Per poter stabilire se quel dato rappresenti o meno un vantaggio o un danno per l’Ente contraente occorre procedere ad una disamina a posteriori, allorché cioè il contratto abbia raggiunto la sua naturale scadenza
Corte di Cassazione, Sez. II penale, 21/12/2011
Così come appare del tutto inconcepibile che solo in corso di causa, e quindi, ex post (e solo all’esito di una CTU) debbano essere ricostruiti dati geneticamente coessenziali ad una scommessa come la misura delle alee – secondo un criterio necessariamente probabilistico – ed i c.d. costi impliciti, che integrerebbero “secondo la prassi” la misura della remunerazione dell’intermediario.
Corte d’Appello di Milano, Sez. I civile, 18/09/2014
***
1. Premessa
Il recente deposito delle motivazioni della sentenza della Corte d’Appello di Milano, IV sezione penale, sui derivati del Comune di Milano (pronuncia che, come noto, ha completamente riformato la decisione di primo grado, assolvendo gli imputati dai reati ad essi ascritti) è destinato a riaccendere il dibattito, per la verità mai sopito, sulla finanza derivata degli Enti territoriali italiani.
La sentenza della Corte milanese affronta diversi temi, ma deve essere anzitutto letta e contestualizzata per quello che è, ossia una sentenza emessa da un Giudice penale1.
La suesposta considerazione parrà un’ovvietà, ma è la stessa Corte che si premura di ricordarlo diverse volte al lettore. E non lo fa certo a caso.
Un indubbio merito da ascrivere a questa pronuncia (che, sotto diversi aspetti, si presta invece a rilievi critici) è infatti quello di puntualizzare, meglio di altri precedenti della giurisprudenza, che la “trattazione” dei contratti derivati non può prescindere dal ruolo ed alle funzioni assegnate al Giudice che su di essi è chiamato ad esprimersi.
E, per continuare con le ovvietà, un Giudice penale è chiamato a valutare la ricorrenza o meno di reati.
Il presente contributo non intende ripercorrere la complessa vicenda dell’operatività in derivati del Comune di Milano e non ha certo la pretesa di analizzare i molteplici aspetti trattati dalla sentenza in commento, la quale interessa ai nostri fini per la valutazione di alcuni questioni (di rilievo non solo penale) sulle quali la Corte si è, più o meno diffusamente, soffermata.
A monte di tale valutazione, tuttavia, c’è una summa divisio che la Corte ha il merito di tratteggiare in maniera chiara.
*
2. La summa divisio: calcolo di convenienza economica e giudizio di convenienza economica
Fra le varie questioni affrontate nella sentenza in commento, una riguarda l’equivoco interpretativo correlato all’art. 41 della Legge n. 448/20012.
Il termine equivoco non è utilizzato a caso: la Corte sa bene che, trattando la materia della ristrutturazione del debito degli Enti locali, l’interprete deve misurarsi con le prescrizioni della suddetta norma, ma si premura di precisare che, quando l’interprete veste i panni del Giudice penale, l’art. 41 “non basta”.
Si legge a pagina 178 della sentenza: “il calcolo di convenienza economica per il quale dispone l’art. 41 è – o dovrebbe essere – un ben definito concetto sulla cui anteriorità rispetto alla conversione delle passività non possono esservi soverchi dubbio, pena l’illogicità della previsione. Ma al puro calcolo si deve associare anche un complessivo giudizio di convenienza economica, innestato su un contratto di elevata aleatorietà quale è a dirsi il contratto derivato […] che ha portato a pronunciamenti giurisprudenziali dal tenore apparentemente […] opposto ed inconciliabile”.
Da ciò si evince che: (i) la Corte ha ben presente che il calcolo di convenienza economica, “a pena di illogicità della previsione”, deve essere effettuato ex ante, ossia prima dell’operazione di ristrutturazione del debito dell’Ente3 e (ii) l’inconciliabilità tra diversi pronunciamenti (di Giudici, aggiungiamo noi, appartenenti a diverse Magistrature: civile, contabile, amministrativa ed appunto penale) è soltanto apparente, perché diverso è il giudizio che ciascun Giudice è chiamato ad emettere, in funzione della disciplina (penale, civile ecc.) da applicare alla fattispecie.
La conciliabilità cui allude la Corte passa attraverso, per così dire, uno sdoppiamento del concetto di convenienza economica che segna una netta distinzione (la summa divisio, appunto) tra tutto ciò che, nella valutazione della Corte d’Appello, ha (potenziale) rilievo penale e tutto ciò che è insuscettibile di averlo.
Più precisamente, il Giudice penale non può “accontentarsi” di valutazioni prospettiche (il calcolo di convenienza economica, “alterata” o meno dal mispricing generato dai “costi impliciti”, sui cui vedi infra, par. 2), ma deve fondare il proprio convincimento su una disamina ex post degli effetti del derivato (il giudizio di convenienza economica).
Con il che non si mette in discussione la rilevanza giuridica delle suddette valutazioni prospettiche (ed anzi, per molti aspetti la Corte rimarca l’esigenza che l’Ente locale si faccia carico di effettuarle con cognizione di causa ed in maniera tale da prevenire ogni asimmetria informativa con la controparte bancaria), ma la si “confina” in un territorio extrapenale.
Ai fini dell’accertamento della fattispecie di truffa, qual è quella sub iudice nel caso di specie, occorre riscontrare (tra gli altri) anche l’elemento obiettivo del profitto ingiusto, che si concreta nella deminutio patrimonii del soggetto passivo del reato.
Se tale deminutio non c’è (ed anzi la Corte rammenta che il Comune di Milano ha sottoscritto una transazione con le banche per effetto della quale ha incamerato notevoli introiti), non può esservi reato.
Ci pare che le distinzioni puntualizzate dalla Corte abbiano un senso e valgano esse stesse a prevenire eventuali tentativi di “speculazione” su affermazioni del Giudice penale che, lo si ribadisce, devono essere collocate nel giusto contesto.
Se quindi è ammissibile (ed anzi in un certo senso è imposto dalla logica che ispira il penalista) un giudizio (e non solo un calcolo) di convenienza economica, destano invece perplessità alcune affermazioni della Corte d’Appello sul calcolo di convenienza economica, alla stregua dell’art. 41 comma 2 della Legge n. 448/2001.
Si è appena detto che al Giudice penale interessa, ai fini dell’affermazione (o dell’esclusione) della responsabilità penale, il giudizio di convenienza economica. E tuttavia la sentenza in commento si occupa anche del calcolo di convenienza economica, al fine di escludere la rilevanza penale dei costi impliciti.
Nel trattare tale argomento, il Giudice penale, ancora più a monte, si pone il problema della condizioni di applicabilità dello stesso art. 41 comma 2 della Legge n. 448/2001.
Peraltro, se l’obiettivo era quello di escludere la rilevanza penale dei costi impliciti, forse non vi sarebbe stata la necessità di “sconfinare” in un terreno extrapenale, proponendo interpretazioni della norma tutt’altro che consolidate (ed anzi più volte smentite dal Giudice a cui la nostra Costituzione assegna il controllo sulla gestione finanziaria degli Enti locali, la Corte dei Conti).
Sarebbe bastato, ad esempio, insistere sulla inidoneità dei costi impliciti rilevati nel caso oggetto di giudizio a scalfire o comunque compromettere il vantaggio patrimoniale nelle more acquisito dal Comune per effetto della ricordata transazione.
Ciononostante, la Corte si arroga il compito di dirimere ogni questione interpretativa anche su questioni non essenziali nell’economia del giudizio penale e pacificamente ascrivibili a quell’area extrapenale da cui il Giudice milanese intende(va) smarcarsi.
Si legge a pagina 441 della sentenza che:
- i derivati (o meglio, gli oneri ad essi connessi) non rientrano nel calcolo dell’art. 41 comma 2 della Legge n. 448/2001;
- in ogni caso l’art. 41 comma 2 della Legge n. 448/2001 si applica solo nell’eventualità di contrazione di nuovo debito (ossia, in sostanza, di estinzione di pregresse passività grazie all’emissione di nuove passività).
Affermazioni abbastanza lapidarie, per la verità: anche ammesso che fossero state utili nell’economia del ragionamento della Corte (e, come detto, non lo sono), ci si sarebbe aspettati che fossero state supportate da riferimenti giurisprudenziali stringenti (ad esempio, se non è troppo ardire, pronunce della Corte dei Conti). Ed invece il “supporto” alla tesi propugnata dalla Corte è (addirittura!) una Nota del Ministero delle Finanze del 07/10/2011: una Nota, si badi bene, nemmeno una Circolare. Nulla più che una lettera di un dirigente ministeriale, in quanto tale palesemente sprovvista di qualsivoglia cogenza normativa o valore di precedente vincolante.
Le affermazioni della Corte non convincono.
Anzitutto, il fatto che i costi impliciti “non possono non rientrare e non essere valutati ai fini della convenienza economica della operazione stessa e negli obiettivi con essa perseguiti” lo afferma la stessa Corte d’Appello di Milano, “per il tramite” di Consiglio di Stato, Sez. V, n. 5032/2011 (la prima e non definitiva pronuncia sui derivati della Provincia di Pisa emessa dal Consiglio di Stato, richiamata a pag. 191 della sentenza penale). Non solo, la Corte fa continuo (e convinto) riferimento a Consiglio di Stato, Sez. V, 27/11/20124 (sentenza definitiva del Supremo Giudice Amministrativo sui derivati dell’Ente toscano), nella quale, in coerenza con le statuizioni della precedente pronuncia non definitiva si afferma che: “la valutazione di convenienza economica deve essere riferita all’intera operazione e non può essere limitata al solo valore dei contratti swap (ed alla questione dei costi impliciti di questi ultimi)”, con ciò confermando che i costi impliciti degli swap rientrano pacificamente nel calcolo di convenienza economica.
Insomma su questo specifico punto la Corte d’Appello pare cadere in contraddizione (può succedere, trattasi in fondo di oltre 500 pagine di sentenza…).
Riguardo alla perimetrazione dell’area applicativa dell’art. 41 comma 2 della Legge n. 448/2001 alla contrazione di nuovo debito, l’affermazione della Corte (così come la Nota del Ministero delle Finanze) è smentita da diversi precedenti della giurisprudenza contabile, civile ed amministrativa5 che considerano non solo possibile, ma doveroso effettuare il test di convenienza economica anche nell’ipotesi in cui lo swap sia appostato sul “vecchio” debito o su un debito rinegoziato limitatamente ad alcune condizioni (ad esempio un bond al quale sia stata allungata la durata).
Ma vi è di più.
Nell’audizione avanti alla VI Commissione del Senato della Repubblica tenutasi in data 18/03/2009 in occasione della “Indagine conoscitiva sulla diffusione degli strumenti di finanza derivata e delle cartolarizzazioni nelle Pubbliche Amministrazioni”, la Consob ha illustrato il metodo risk based (o degli scenari probabilistici, di recente fatto proprio da Corte d’Appello di Milano, Sez. I civ., 18/09/2013, su cui vedi infra) come quello maggiormente idoneo a valutare la convenienza economica (anche) dei derivati degli Enti locali.
Nell’allegato tecnico al documento presentato dalla Consob figurano esempi assai chiari (oltretutto riferiti a casi reali) che non contemplano contrazione di nuovo debito, bensì si riferiscono ad un debito “originario” (portafoglio finanziario iniziale) su cui insiste uno swap (poi rinegoziato), così generandosi un debito ristrutturato (portafoglio finanziario strutturato) e stimandosi la convenienza economica dell’operazione di ristrutturazione.
Ed ancora, l’interpretazione qui criticata appare incompatibile anche con quanto statuito in sede comunitaria.
Si rammenti, soltanto a titolo esemplificativo, che nelle proprie linee guida sulle procedure di disavanzo eccessivo, sin dal 2008 Eurostat6 ha precisato che eventuali up front connessi a “off-market swap” – ossia a derivati aventi un valore iniziale di mercato non neutro tra le parti – rivestono natura sostanziale di “loans” (finanziamenti) atti, in quanto tali, ad incidere sul debito del soggetto che li riceve, con l’effetto che certamente nei casi di “off-market swaps” (o “swaps non-par”, per usare un termine equivalente, ma più diffuso), l’esistenza di un “nuovo” debito generato dai derivati (e da considerarsi nei test di convenienza economica) appare un dato difficilmente controvertibile.
Ciò a meno di ritenere che non sia il debito in sé ciò che interessa ai fini dell’art. 41 comma 2 della Legge n. 448/2001, ma la sua fonte giuridica, conclusione che tuttavia contrasterebbe a nostro avviso con la ratio stessa della norma e, ci pare, con la stessa ratio interpretativa sottesa alla pronuncia in commento.
Se dunque la Corte ha inteso escludere dal calcolo di convenienza economica le mere rimodulazioni di debiti preesistenti, essa ha reso un’interpretazione dell’ambito di applicabilità dell’art. 41 comma 2 della Legge n. 448/2001 senza probabilmente apprezzarne in toto le implicazioni.
D’altra parte, non è questo un tema che si presti ad essere liquidato in via incidentale nell’ambito di una sentenza penale. Ricordava infatti già nel lontano 2004 la Corte Costituzionale, interpellata per definire ciò che deve intendersi per “indebitamento” e per “spese di investimento”, che “non si tratta di nozioni il cui contenuto possa determinarsi a priori, in modo assolutamente univoco, sulla base della sola disposizione costituzionale, di cui questa Corte sia in grado di offrire una interpretazione esaustiva e vincolante per tutti, una volta per sempre” (Corte Costituzionale n. 425/20047).
*
3. La Corte d’Appello di Milano e gli obblighi di disclosure, tra scommessa razionale e causa mandati del contratto di intermediazione finanziaria
La sentenza in commento prende posizione in maniera piuttosto radicale anche su ulteriori questioni, da tempo al centro del dibattito dottrinale ed oggetto di diversi precedenti della giurisprudenza.
La tendenza della Corte a rimarcare le peculiarità dell’approccio penalistico (tendenza, come detto, manifestata in più occasioni) pare a più riprese contraddetta dall’opposta, e già evidenziata, tendenza a voler dirimere ogni questione, anche extrapenale.
Ancora una volta (e per limitarci soltanto ad un esempio): se, nella logica della Corte, è sufficiente affermare ai fini dell’esclusione della responsabilità penale che i costi impliciti non rappresentano un profitto definitivamente acquisito (e che quindi non si configura un danno economico), per quale motivo la Corte sente l’impulso di affermarne la legittimità avallando, come si legge a pag. 190 della sentenza, la “autolegittimazione rinveniente dalla prassi dei mercati” alla quale le banche si appellano? E ciò avviene nonostante la stessa Corte d’Appello si mostri consapevole (pur relegandolo in una nota a piè pagina di due righe a pag. 191 della sentenza) del “limite ex art. 23 comma 2 del Testo Unico della Finanza, secondo cui è nulla ogni pattuizione di rinvio agli usi per la determinazione del corrispettivo dovuto dal cliente e di ogni altro onere a suo carico. In tali casi nulla è dovuto”.
Ma quello dell’art. 23 comma 2 TUF non è “un” limite, è “il” limite!
In altre parole, il Giudice non può limitarsi a “registrare” il dato rinveniente dalla prassi, così legittimandolo, poiché, come di recente ricordato dalla Suprema Corte, in un sistema normativo in cui vige l’art. 23 comma 2 TUF,“è la prassi commerciale a doversi adeguare alla legge per come interpretata dall’organo giurisdizionale di vertice, e non il contrario” (Cass., Sez. III civ., n. 7776/20148).
Si ha l’impressione che, nella foga di disattendere le tesi accusatorie, la sentenza in commento finisca per aderire acriticamente a tutte le tesi bancarie, anche a costo di derogare dalla “premessa metodologica” a cui la stessa Corte si richiama, ossia appunto la valutazione in termini prettamente penalistici della fattispecie concreta.
E’ peraltro vero che i giudizi tranchant che la Corte emette si alternano ad affermazioni lucidamente consapevoli, come quella che, sempre a proposito della nozione di costo implicito, si rinviene a pag. 325: “ovvio […] ch’essa non possa rivestire alcun interesse per il giudice penale, impegnato sul versante dell’ingiusto profitto nell’accezione tipica dei reati patrimoniali se, nella concreta casistica, siffatta nozione ha perduto ogni connotazione di disvalore giuridico persino davanti al giudice civile, spostando l’oggetto dell’intervento giurisprudenziale non più sulla legittima esistenza dei costi impliciti, ma piuttosto verso il loro abuso e, in definitiva, verso l’operato dell’intermediario, con l’esigenza, di diverso profilo, di valutarne la conformità ed il rispetto delle regole di condotta scandite dalla normativa di settore”.
Il civilista che (in linea di massima) condivide l’affermazione della Corte appena sopra riportata si trova tuttavia a disagio laddove, in altre parti della sentenza, rinviene affermazioni che contraddicono le riflessioni della migliore dottrina specialistica (può succedere), contrastano con le acquisizioni della più evoluta giurisprudenza civile (ed anche questo può succedere), ma soprattutto derogano allo schema normativo imposto ai contratti di intermediazione finanziaria da norme imperative di legge, oltretutto di derivazione comunitaria (e questo, a nostro sommesso avviso e nel rispetto della libertà interpretativa del Giudice penale, non dovrebbe succedere).
Non è questa la sede per compendiare in maniera esaustiva elaborazioni dottrinali ed orientamenti della giurisprudenza civile sulla fattispecie negoziale di nostro interesse (contratto derivato e, ancor più nello specifico, contratto derivato stipulato da Ente locale).
Basti rilevare che la fattispecie in questione è la risultante di una combinazione originale, che sintetizza la causa mandati tipica di qualsiasi contratto di intermediazione finanziaria, la causa della scommessa che nello specifico caratterizza i derivati, e, se trattasi di derivati di Ente locale, la doverosa conformazione causale a requisiti normativamente imposti (si veda, in primis ed ancora, l’art. 41 della Legge n. 448/2001: contenimento del costo del debito e convenienza economica).
Della causa mandati dei contratti di intermediazione finanziaria non si può dubitare, sol che si legga l’art. 21 TUF, a norma del quale l’intermediario finanziario è tenuto ad agire nell’interesse dell’investitore9.
Sulla scommessa si è di recente espressa la Corte di Cassazione, la quale ha affermato che “secondo il meccanismo delle operazioni su prodotti finanziari derivati, queste consistono in una scommessa” (Cass., Sez. I civ., n. 9996/201410).
E sempre sulla scommessa si è intrattenuta, con lodevole profondità di analisi, la già citata Corte Appello Milano, Sez. I civ. 18/09/201311 (le cui statuizioni sono riprese e fatte proprie da Corte d’Appello Bologna, Sez. III civ., 11/03/201412 occupatasi di contratti derivati stipulati da un Ente locale): “non appare revocabile in dubbio che l’oggetto del contratto swap si sostanzia, in ogni caso, nella creazione di alee reciproche e bilaterali”. Ed ancora: “nel derivato OTC l’oggetto è uno scambio di differenziali a determinate scadenze. Ma la sua causa risiede in una scommessa che ambo le parti assumono. E nella scommessa legalmente autorizzata, come quella ritenuta meritevole di tutela da parte del legislatore finanziario, l’alea non può che essere (deve essere!) razionale per entrambi gli scommettitori”.
Infine, riguardo la conformazione causale dei contratti derivati degli Enti locali, le Sezioni Riunite in sede di controllo della Corte dei Conti hanno affermato che “se la causa è data dalla neutralizzazione del rischio finanziario che l’Ente ha assunto in relazione al suo indebitamento, le attività poste in essere dalle parti contraenti devono essere finalizzate a questo scopo e non possono essere determinate da altre ragioni che possono, tutt’al più assumere il rilievo di motivi che, ai sensi dell’art. 1342 cod. civ., possono aggiungersi alla causa, senza poterla sostituire”; e, con riferimento alla relazione tra sottostante e derivato: “la mancata funzionalizzazione del contratto all’andamento dei rischi connessi all’indebitamento dell’ente si riflette sulla causa genetica dei contratti di swap di tasso di interesse, facendola venire meno”13.
Della suddetta struttura causale non vi è traccia nella sentenza in commento, che anzi pare sottendere uno schema più vicino a quello della vendita che non a quello del mandato.
I costanti richiami della Corte al principio di autoresponsabilità dell’Ente locale, pur se condivisibili in nome del rispetto del principio di buon andamento della Pubblica Amministrazione, non possono e non devono condurre all’obliterazione degli obblighi imposti dall’ordinamento all’intermediario finanziario, il quale non è solo controparte dell’investitore, ma è al contempo cooperatore del medesimo.
In altre parole, la responsabilizzazione dell’Ente non legittima alcuna deresponsabilizzazione della banca che non può essere trattata (solo) come un soggetto dedito alla ricerca del proprio (pur legittimo) lucro.
Il terreno su cui si misura la distanza tra le statuizioni della sentenza in commento sulle negoziazioni dicontratti derivati e la ricostruzione della fattispecie negoziale / contratto derivato alla luce del quadro normativo e giurisprudenziale appena sopra evocato è, ancora una volta, quello dei costi impliciti.
La questione non attiene all’esistenza di tali costi (che non è in discussione), bensì alla disclosure dei medesimi (o, per riprendere le considerazioni svolte dalla Corte alle pagine 367 e 368 della sentenza, alla disclosure dello scarto esistente tra valore del derivato – rappresentato dal mark to market alla stipula – e prezzo del medesimo, che include hedging costs e mark up applicati dall’intermediario).
Se ci si basa sul paradigma della vendita e del caveat emptor, la disclosure non è evidentemente un obbligo della banca.
Ma, come abbiamo appena visto, i contratti di intermediazione finanziaria sono tutt’altro che fondati sul paradigma del caveat emptor. Ed allora “la mancanza dell’indicazione del mark to market al momento della conclusione del contratto consente all’intermediario, che è “anche un mandatario” oltreché controparte della scommessa (ed è mandatario in virtù del cd. contratto quadro di investimento ed altresì titolare di un ufficio di diritto privato), di occultare il suo compenso, rappresentato dai c.d. costi impliciti, all’interno delle condizioni economiche dell’atto gestorio. Il che determina la nullità del contratto derivato anche in ragione del difetto di accordo sul requisito essenziale del compenso ex art. 1709 c.c., il quale dispone che, nel mandato oneroso, il compenso del mandatario sia consapevolmente “stabilito dalle parti”: cioè, ovviamente, non occultato fra le condizioni economiche predisposte dal mandatario per assicurarsi un compenso non esplicitato (in evidente conflitto con l’interesse del cliente). Il compenso, deve, al contrario, essere determinato nel contratto o deve essere determinabile in virtù di un criterio (modello matematico di pricing) condiviso ex ante dall’intermediario e dal cliente. Ad esempio con la pattuizione, separata, di una fee, e non certo “annegato” dentro le condizioni economiche dell’atto gestorio” (Corte d’Appello Milano, Sez. I civ. 18/09/2013).
Ed ancora, posto che la tesi – più o meno incidentalmente sostenuta dalla sentenza in commento – secondo cui un obbligo di comunicazione delle varie componenti di costo del derivato da parte dell’intermediario potrebbe al più reputarsi sussistente solo dopo l’emanazione della Comunicazione Consob n. DIN/9019104 del 02/03/2009, dimentica che l’art. 21 TUF parla di trasparenza da ben prima dell’emanazione della suddetta Comunicazione, si deve aggiungere che la disclosure non può limitarsi soltanto al prezzo.
Infatti, se è vero che stiamo parlando di una scommessa e che l’intermediario agisce quale cooperatore del cliente, “è inconcepibile che la qualità e la quantità delle alee, oggetto del contratto, siano ignote ad uno dei contraenti ed estranee all’oggetto dell’accordo” (Corte d’Appello Milano, Sez. I civ. 18/09/2013).
E dato che, come sappiamo, per essere meritevole di tutela per l’ordinamento una scommessa non può essere cieca, ma caratterizzata da alea razionale per ambo gli scommettitori, si pone il problema di “un solido ancoraggio della causa del derivato ad uno scenario probabilistico e ad un valore stimato (mark to market) al momento della stipula del contratto” (Corte d’Appello Milano, Sez. I civ. 18/09/2013).
Il fatto che l’omessa disclosure dei costi (e delle alee) da parte di chi è “titolare di un ufficio di diritto privato” non valga ad integrare (l’elemento oggettivo di) una truffa contrattuale (perché, come già ricordato, nella logica della Corte ilcosto implicito per un verso non è profitto definitivamente acquisito e, per altro verso, non ha nel caso di specie scalfito la complessiva convenienza economica dell’operazione) è, con tutta evidenza, un altro discorso.
E, come si è detto, ad un Giudice penale sarebbe bastato limitarsi a quel discorso.
1
Lo ricorda anche Daniele Maffeis, di recente intervistato sulla sentenza in commento da “Il Sole 24 ore” (cfr. “Al Comune di Milano servivano limiti”, in “Plus 24 – Il Sole 24 ore” del 07/06/2014).
2
Dopo le modifiche succedutisi negli anni, la versione attualmente vigente della norma in questione, che può definirsi come la vera e propria Grundnorm in tema di ristrutturazione del debito da parte degli Enti territoriali italiani, è la seguente: “1. Al fine di contenere il costo dell'indebitamento e di monitorare gli andamenti di finanza pubblica, il Ministero dell'economia e delle finanze coordina l'accesso al mercato dei capitali delle province, dei comuni, delle unioni di comuni, delle città metropolitane, delle comunità montane e delle comunità isolane, di cui all'articolo 2 del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, nonché dei consorzi tra enti territoriali e delle regioni. A tal fine i predetti enti comunicano periodicamente allo stesso Ministero i dati relativi alla propria situazione finanziaria. Il contenuto e le modalità del coordinamento nonché dell'invio dei dati sono stabiliti con decreto del Ministero dell'economia e delle finanze da emanare di concerto con il Ministro dell'interno, sentita la Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge. Con lo stesso decreto sono approvate le norme relative all'ammortamento del debito e all'utilizzo degli strumenti derivati da parte dei succitati enti.
2. [Gli enti di cui al comma 1 possono emettere titoli obbligazionari con rimborso del capitale in unica soluzione alla scadenza, previa costituzione, al momento dell'emissione, di un fondo di ammortamento del debito, o previa conclusione di swap per l'ammortamento del debito.] Fermo restando quanto previsto nelle relative pattuizioni contrattuali, gli enti possono provvedere alla conversione dei mutui contratti successivamente al 31 dicembre 1996, anche mediante il collocamento di titoli obbligazionari di nuova emissione o rinegoziazioni, anche con altri istituti, dei mutui, in presenza di condizioni di rifinanziamento che consentano una riduzione del valore finanziario delle passività totali a carico degli enti stessi, al netto delle commissioni e dell'eventuale retrocessione del gettito dell'imposta sostitutiva di cui all'articolo 2 del decreto legislativo 1° aprile 1996, n. 239, e successive modificazioni.
2-bis. A partire dal 1º gennaio 2007, nel quadro di coordinamento della finanza pubblica di cui all’articolo 119 della Costituzione, i contratti con cui le regioni e gli enti di cui al testo unico di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, pongono in essere le operazioni di ammortamento del debito con rimborso unico a scadenza e le operazioni in strumenti derivati devono essere trasmessi, a cura degli enti contraenti, al Ministero dell’economia e delle finanze – Dipartimento del tesoro. Tale trasmissione, che deve avvenire prima della sottoscrizione dei contratti medesimi, è elemento costitutivo dell’efficacia degli stessi. Restano valide le disposizioni del decreto di cui al comma 1 del presente articolo, in materia di monitoraggio.
2-ter. Delle operazioni di cui al comma precedente che risultino in violazione alla vigente normativa, viene data comunicazione alla Corte dei conti per l’adozione dei provvedimenti di sua competenza.
3. Sono abrogati l'articolo 35, comma 6, primo periodo, della legge 23 dicembre 1994, n. 724, e l'articolo 3 del regolamento di cui al decreto del Ministro del tesoro 5 luglio 1996, n. 420.
4. Per il finanziamento di spese di parte corrente, il comma 3 dell'articolo 194 del citato testo unico di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, si applica limitatamente alla copertura dei debiti fuori bilancio maturati anteriormente alla data di entrata in vigore della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3”.
3
La Corte, insomma, affronta la questione con ben altra profondità d’analisi rispetto ad altri precedenti della giurisprudenza penale i quali hanno affermato senza troppi distinguo il principio della disamina a posteriori del derivato (cfr. Cass. pen. Sez. II n. 47421 del 21/12/2011, pure citata in sentenza ed oggetto di nostro commento critico, al quale si rimanda: Zamagni L. Acciari M. “Convenienza economica e mark to market dei contratti derivati degli Enti locali: note critiche alla sentenza n. 47421 del 21/12/2011 della seconda Sezione penale della Corte di Cassazione”, in http://www.dirittobancario.it/).
4
Entrambe le sentenze del Consiglio di Stato aventi ad oggetto i derivati della Provincia di Pisa sono consultabili in http://www.ilcaso.it/
5
Soltanto a titolo esemplificativo si citano qui: Corte dei Conti Sez. Reg. Controllo Liguria n. 11/2008 (in http://www.corteconti.it/), Corte dei Conti Sez. Reg. Controllo Lombardia n. 596/2007 (in http://www.corteconti.it/) e Corte dei Conti Sez. Reg. Controllo Lombardia n. 19/2008 (in http://www.corteconti.it/); Trib. Milano 14/04/2011 (in http://www.ilcaso.it/), Trib. Orvieto 13/04/2012 (in http://www.dirittobancario.it/), Trib. Pescara 24/10/2012 (in http://www.ilcaso.it/) e Trib. Pescara 12/04/2010 (in http://www.ilcaso.it/); TAR Piemonte 22/03/2013 (in http://www.dirittobancario.it/).
6
Il documento è consultabile sul sito di Eurostat http://epp.eurostat.ec.europa.eu/portal/page/portal/eurostat/home/
9
Come magistralmente osserva la migliore dottrina specialistica: “si deve considerare che la banca, nel rapporto con il cliente non ‘vende’, bensì ‘agisce nell’interesse’, in forza di un contratto di investimento – es. negoziazione, gestione – che è sempre riconducibile al genere dei contratti di cooperazione (e di sostituzione). […] Non siamo dunque mai in presenza di una causa vendendi, bensì siamo in presenza di una causa mandati, sia quando la banca gestisce il portafogli del cliente (art. 24 TUF), sia quando la banca agisce nell’ambito di una negoziazione dietro specifico ordine del cliente (art. 25 TUF). […]. Il fatto stesso che le situazioni di conflitto di interessi tra i contraenti costituiscano una patologia è il segno che siamo in presenza di un rapporto di cooperazione, visto che, tutto al contrario, del contratto di scambio (bargain) il conflitto di interessi è il presupposto stesso” (MAFFEIS D. “Forme informative, cura dell’interesse ed organizzazione dell’attività nella prestazione dei servizi di investimento”, in Rivista di diritto privato n° 3/2005, pagg. 587-588). Ed ancora: “Sicché, l’idea qui propugnata, che la banca sia tenuta ad informare il cliente nell’ottica della cooperazione, non è per nulla legata ad un rifiuto del modello di contratto duro e antagonista per la semplice ragione che il modello del contratto duro e antagonista non è concepibile per i contratti di cooperazione, in cui il gestore deve fare sempre, e solo, l’interesse dell’altra parte: non vale per il dominus il monito caveat contractor, quando in base ad esso si pretenda di legittimare la prevalenza dell’interesse della banca sull’interesse del cliente” (MAFFEIS D. ivi, pag. 588).
13
Audizione della Corte dei Conti – Sezioni Riunite in sede di controllo avanti alla VI Commissione “Finanze e tesoro” del Senato della Repubblica nell’ambito della “Indagine conoscitiva sull’utilizzo e la diffusione degli strumenti di finanza derivata e delle cartolarizzazione nelle pubbliche amministrazioni” del 18/02/2009, in http://www.corteconti.it/
Le pronunce delle Sezioni Regionali di controllo della Corte dei Conti in argomento sono univoche. Si veda, tra le tante, la già citata Corte dei Conti Sez. Reg. Controllo Liguria, n. 11/2008, secondo cui: “la ratio delle disposizioni normative che consentono agli enti pubblici l’accesso al mercato dei capitali e le operazioni in strumenti derivati di cui all’art. 41 della legge n. 448 del 2001 e al relativo regolamento emanato con D.M. del Ministero dell’Economia e delle Finanze n. 389 del 1 dicembre 2003 è quella di ridurre l’esposizione dell’ente ai rischi finanziari relativi ai movimenti dei tassi di interesse, con l’obiettivo di contenere il costo dell’indebitamento. Le operazioni di IRS poste in essere dagli enti pubblici vengono, pertanto, consentite solo ove le stesse rispondano alle finalità volute dalla legge e non presentino carattere speculativo. La specifica finalizzazione del contratto alla riduzione del rischio di tasso del debito sottostante e quindi, in caso di debito contratto a tasso variabile, alla diminuzione del rischio che questo salga eccessivamente (rischio in termini di maggior costo), mentre in caso di debito a tasso fisso, alla diminuzione del rischio che il tasso di mercato scenda eccessivamente (rischio in termini di maggior risparmio) definisce i limiti alla aleatorietà dello stesso. Nel primo caso, infatti, la struttura del contratto deve essere tale che ogni volta che vi sia un rialzo dei tassi di interesse pagati sul debito sottostante, il debitore riceva un differenziale positivo dall’intermediario finanziario che serva a neutralizzare le maggiori uscite in termini di interessi. Al contrario, ogni volta che vi sia una discesa dei tassi il minore esborso di interessi da parte del Comune sul debito sottostante verrebbe compensato da un versamento differenziale all’intermediario che si assume il rischio contrario: l’ente, in sostanza, rinuncia ai vantaggi derivanti dal ribasso dei tassi, in cambio della eliminazione degli svantaggi derivanti dai rialzi. Nel secondo caso (passaggio dal tasso fisso al tasso variabile) l’ente assume il rischio del rialzo dei tassi (a cui può mettere un limite attraverso l’acquisto di un cap) ma gode dei vantaggi di un tasso più basso e dei prevedibili ribassi. L’esistenza di una disciplina pubblicistica limitativa quale quella delineata, che autorizza in via del tutto eccezionale gli enti territoriali a concludere questa tipologia di contratti, incide sulla struttura degli elementi costitutivi dei contratti stessi, che debbono essere necessariamente conformi a tale disciplina, e fa sorgere fondati dubbi sulla validità di tutti i contratti che presentino una struttura non idonea a raggiungere la finalità voluta dalla legge”.