La Suprema Corte (Pres. Ceccherini, Rel. Nappi) si è pronunciata su un caso di revocatoria fallimentare ai sensi dell’art. 67 l. fall., stabilendo che, al fine di negare la sussistenza – in capo al creditore – della conoscenza dello stato di insolvenza, non si può «attribuire rilievo […] alla prognosi favorevole di risanamento dell’impresa conosciuta o condivisa dal creditore», ove vi sia stata successione del fallimento al concordato preventivo e all’amministrazione controllata disciplinata dall’art. 187 l. fall. (ora abrogato). Infatti, la situazione di temporanea difficoltà di adempiere, che costituiva presupposto per l’ammissione all’amministrazione controllata, e lo stato d’insolvenza ai sensi dell’art. 5 l. fall. devono essere considerati – anche alla luce dell’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità – «ontologicamente identici»: pertanto, se non vi è discontinuità tra amministrazione controllata e fallimento, occorre calcolare il periodo sospetto «a ritroso dalla data di ammissione alla prima procedura».
Nel caso di specie, una società era stata sottoposta dapprima alla procedura di amministrazione controllata, «nel presupposto di una situazione di crisi considerata superabile dal Tribunale»; in seguito, era stata ammessa al concordato preventivo, e infine dichiarata fallita. La società aveva effettuato pagamenti (l’ultimo dei quali, quattro mesi prima dell’ammissione alla procedura di amministrazione controllata) a favore di una banca (controricorrente) per estinguere crediti pregressi e scaduti di cui quest’ultima era titolare. Il fallimento esperiva azione revocatoria fallimentare, ai sensi dell’art. 67, comma 1, n. 2, l. fall., al fine di ottenere la dichiarazione d’inefficacia dei predetti pagamenti, posti in essere peraltro utilizzando una parte di un mutuo ipotecario erogato a favore della società dalla controricorrente. In primo grado, il Tribunale aveva accolto la domanda del fallimento, in considerazione del fatto che – come risultava da una consulenza contabile – lo stato d’insolvenza era conoscibile: dall’analisi dei bilanci emergeva, infatti, «un indice di indipendenza finanziaria negativo e una giacenza elevatissima delle scorte di magazzino». La sentenza veniva, tuttavia, riformata in appello, per il rilevato difetto di prova della sussistenza – in capo all’istituto di credito – della scientia decoctionis,sulla base di un duplice ordine di ragioni: in primo luogo, non erano intervenuti protesti o azioni esecutive a carico della debitrice; in secondo luogo, quattro mesi dopo l’ultimo dei pagamenti controversi, la società era stata ammessa alla procedura di amministrazione controllata, che interveniva (prima dell’abrogazione a opera del D. lgs. 5/2006) a risanare situazioni di crisi considerate «superabili» dal Tribunale.
La Corte di Cassazione ha cassato con rinvio la decisione della Corte d’Appello. I giudici di legittimità si sono pronunciati sul caso nonostante la società acquirente delle quote della fallita (trasferite dall’assuntore concordatario) avesse rinunciato al ricorso: essi hanno ritenuto che legittimato a rinunciare nel caso di specie fosse esclusivamente il curatore, in considerazione del fatto che l’evento interruttivo – rappresentato dalla perdita di legittimazione processuale derivante dalla chiusura del procedimento concordatario – non era emerso in giudizio ex art. 300 c.p.c. e il processo era, di conseguenza, proseguito nei suoi confronti. L’assuntore al quale erano state cedute le azioni revocatorie, da considerare – sin dalla chiusura della procedura concordataria – successore nel diritto controverso ai sensi dell’art. 111 c.p.c., avrebbe potuto, quindi, soltanto intervenire nel giudizio in corso, «ma non come parte necessaria né in sostituzione del curatore fallimentare».
Nel merito, le Suprema Corte ha ritenuto che, costituendo lo stato d’insolvenza e la temporanea difficoltà di adempimento ex artt. 5 e 187 l. fall. presupposti sostanzialmente identici, l’ammissione alla procedura di amministrazione controllata non potesse ingenerare nella banca un affidamento sull’assenza dello stato d’insolvenza della società. Tale considerazione risulterebbe valida a maggior ragione nel caso di specie, poiché – come dimostrato dalla consulenza contabile posta alla base della sentenza di primo grado – al tempo dei pagamenti la situazione finanziaria della debitrice era particolarmente grave, sebbene nei suoi confronti non fossero stati levati protesti e non fossero state esperite azioni esecutive infruttuose (elementi peraltro giudicati, per orientamento consolidato, irrilevanti al fine di negare la sussistenza della scientia decoctionis).
La Corte di Cassazione ha quindi, in ultima analisi, reputato che sussistessero le condizioni per accogliere anche in secondo grado la domanda del fallimento. Inoltre, ad avviso dei giudici di legittimità bisogna ritenere che, se non si può attribuire rilievo a una prognosi favorevole di risanamento dell’impresa perché i presupposti delle due procedure in esame sono essenzialmente equiparabili, ai fini della revocatoria fallimentare ex art. 67 l. fall. il calcolo del c.d. periodo sospetto debba decorrere – a ritroso – dalla data di ammissione alla prima procedura, qualora non vi sia soluzione di continuità tra amministrazione controllata e fallimento.