA comporta che, per un corretto inquadramento delle fattispecie, la valutazione della realtà economica e commerciale debba costituire il criterio fondamentale. A tal fine, il contenuto delle clausole contrattuali e le definizioni date dalle parti non sono dirimenti[16][17][18].
In questo senso non dovrebbero essere decisive le considerazioni circa la natura civilistica dell’accordo intercorso tra le parti e, in particolare, sulla natura novativa o meno della transazione: se la transazione riguarda somme chieste o dovute a titolo di risarcimento, la valutazione della realtà economica e commerciale deve prevalere sulla forma contrattuale nonché sugli istituti di diritto civile e sulle formule utilizzate dalle parti. Ecco che allora la transazione riguardante una controversia sorta in relazione alla pretesa di un risarcimento dei danni non può trasformarsi in un’operazione rilevante ai fini IVA solo perché le parti rinunciano a reciproche pretese (assumendo le correlate obbligazioni di fare o non fare). La natura economica del pagamento effettuato nei confronti della parte che lamenta il danno rimane infatti quella di un risarcimento che, in quanto tale, è escluso dalla base imponibile IVA.
In questo senso le conclusioni raggiunte dall’Agenzia delle Entrate nella risposta a interpello n. 145/2021 (e nella precedente risposta n. 386/2020) non sembrano pienamente conformi al diritto euro-unionale, posto che dalla lettura dei fatti sembra emergere in modo chiaro che gli accordi transattivi riguardavano controversie in materia di risarcimento dei danni[19].
Con riferimento a queste fattispecie sarebbe quindi auspicabile un cambio di rotta da parte dell’Agenzia delle Entrate (e della Corte di Cassazione), ossia un’applicazione più puntuale delle indicazioni della Corte di Giustizia circa la necessità di valorizzare la natura “economica” sostanziale dell’operazione, senza limitarsi a un mero richiamo alla previsione dell’art. 3, comma 1, del Decreto IVA.
[1] Le considerazioni svolte con riferimento alla risposta n. 145/2021 appaiono estensibili anche al caso – analogo – trattato nella risposta a interpello n. 386/2020.
[2] In particolare, le fattispecie analizzate riguardavano: 1) un “contratto di transazione” con il quale l’istante (una società italiana) ha ceduto a un altro soggetto il proprio status di “beneficiario in caso di liquidazione” di una fondazione di diritto di un Paese UE, assumendosi alcune obbligazioni in tal senso a fronte del pagamento di un corrispettivo. Le obbligazioni assunte consistono nella conferma della propria rinuncia, nel trasferimento dello status, nell’impegno a supportare ogni necessaria modifica statutaria (risposta a interpello n. 130/2021); 2) un accordo transattivo, intervenuto a seguito di una richiesta di risarcimento danni derivanti da una serie di problematiche di funzionamento degli impianti condotti in locazione che non hanno consentito di conseguire i livelli di performance garantiti dal locatore. In particolare, la società locataria ha chiesto il risarcimento delle somme derivanti da: i) investimenti sostenuti, aumento dei costi della produzione dovuti alla riorganizzazione della stessa produzione, applicazione di penali e cancellazione di ordini da parte dei propri clienti con riferimento all’impianto malfunzionante e ii) investimenti sostenuti per l’ampliamento del sito e delle linee produttive con riferimento a un altro impianto precedentemente oggetto di locazione tra le medesime parti e anch’esso oggetto di malfunzionamenti (risposta a interpello n. 145/2021).
[3] In questa sentenza si legge che “(…) tutto ciò che ha ad oggetto un fare o un non fare o un permettere costituisce operazione imponibile ai sensi dell’art. 3 d.p.r. n. 633 cit. (Cass. sez. trib. n. 6607 del 2013; Cass. sez. trib. n. 215 del 2002)”, ed inoltre, che “(…) la prestazione di servizi – pure in prospettiva unionale – è un’operazione soggetta a IVA anche quando la stessa si risolve in un semplice non fare o come nel nostro caso in un permettere e purché si collochi all’interno di un rapporto sinallagmatico (Corte giust. n. 263 del 2016; Corte giust. n. 174 del 2002)”, precisando infine che “la prestazione di servizi viene connotata dalle rammentate fonti proprio come alternativa a quella sulla cessione di beni gravante sul consumo e – quindi – prescinde da quest’ultimo”.
[4] Nel presupposto che “le stesse forniscono un’interpretazione incidentale su fattispecie del tutto particolari, caratterizzate dalla circostanza che l’indennità riconosciuta ai produttori agricoli assume carattere essenzialmente risarcitorio della perdita subita” (cfr. risposta n. 145 del 2021).
[5] CGUE sent. C-174/2000, par. 39. Nello stesso senso l’Agenzia delle Entrate ha citato anche la sentenza 2 giugno 2016, C-263/15 e la sentenza 3 settembre 2015, C-463/14.
[6] Secondo gli artt. 2, paragrafo 1, e 9, paragrafo 1, comma 2, della Direttiva 2006/112/CE.
[7] Secondo la formulazione dell’art. 3, comma 1 del Decreto IVA.
[8] In particolare, nella sentenza del 3 luglio 2001, C-380/99, i giudici europei hanno affermato che: “per interpretare a tale scopo la nozione di ‘corrispettivo’ di cui all’art. 11, parte A, n. 1, punto a), della Sesta Direttiva, si deve ricordare che, secondo una giurisprudenza costante, il corrispettivo di una fornitura di beni può consistere in una prestazione di servizi e costituirne la base imponibile ai sensi di detta disposizione se sussiste un nesso diretto fra la fornitura dei beni e la prestazione dei servizi e se il valore di quest’ultima può essere espresso in denaro (v., segnatamente, le già citate sentenze Naturally Yours Cosmetics, punti 11, 12 e 16, e Empire Stores, punto 12)”.
[9] Cfr. Corte di Giustizia, sentenza 27 marzo 2014, C-151/13, punto 36. Nello stesso senso anche le sentenze: 12 maggio 2016, C-520/14, punto 26, 3 marzo 1994, C‑16/93, punto 14; 5 giugno 1997, C‑2/95, punto 45; 26 giugno 2003, C‑305/01, punto 47; 18 luglio 2007, C-277/05, punto 19; 16 settembre 2013, C-283/12, punto 37).
[10] Questi principi sono stati affermati anche dalla Corte di Cassazione, ad esempio nella sentenza 23 giugno 2017, n. 15683.
[11] In questo senso non può quindi ritenersi corretta l’affermazione contenuta nella sentenza della Corte di Cassazione n. 20233/2018 secondo cui “la prestazione di servizi viene connotata dalle rammentate fonti proprio come alternativa a quella sulla cessione di beni gravante sul consumo e – quindi – prescinde da quest’ultimo”. L’orientamento espresso in questa pronuncia è stato – purtroppo – confermato con la successiva sentenza 1 ottobre 2018, n. 23668, con la quale la Corte di Cassazione ha apertamente superato le conclusioni della precedente sent. 5 settembre 2014, n. 18764, più aderenti ai principi euro-unionali.
[12] E in questo senso le sentenze della Corte di Giustizia ritenute irrilevanti dall’Agenzia delle Entrate per la peculiarità dei casi trattati, esprimono in realtà il fondamentale principio secondo cui l’obbligazione di non fare convenuta da un imprenditore non può, di per se stessa, considerarsi come una prestazione di servizi qualora la stessa non implichi un effettivo consumo (cfr. CGE sentenze 29 febbraio 1996, C-215/94, e 18 dicembre 1997, C-384/95.
[13] Nella Relazione Ministeriale al Decreto IVA è stato chiarito che tale previsione è diretta ad escludere la rilevanza IVA di quelle somme che, “pur essendo addebitate alla controparte, non hanno natura di vera e propria controprestazione per la cessione del bene o per la prestazione del servizio, […] costituendo […] un risarcimento del danno causato da inadempimento” [sottolineature aggiunte].
[14] Molti sono i precedenti di prassi relativi all’ambito applicativo dell’art. 15, n. 1) del Decreto IVA. Ex multis Ris. 23 aprile 2004, n. 64/E; Ris. 16 luglio 2004, n. 91/E; Ris. 3 giugno 2005, n. 73/E; Ris. R marzo 2000, n. 24/E. Più di recente l’Agenzia delle Entrate si è occupata della questione nella risposta a interpello n. 74/2019.
[15] Sul punto si rinvia alle considerazioni svolte in relazione al trattamento IVA delle somme dovute in caso di revoca di una concessione pubblica (cfr. M. Dimonte – M.C. Turio Bohm, Il trattamento ai fini dell’iva delle somme ricevute a seguito della revoca di una concessione pubblica: brevi riflessioni sulla (difficile) individuazione del presupposto oggettivo, in Boll.Trib. n. 19/2018).
[16] Di particolare rilievo è la sentenza 22 novembre 2018, C-295/17 nella quale la Corte di Giustizia ha ritenuto che i pagamenti contrattualmente previsti come penale contrattuale per l’inadempimento dovessero in realtà qualificarsi come corrispettivo del servizio. In tale pronuncia si legge che: “è irrilevante ai fini dell’interpretazione delle disposizioni della direttiva IVA il fatto che tale importo costituisca, nel diritto nazionale, un diritto al risarcimento del danno di natura extracontrattuale o una penalità contrattuale, oppure che esso venga qualificato come risarcimento del danno, indennizzo o remunerazione. La valutazione se il pagamento di una remunerazione avvenga come corrispettivo di una prestazione di servizi è una questione di diritto dell’Unione, la quale deve essere risolta indipendentemente dalla valutazione operata nel diritto nazionale”. Anche nelle conclusioni dall’Avvocato generale Saugmandsgaard Øe rese nella causa C-5/17 si legge che “secondo una giurisprudenza costante, la presa in considerazione della realtà economica costituisce un criterio fondamentale per l’applicazione del sistema comune dell’IVA. Al riguardo, la Corte ha esplicitamente ammesso la possibilità che alcune clausole contrattuali non riflettano la realtà economica delle prestazioni eseguite, sulla quale deve fondarsi l’applicazione del regime dell’IVA”. Nello stesso senso anche: sentenze 18 luglio 2007, C‑277/05 (e le relative conclusioni dell’A.G.); 20 febbraio 1997, C-260/95; 28 giugno 2007, C-73/06; 7 ottobre 2010, C-53/09 e C-55/09; 20 giugno 2013, C-653/11; 4 ottobre 2017, C-164/16; 12 ottobre 2017, C-404/16.
[17] La sudditanza del diritto civile in ambito tributario è stata affermata anche dalla Corte di Cassazione nella sentenza 9 giugno 2017, n. 14407.
[18] In dottrina v.P. Centore, Anti-economicità delle operazioni e sudditanza del diritto civile nelle controversie, in Corriere Tributario n. 43/2017, pag. 3366.
[19] A diverse conclusioni pare possa giungersi invece con riferimento alla risposta a interpello n. 130/2021. Dalla descrizione fattuale sembrerebbe infatti potersi evincere che, al di là del nomen iuris di “transazione”, l’accordo concluso dalle parti non aveva lo scopo di dirimere una precedente controversia ma quello di trasferire un diritto/status dietro pagamento di un corrispettivo.