Il presente contributo analizza e commenta la recente sentenza del 2 settembre 2022 n. 25963 con cui la Cassazione ha affrontato il tema del regime fiscale connesso alle ritenute sui dividendi a fondi pensione USA corrisposti da società italiane.
Con la sentenza n. 25963, pubblicata il 2 settembre 2022, la Cassazione è tornata a confrontarsi, con riferimento alle ritenute sui dividendi a fondi pensione USA, sul delicato tema delle disposizioni interne che violano il divieto di restrizione alla libera circolazione dei capitali di cui all’art. 63 del Trattato di Funzionamento dell’Unione Europea (di seguito, per brevità: “TFUE”).
La pronuncia risulta del tutto coerente con i precedenti resi dalla medesima Corte, nel corso del 2022, con riferimento alle ritenute applicabili sui dividendi corrisposti ad organismi di investimento collettivo del risparmio extra-UE (cfr. sentenze nn. 21454, 21475, 21480, 21481 e 21482 del 6 luglio 2022)[1].
Nel caso qui in analisi, la Cassazione si è pronunciata in relazione all’incompatibilità con il diritto comunitario dell’art. 27, comma 3, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (di seguito, per brevità: “DPR 600/73”) laddove limita l’attenuazione della ritenuta sui dividendi in uscita per i fondi pensione all’ambito europeo[2].
In particolare, l’art. 27, comma 3, DPR 600/73 prevede una ritenuta dell’11 per cento per i soli fondi pensione istituiti negli Stati dell’Unione Europea o dello Spazio Economico Europeo inclusi nella “white list” (di seguito, per brevità: “UE/SEE”).
La norma – come, tra l’altro, recentemente ricordato dall’Agenzia delle Entrate – è stata introdotta, con l’art. 24 della Legge 7 luglio 2009, n. 88, proprio per rispettare i c.d. obblighi comunitari di omogeneizzazione normativa, in particolare al “fine di livellare il carico impositivo dei dividendi corrisposti ai fondi pensione istituiti in Stati UE o in Stati SEE con quello gravante sui dividendi corrisposti a forme di previdenza complementare italiane” (cfr. Risposta n. 338 del 23 giugno 2022) [3].
Nella specie, il caso sottoposto al giudizio della Cassazione si riferiva a dividendi corrisposti da una società residente ad un fondo pensione costituito negli Stati Uniti, che erano stati prudentemente assoggettati alla ritenuta d’imposta prevista dall’art. 27, comma 3, del Dpr 600/73 (o alla ritenuta ridotta ai sensi dell’art. 10 della Convenzione contro le doppie imposizioni USA-Italia).
Al riguardo, la Cassazione ha opportunamente chiarito che la previsione normativa in questione “può configurare un’indebita restrizione della libera circolazione dei capitali in violazione dell’art. 63 TFUE, nella parte in cui non assoggetta allo stesso trattamento fiscale gli utili corrisposti ai fondi pensione istituiti negli Stati Uniti d’America, laddove non si accerti che le due situazioni sono oggettivamente non comparabili”.
In questo contesto, i nostri giudici di legittimità hanno fatto buon uso (pur senza citarlo) del principio – più volte ribadito dalla Corte di Giustizia – relativo all’efficacia diretta del divieto di restrizione ex art. 63 TFUE, applicabile “all’interno degli Stati membri senza bisogno di alcun atto statale di esecuzione o di adattamento”, in ragione del suo carattere chiaro, preciso ed incondizionato[4].
Come chiarito in dottrina, tale efficacia diretta è riconosciuta dalla Corte di Giustizia in particolare “a quelle norme dei Trattati che impongono un obbligo di non fare, come il divieto di dazi doganali all’importazione all’esportazione (art. 30 TFUE)”[5].
Al riguardo, con riferimento ad un caso relativo al divieto degli Stati Membri di applicare dazi, la Corte di Giustizia – nel caso Van Gend en Loos – ha chiarito che il divieto di introdurre determinate misure fiscali “ha valore precettivo ed attribuisce ai singoli dei diritti soggettivi che i giudici nazionali sono tenuti a tutelare” (cfr. Causa 26-62).
Ciò detto, quello che risulta di maggiore interesse è l’iter logico-giuridico seguito dalla Corte di Cassazione per pervenire al menzionato principio di diritto a tutela del fondamentale principio di libera di circolazione dei capitali[6].
La Cassazione innanzitutto conferma la “pacifica riconducibilità dell’imposizione sui dividendi all’ambito applicativo dell’art. 63, par. 1, TFUE”. Questo aspetto appare del tutto coerente con la normativa comunitaria e, al riguardo, un riferimento normativo (pur non citato dalla Cassazione) può rinvenirsi nell’Allegato alla Direttiva 88/361 e nelle relative note esplicative, che – come evidenziato in dottrina – “costituiscono ancora oggi un punto di riferimento imprescindibile in materia”[7].
La Corte, poi, circoscrive il concetto di “restrizione” ai movimenti di capitali. Al riguardo, in linea con la giurisprudenza della Corte di Giustizia UE, viene ribadito (i) che le misure che la norma comunitaria intende contrastare sono tutte quelle “idonee a dissuadere non residenti dal compiere investimenti in uno Stato membro” e (ii) che tra tali misure rientrano anche quelle di natura fiscale.
Infatti, con specifico riferimento ai fondi pensione, la Corte di Giustizia ha già avuto modo di analizzare misure fiscali indebitamente restrittive, chiarendo che la concessione ai dividendi versati ai fondi pensione non residenti di “un trattamento meno favorevole di quello riservato ai dividendi versati a fondi pensione residenti può dissuadere le società stabilite in uno Stato diverso da tale Stato membro dal compiere investimenti nel medesimo Stato membro e costituisce, di conseguenza, una restrizione della libera circolazione dei capitali vietata, in linea di principio, dall’articolo 63 TFUE (v., in tal senso, sentenze dell’8 novembre 2012, Commissione/Finlandia, C‑342/10, EU:C:2012:688, punto 33, del 22 novembre 2012, Commissione/Germania, C‑600/10, non pubblicata, EU:C:2012:737, punto 15, e del 2 giugno 2016, Pensioenfonds Metaal en Techniek, C‑252/14, EU:C:2016:402, punto 28)”[8].
In effetti, l’art. 27, comma 3, introduce una indubbia differenza di trattamento tra i fondi pensione UE/SEE e i fondi pensione di Paesi terzi idonea a dissuadere questi ultimi fondi dall’investire in società italiane.
Ciò detto, la Cassazione passa a “verificare se tale trattamento meno favorevole possa essere giustificato dall’esercizio, da parte dello Stato membro qui considerato, delle proprie competenze impositive oppure se esso sia riconducibile ad una obiettiva non comparabilità delle situazioni in esame”.
In effetti, coerentemente con la giurisprudenza comunitaria, una volta individuata la “restrizione ai movimenti di capitale”, si deve verificare (i) se il diverso regime fiscale possa ritenersi giustificato in ragione della necessità di garantire l’esercizio delle prerogative impositive da parte dell’Amministrazione italiana, ovvero (ii) se le due situazioni (quella interna e quella del soggetto costituito in un Paese terzo) siano o meno oggettivamente sovrapponibili. Infatti, vi può essere discriminazione solo se si applicano diversi regimi a due situazioni uguali o comunque sovrapponibili.
Sotto il primo profilo, la Cassazione non ritiene che lo stabilimento del fondo pensione in un Paese terzo possa comportare un ostacolo all’esercizio della potestà impositiva in Italia, considerato che “l’art. 26 della Convenzione Italia-USA contro le doppie imposizioni prevede e disciplina lo scambio di informazioni fra le autorità competenti degli Stati contraenti”.
In sostanza, la presenza di un adeguato regime di scambio di informazioni tra le due amministrazioni rappresenta un elemento dirimente (ai fini che qui interessano) per scongiurare rischi di non poter correttamente esercitare la potestà impositiva da parte del Paese membro interessato.
In merito al secondo profilo, relativo alla comparabilità o meno di un fondo pensione UE/SEE rispetto ad un fondo pensione USA, è interessante considerare che la sentenza di secondo grado (riformata poi dalla Cassazione qui in commento) aveva ritenuto giustificata la restrizione di cui all’art. 27, comma 3, citato, in ragione della differenza di imposizione del sistema pensionistico americano, che esenta la fase di contribuzione e di accumulo e concentra la tassazione nel momento in cui viene erogata la prestazione (secondo il paradigma c.d. “EET”), a fronte del sistema italiano che prevede anche una forma di imposizione nella fase di accumulo (c.d. “ETT”).
Questo rilievo non è stato condiviso dalla Cassazione e rappresenta il punto di maggior pregio della sentenza qui in commento a parere di chi scrive.
La Corte, in particolare, evidenzia due elementi: innanzitutto la circostanza che la discriminazione eccepita dal fondo pensione USA non era basata sul confronto tra il regime applicabile ai fondi italiani e quello applicabile ai fondi di Paesi terzi. Come visto, infatti, l’art. 27, comma 3, rende applicabile la ritenuta attenuata a tutti i fondi pensione UE/SEE. Pertanto, la giustificazione del diverso trattamento non può essere ricercata nel paradigma impositivo del sistema pensionistico italiano ma deve riferirsi al paradigma normativo UE/SEE.
In questo contesto, come evidenziato dalla Cassazione, non si può non considerare che in ambito europeo convivono entrambe i modelli impositivi dei sistemi pensionistici e anzi “la maggior parte di tali Stati ha adottato il sistema EET”. La differenza tra i paradigmi impositivi, pertanto, non può rappresentare la giustificazione del diverso trattamento tra i fondi pensioni UE/SEE e i fondi pensione dei Paesi terzi.
Su queste basi, la Corte di Cassazione ha considerato discriminatorio il diverso trattamento fiscale di cui all’art. 27, comma 3, e quindi lesivo del divieto di restrizioni alla libertà di circolazione dei capitali.
Si tratta senza dubbio di un risultato da accogliere con favore, anche se non può considerarsi del tutto risolutivo. Si pensi alle difficoltà interpretative che ancora possono presentarsi per gli operatori nel definire cosa deve intendersi per “fondo pensione” quando sono coinvolte giurisdizioni di Paesi terzi, con contesti normativi non altamente omogeneizzati (come avviene invece in ambito comunitario).
Sarebbe pertanto altamente auspicabile un intervento sistematico a livello normativo che estenda il regime impositivo ad ogni fondo pensione (a prescindere dal Paese di costituzione) ed individui i requisiti che deve presentare un ente estero per poter essere considerato tale.
[1] cfr., Rossi-Ampolilla-Tardini, L’ormai necessaria tutela fiscale degli investimenti realizzati in Italia dai fondi di private equity extra UE alla luce della più recente giurisprudenza della Corte di Cassazione, Diritto Bancario, 2 agosto 2022
[2] Si noti che a seguito della modifica inserita dalla legge 23 dicembre 2014, n. 190, il risultato netto di gestione dei fondi pensione è assoggettato a imposta sostitutiva con l’aliquota del 20 per cento e questo incremento non è stato riflesso nella misura della ritenuta sui dividendi ai fondi pensione UE/SEE (cfr. Risposta n. 338 del 23 giugno 2022).
[3] Esteso ora ai sottoconti esteri di prodotti pensionistici individuali paneuropei (PEPP) di cui al regolamento (UE) 2019/1238, a seguito delle modifiche apportate dall’art. 16, comma 2, lett. a), DLgs. 3 agosto 2022, n. 114
[4] cfr. VILLANI, Istituzioni di diritto dell’Unione Europea, 2020, 275
[5] cfr. STROZZI – MASTROIANNI, Diritto dell’Unione Europea, 2019, p. 216
[6] Libertà introdotta nel diritto comunitario dalla direttiva 88/361/CEE, integrata nel Trattato istitutivo della Comunità Europea dal Trattato di Maastricht ed estesa, con alcune rilevanti modifiche, anche ai Paesi terzi dal Trattato di Amsterdam (cfr. Manuale di diritto dell’Unione Europea, Adam-Tiziano, Seconda ed., pag. 520)
[7] cfr. op. ul. cit., pag. 521
[8] cfr. par. 49 della sentenza 13 novembre 2019, College Pension Plan of British Columbia, C-641/17