Corte di giustizia UE, Grande Sezione, 26 febbraio 2019, cause riunite C 116/16 e C 117/16 – Pres. Lenaerts, Rel. Rosas
Il principio generale del diritto dell’Unione secondo cui i singoli non possono avvalersi fraudolentemente o abusivamente delle norme del diritto dell’Unione, dev’essere interpretato nel senso che, a fronte di pratiche fraudolente o abusive, le autorità ed i giudici nazionali devono negare al contribuente il beneficio dell’esenzione dalla ritenuta alla fonte sugli utili distribuiti da una controllata alla propria società madre, di cui all’articolo 5 della direttiva 90/435/CEE del Consiglio, del 23 luglio 1990, concernente il regime fiscale comune applicabile alle società madri e figlie di Stati membri diversi, come modificata dalla direttiva 2003/123/CE del Consiglio, del 22 dicembre 2003, anche in assenza di disposizioni del diritto nazionale o convenzionali che ne prevedano il diniego.
La prova di una pratica abusiva richiede, da un lato, un insieme di circostanze oggettive dalle quali risulti che, nonostante il rispetto formale delle condizioni previste dalla normativa dell’Unione, l’obiettivo perseguito dalla normativa medesima non è stato conseguito e, dall’altro, un elemento soggettivo, consistente nella volontà di ottenere un vantaggio derivante dalla normativa dell’Unione mediante la creazione artificiosa delle condizioni necessarie per il suo ottenimento. La sussistenza di taluni indizi può dimostrare la sussistenza di un abuso, sempreché si tratti di indizi oggettivi e concordanti. Possono costituire indizi di tal genere, segnatamente, l’esistenza di società interposte prive di giustificazione economica nonché la natura puramente formale della struttura del gruppo societario, della costruzione finanziaria e dei finanziamenti.
Al fine di negare ad una società il riconoscimento dello status di beneficiario effettivo di dividendi ovvero di accertare la sussistenza di un abuso, un’autorità nazionale non è tenuta ad individuare la o le entità che essa consideri beneficiari effettivi dei dividendi medesimi.
In una situazione in cui il regime di esenzione dalla ritenuta alla fonte per i dividendi corrisposti da una società residente in uno Stato membro ad una società residente in un altro Stato membro, previsto dalla direttiva 90/435, come modificata dalla direttiva 2003/123, risulti inapplicabile a fronte dell’accertamento di una frode o di un abuso, ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 2, della direttiva medesima, non può essere invocata l’applicazione delle libertà sancite dal Trattato FUE al fine di mettere in discussione la normativa del primo Stato membro posta a disciplina della tassazione di detti dividendi.
Corte di giustizia UE, Grande Sezione, 26 febbraio 2019, cause riunite C‑115/16, C‑118/16, C‑119/16 e C‑299/16 – Pres. Lenaerts, Rel. Rosas
L’articolo 1, paragrafo 1, della direttiva 2003/49/CE del Consiglio, del 3 giugno 2003, concernente il regime fiscale comune applicabile ai pagamenti di interessi e di canoni fra società consociate di Stati membri diversi, nel combinato disposto con il successivo articolo 1, paragrafo 4, dev’essere interpretato nel senso che l’esenzione da qualsiasi tassazione per gli interessi versati ivi prevista è riservata ai soli beneficiari effettivi degli interessi medesimi, vale a dire alle entità che beneficino effettivamente, sotto il profilo economico, degli interessi percepiti e dispongano, pertanto, del potere di deciderne liberamente la destinazione.
Il principio generale di diritto dell’Unione secondo cui i singoli non possono avvalersi fraudolentemente o abusivamente delle norme del diritto dell’Unione, dev’essere interpretato nel senso che, a fronte di pratiche fraudolente o abusive, le autorità ed i giudici nazionali devono negare al contribuente il beneficio dell’esenzione da qualsiasi tassazione degli interessi versati, di cui all’articolo 1, paragrafo 1, della direttiva 2003/49, anche in assenza di disposizioni del diritto nazionale o convenzionali che ne prevedano il diniego.
La prova di una pratica abusiva richiede, da un lato, un insieme di circostanze oggettive dalle quali risulti che, nonostante il rispetto formale delle condizioni previste dalla normativa dell’Unione, l’obiettivo perseguito dalla normativa medesima non sia stato conseguito e, dall’altro, un elemento soggettivo, consistente nella volontà di ottenere un vantaggio derivante dalla normativa dell’Unione mediante la creazione artificiosa delle condizioni necessarie per il suo ottenimento. La sussistenza di taluni indizi può dimostrare la sussistenza di un abuso, sempreché si tratti di indizi oggettivi e concordanti. Possono costituire indizi di tal genere, segnatamente, l’esistenza di società interposte prive di giustificazione economica nonché la natura puramente formale della struttura del gruppo societario, della costruzione finanziaria e dei finanziamenti. La circostanza che lo Stato membro da cui provengono gli interessi abbia concluso una convenzione con lo Stato terzo in cui risiede la società che ne è beneficiaria effettiva è irrilevante sull’eventuale accertamento di un abuso.
Al fine di negare ad una società il riconoscimento dello status di beneficiario effettivo di interessi ovvero di accertare la sussistenza di un abuso, un’autorità nazionale non è tenuta ad individuare la o le entità che essa consideri beneficiari effettivi degli interessi medesimi.
L’articolo 3, lettera a), della direttiva 2003/49 dev’essere interpretato nel senso che una società in accomandita per azioni (SCA), omologata come società d’investimenti in capitali a rischio (SICAR) di diritto lussemburghese non può essere qualificata come società di uno Stato membro, ai sensi di detta direttiva, idonea a beneficiare dell’esenzione prevista all’articolo 1, paragrafo 1, della direttiva medesima qualora, cosa che spetta al giudice del rinvio verificare, gli interessi percepiti dalla stessa SICAR, in una fattispecie come quella oggetto del procedimento principale, siano esenti dall’imposta sui redditi degli enti associativi in Lussemburgo.
Nel caso in cui il regime di esenzione dalla ritenuta d’imposta alla fonte sugli interessi corrisposti da una società residente in uno Stato membro ad una società residente in un altro Stato membro, previsto dalla direttiva 2003/49, non sia applicabile per effetto dell’accertamento dell’esistenza di una frode o di un abuso, ai sensi dell’articolo 5 della direttiva medesima, l’applicazione delle libertà sancite dal Trattato FUE non può essere invocata al fine di mettere in discussione la disciplina di tassazione degli interessi medesimi del primo Stato.
Al di fuori di tale ipotesi, l’articolo 63 TFUE dev’essere interpretato nel senso che:
- non osta, in linea di principio ad una normativa nazionale per effetto della quale una società residente che corrisponda interessi ad una società non residente è tenuta ad operare, sugli interessi medesimi, una ritenuta d’imposta alla fonte, mentre tale obbligo non grava sulla società stessa nel caso in cui la società percettrice degli interessi sia una società parimenti residente. Tale articolo osta, tuttavia, ad una normativa nazionale che preveda l’effettuazione di tale ritenuta alla fonte in caso di versamento d’interessi da parte di una società residente ad altra società non-residente, laddove una società residente che percepisca interessi da un’altra società residente non sia soggetta all’obbligo di versamento di un acconto dell’imposta sulle società nei primi due anni d’imposizione e non sia quindi tenuta al versamento di detta imposta sugli interessi de quibus se non ad una scadenza sensibilmente più lontana rispetto a quella afferente la ritenuta alla fonte;
- osta ad una normativa nazionale che impone alla società residente, tenuta a procedere alla ritenuta d’imposta alla fonte sugli interessi dalla medesima corrisposti ad una società non-residente, in caso di tardivo assolvimento di tale ritenuta, interessi di mora ad un tasso più elevato rispetto a quello applicabile in caso di ritardato pagamento dell’imposta sulle società, gravante, segnatamente, sugli interessi percepiti da una società residente da parte di altra società residente;
- osta ad una normativa nazionale per effetto della quale, nel caso in cui una società residente sia tenuta ad operare una ritenuta d’imposta alla fonte sugli interessi corrisposti ad una società non residente, è esclusa la deducibilità, a titolo di costi d’esercizio, degli oneri finanziari sostenuti dalla medesima e direttamente connessi all’operazione di finanziamento de qua, mentre, in base alla normativa stessa, tali oneri finanziari sono deducibili ai fini della determinazione del reddito imponibile di una società residente che percepisca interessi da altra società residente.