Il caso in esame afferisce all’irrogazione, da parte della Consob, al Presidente del C.d.A. di un istituto di credito di sanzioni pecuniarie ex artt. 187 ter e 187septies t.u.f., rispettivamente per “manipolazione del mercato” e pubblicazione di “dati falsi circa la dimensione dei patrimoni di base, supplementare e di vigilanza, nonché in relazione ai vari coefficienti patrimoniali contenuti in una relazione semestrale della predetta Banca.
Il Presidente del C.d.A. ricorreva in Cassazione esponendo vari motivi, tra i quali lamentava la tardiva contestazione degli addebiti. Tale censura veniva rigettata Suprema Corte sulla scorta della propria giurisprudenza consolidata per cui il termine di 180 giorni per la contestazione degli addebiti debba decorrere dal momento in cui la constatazione avrebbe potuto essere tradotta in accertamento (Cass. 4957/2020, Cass. 25836/2011, Cass. 9254/2018, Cass. 9311/2007).
Un ulteriore motivo veniva, inoltre, spiegato circa l’insussistenza dell’elemento psicologico dell’illecito ascritto, non avendo il ricorrente partecipato all’estensione della relazione patrimoniale e al connesso aumento di capitale, né, nella posizione di Presidente del C.d.A. della Banca, potendo svolgere ruoli esecutivi.
La Suprema Corte, per quanto qui d’interesse, ha avuto modo di sottolineare che la sanzione può essere irrogata:
- in punto di “condotta materiale”, nei confronti di tutti quei soggetti che abbiano concorso – a qualunque titolo, purché in maniera causalmente efficiente – alla diffusione delle informazioni “false” (Cass. 20935/2009 – nel caso di specie, il ricorrente aveva persino mancato di far constare il dissenso nelle forme dell’art. 2392, comma 3°, c.c.);
- laddove si ravvisi il “contributo psicologico” concepito nella particolare modalità elaborata dalla giurisprudenza di legittimità in materia di sanzioni previste nel t.u.b. (Cass. 1529 e 9546/2018): l’accertamento da parte dell’amministrazione (e la relativa dimostrazione) deve, cioè, estendersi all’elemento oggettivo dell’illecito e dall’accertamento della “suità” (del soggetto sanzionando) della condotta, mentre sul trasgressore grava l’onere di provare di aver agito in assenza di colpevolezza, in virtù della presunzione relativa statuita dall’art. 3 della l. 689/1981.
In relazione a tale ultimo presupposto, tuttavia, la Corte svolge qualche ulteriore considerazione di diritto societario in tema di obbligo di agire informato (2381 u.c. c.c.) da qualificarsi in via teleologica nel senso di imporre la valutazione del generale andamento della gestione. In particolare, per i consiglieri non esecutivi di società bancarie tale dovere si estenderebbe alla costante ed adeguata conoscenza del “business bancario”, dovendo essi contribuire ad “assicurare un governo efficace dei rischi in tutte le aree della banca”, nonché a svolgere efficacemente una “funzione di monitoraggio” anche per esercitare tempestivamente i poteri di direttiva o avocazione rientranti nella delega (Cass. 5606/2019, Cass. 2737/2013).
Nel caso di specie, tali obblighi informativi erano pacificamente rimasti inadempiuti.
L’ulteriore censura che qui interessa muove dalla natura sostanzialmente penale delle sanzioni de quo per argomentare l’applicazione al procedimento sanzionatorio delle garanzie in tema di “giusto processo” e ne bis in idem – considerazioni entrambe disattese, da un lato, perché al ricorrente era stata data ampia possibilità di controdedurre già in sede amministrativa, d’altro canto, l’ulteriore principio non può essere invocato laddove più condotte illecite siano sanzionate da plurime (differenti) disposizioni, specialmente laddove considerino un “fatto tipico” e un “interesse protetto” diversi.