La sentenza in commento della Corte d’Appello di Ancona n. 166/2023, pubblicata in data 19 gennaio 2023, accogliendo i motivi di impugnazione proposti dalla banca, riforma in toto la sentenza di primo grado del Tribunale di Pesaro, n. 170/2019 (pubblicata in data 21 febbraio 2019), che aveva ritenuto responsabile l’istituto di credito convenuto del depauperamento del valore dei titoli azionari oggetto di sequestro conservativo, di cui era depositario. La Corte territoriale coglie così l’occasione per affermare alcuni importanti principi in tema di sequestro conservativo di strumenti finanziari e per delineare ruoli e connessi oneri a carico del creditore sequestrante, del debitore sequestrato e del terzo depositario dei titoli.
Il caso in esame prende avvio nel 2014, quanto A. conveniva in giudizio, innanzi al Tribunale di Pesaro, la società H. e la banca C., esponendo che, con provvedimento del 24.12.2009, H. aveva ottenuto un sequestro conservativo nei suoi confronti, eseguito presso il predetto istituto di credito con vincolo esteso anche alle azioni di cui l’attore era titolare. Proseguiva A. affermando che la banca convenuta, quale custode dei titoli azionari oggetto di sequestro, non aveva compiuto alcun atto diretto a preservarne il valore e che parimenti era responsabile la società sequestrante per aver vincolato beni in eccesso rispetto al credito. L’attore domandava, quindi, che le parti convenute fossero condannate in solido ai sensi dell’art. 2043 c.c. al risarcimento dei danni in suo favore nella misura di €. 400.000,00, oltre rivalutazione ed interessi.
Nel corso del giudizio, l’attore e la società H. raggiungevano un accordo transattivo, per cui il procedimento proseguiva esclusivamente nei confronti della banca.
Ad esito del giudizio, il Tribunale di Pesaro emetteva la sentenza definitiva n. 170/2019 con cui dichiarava estinto il giudizio relativamente alla domanda proposta da A. nei confronti di H. e condannava C. a risarcire ad A. i danni patiti in conseguenza dei fatti di causa, mediante pagamento in favore dello stesso attore di € 117.740,00 oltre rivalutazione monetaria e interessi e rifusione delle spese di lite.
La banca impugnava la predetta decisione, censurando preliminarmente la statuizione con la quale il giudice di prime cure aveva ritenuto di qualificarla custode dei titoli azionari sequestrati e da essa detenuti, con ogni conseguente obbligo conservativo e di diligente gestione che la legge fa discendere da tale incombente, primo fra tutti quello di attivarsi per chiedere al giudice l’autorizzazione a liquidare i titoli in sequestro, ravvisando quindi a suo carico la colpa nell’omissione di iniziative volte a tutelare il valore del patrimonio in custodia.
In particolare, l’istituto di credito fonda le proprie censure sul presupposto che, non essendo stata disposta la nomina di alcun custode nel provvedimento di sequestro conservativo, non poteva essere considerata tale, essendo una mera depositaria dei titoli in questione, con naturale esonero da qualsivoglia responsabilità di gestione.
Sostiene, infatti, la banca che, laddove si voglia investire taluno del ruolo di custode dei beni oggetto di sequestro conservativo, occorre in primo luogo un provvedimento esplicito di nomina da parte del giudice della cautela, oltre all’accettazione del terzo designato ed alla fissazione di specifici criteri di gestione, così come accadrebbe nella fattispecie del sequestro giudiziario, ipotesi in cui la nomina del custode è obbligatoria per legge.
Né del resto può ritenersi implicito nell’art. 2352 c.c. alcun automatismo tra imposizione del vincolo di sequestro sulle azioni o quote di s.r.l. e il trasferimento ad un terzo dell’esercizio dei diritti amministrativi inerenti alla partecipazione sociale, in mancanza di espressa nomina di un custode delle azioni sequestrate, come si evince anche dai precedenti giurisprudenziali citati dalla banca a sostengo delle proprie argomentazioni (Tribunale di Napoli dell’11 Dicembre 2017, Tribunale di Milano del 14.02.2012; Tribunale di Milano, Sez. Impresa B, 9 gennaio 2017; Corte di Cassazione, sentenza n. 19101 del 12.12.2003).
Nel decidere il merito della controversia, la Corte d’Appello si sofferma preliminarmente sull’analisi della disciplina del sequestro conservativo sui beni mobili e sui crediti, precisando che il rinvio di cui all’art. 678 c.p.c. alle norme stabilite, nel caso concreto, per il pignoramento presso terzi, “deve formare oggetto di una valutazione di compatibilità”.
La Corte territoriale chiarisce, quindi, che lo scopo del sequestro conservativo è quello di assicurare al creditore procedente la conservazione della garanzia patrimoniale, secondo il disposto dell’art. 2740 c.c., mentre i suoi effetti sono quelli previsti dall’art. 2906 c.c., determinando l’inefficacia relativa degli atti di disposizione, secondo le regole tipiche del pignoramento, tanto che si esegue nelle forme del pignoramento presso il debitore o presso i terzi. In particolare, al momento dell’esecuzione il sequestro conservativo impone un vincolo che è efficace solo per il creditore procedente, mentre al momento della conversione in pignoramento ex art. 686 c.p.c. si estende a favore di tutti i creditori, intervenuti o interveniendi.
Evidenzia opportunamente la Corte che il divieto di compiere atti di disposizione non impedisce al debitore di esercitare azioni o pretese anche giudiziali riferibili ai beni sequestrati, in particolare di agire in via cautelare ed esecutiva, fermo restando il suo obbligo di porre il ricavato nella disponibilità della procedura di sequestro.
Trattasi di principio già a suo tempo ribadito dalla pronuncia della Cass. n. 4551 dell’11 ottobre 1978, secondo cui nel sequestro conservativo i poteri del custode giudiziario sono limitati all’ordinaria amministrazione del bene sottoposto alla misura cautelare nel periodo in cui egli esercita il suo ufficio, ma non si estendono alla rappresentanza legale del titolare del bene sequestrato: il proprietario del bene, pertanto, conserva la sua autonomia nella tutela dei suoi diritti nei confronti dei terzi, con particolare riguardo ai rapporti giuridici da esso stesso posti in essere, come il rapporto di locazione relativo all’immobile sequestrato, e di conseguenza ne ha l’esclusiva legittimazione all’azione di risoluzione per inadempimento.
La sentenza in commento conferma, dunque, l’erroneità della tesi sostenuta in primo grado dall’attore e dei precedenti giurisprudenziali da questi richiamati, in quanto riferiti al diverso ruolo del custode nel sequestro giudiziario, ma non al sequestro conservativo, ricordando quindi la diversità di ratio tra i due istituti: solo il primo – a fronte dell’incertezza sulla titolarità del diritto o del possesso, che ne costituisce il presupposto per la sua concessione – impone la nomina di un custode che, nelle more, amministri e gestisca il bene in sequestro con i poteri ed i limiti espressamente determinati nel provvedimento di nomina.
Quanto al sequestro conservativo, la relativa esecuzione nelle forme del pignoramento presso terzi impone che si tenga conto del tipo di rapporto giuridico sul quale lo stesso è destinato a ricadere.
In particolare, il principio stabilito dall’art. 546 c.p.c., secondo cui, dal giorno della notifica del pignoramento, il terzo è soggetto, relativamente alle cose ed alle somme da lui dovute e nei limiti dell’importo del credito precettato aumentato della metà, agli obblighi che la legge impone al custode, trova il proprio fondamento nelle peculiari forme del pignoramento e dell’espropriazione presso terzi che hanno ad oggetto crediti oppure cose che si trovino in possesso del terzo. Infatti, il terzo subisce l’atto di pignoramento in quanto debitor debitoris, cioè nella posizione di chi è a sua volte obbligato nei confronti del debitore esecutato.
Partendo da tali condivisibili premesse, la Corte territoriale evidenzia che, nel caso di specie, non è sufficiente operare un acritico rinvio alle norme in materia di pignoramento presso terzi per estendere alla banca gli obblighi tipici del custode discendenti dalla condizione di terzo pignorato.
Osserva opportunamente la Corte che dalla dichiarazione di terzo, resa dalla banca ex art. 547 c.p.c., risulta che A. era intestatario di una polizza titoli contenente azioni per un controvalore di euro 469.500,00, nonché quote di un Fondo pari ad un controvalore di euro 404.787,14, secondo le quotazioni de Il Sole 24Ore del giorno in cui è stata resa la dichiarazione, così come risulta che la stessa banca ebbe a qualificarsi come mera depositaria.
Ne deriva che la prima conseguenza da considerare è che la banca non è debitor debitoris di A., atteso che tra dette parti intercorreva solo un rapporto contrattuale di deposito titoli a custodia ed amministrazione, mentre l’istituto di credito era solo il terzo depositario dei titoli di proprietà di A. stesso.
A tal proposito, il contratto di deposito titoli a custodia ed amministrazione, prodotto in causa, chiarisce all’art. 27 delle condizioni generali i termini ed i limiti del servizio fornito dalla banca nel caso di deposito di strumenti finanziari cartacei e, come nel caso di specie, di strumenti finanziari dematerializzati specificando, ad esempio, diversamente da quanto ritenuto dal primo giudice, che la banca non esercita i diritti amministrativi spettanti al titolare (in particolare quelli di voto, salvo delega) ed opera sui titoli previo ordine scritto dello stesso; specifica altresì che in assenza di istruzioni pervenute in tempo utile, la banca non è tenuta a compiere operazioni di sorta.
Del tutto irrilevante è invece l’altro contratto a cui l’appellato si riferisce, quello di home banking per il trading online, che – lungi dall’incidere sugli obblighi della banca – serve ad abilitare l’investitore ad operare direttamente sul mercato senza avvalersi dell’intermediario ed a consultare liberamente il valore dei propri titoli.
Chiarito il rapporto giuridico su cui si è inserito il sequestro conservativo che ha costituito la banca custode dei titoli di cui era già depositaria, la Corte territoriale si interroga su quali fossero i doveri a carico del terzo pignorato a fronte della progressiva perdita di valore dei titoli stessi, fermo restando che il proprietario dei beni in sequestro era e restava l’A., anche dopo l’esecuzione del sequestro, e che egli conservava la titolarità delle azioni a loro tutela.
Precisa opportunamente la Corte che di tanto era certamente consapevole il medesimo debitore sequestrato, in quanto – come reiteratamente evidenziato dalla banca anche nel corso del giudizio di primo grado – lo stesso A. si era già in precedenza precipitato a chiedere al giudice della cautela, con ricorso ex artt. 669 ter e sexies c.p.c., di autorizzare il custode a vendere i diritti di opzione inerenti alle azioni sequestrate, essendo stato deliberato un aumento di capitale da parte dell’emittente.
La sentenza indaga, dunque, l’annosa questione se la banca, costituita custode dei titoli di proprietà di A., di cui era già depositaria, fosse o meno obbligata – ai sensi dell’art. 65 c.p.c. – a gestire con diligenza i titoli in sequestro, monitorando l’andamento delle quotazioni e debitamente attivandosi (anche previa autorizzazione giudiziale) per liquidarli e conservare buona parte del loro iniziale valore e così preservare la garanzia patrimoniale, in ossequio alle finalità del sequestro conservativo.
Sul punto, il giudice di prime cure aveva ritenuto sussistenti in capo alla banca, nella dedotta veste di custode, doveri di conservazione, amministrazione e gestione dei titoli sequestrati di ampiezza tale da implicare addirittura un onere di costante monitoraggio dell’andamento di mercato degli strumenti finanziari e di attivazione presso il giudice della cautela, al fine di richiedere l’autorizzazione alla vendita dei titoli stessi, nel caso in cui il relativo valore fosse sceso al di sotto di una certa soglia, non altrimenti predeterminata nel provvedimento di sequestro.
L’appellante censura la sentenza di primo grado anche sotto tale profilo, ritenendola manifestamente erronea, anche in quanto contrastante con l’orientamento della Cassazione secondo cui il custode opera esclusivamente per conto del giudice al cui controllo è sottoposto e dal quale ripete direttamente l’investitura ed i poteri-doveri che attengono alla custodia del bene (Cass. n. 22860/2007; Cass. 15.7.2002, n. 10252; Cass. 1.2.1996, n. 870; Cass. 29.5.1951, n. 1343; App. Cagliari, 27.8.1986).
Deduce, infatti, l’istituto di credito che, anche a voler ammettere di essere stato nominato custode delle azioni sequestrate, di certo il potere di amministrazione e custodia non poteva ritenersi automaticamente esteso – pur in assenza di qualsivoglia provvedimento giudiziale in tal senso – anche alla gestione ed alla vendita dei titoli oggetto di sequestro, ove necessaria a conservarne il valore, come invece avrebbe preteso il giudice di prime cure facendo leva sull’art. 65 c.p.c. e sulla diligenza del buon padre di famiglia di cui al successivo art. 67 c.p.c..
Evidenzia la banca che non è dato rinvenire alcuna norma dalla quale possa evincersi il dovere del terzo pignorato di attivarsi presso il giudice della cautela al fine di ottenere l’autorizzazione allo smobilizzo delle azioni oggetto di sequestro, né tantomeno il potere di procedere autonomamente alla vendita delle azioni stesse, tanto più che i titoli in questione, sebbene sequestrati, erano pur sempre “rimasti nel patrimonio dell’attore”, come ammette contraddittoriamente la stessa sentenza di primo grado.
La banca, dunque, mai avrebbe avuto titolo per procedere alla alienazione delle azioni sequestrate, nemmeno al fine di conservarne il controvalore monetario, non essendo in alcun modo legittimata a compiere atti dispositivi dei titoli azionari sottoposti a sequestro, di cui resta unico ed esclusivo titolare il medesimo debitore sequestrato.
La Corte adita, seguendo le argomentazioni dell’appellante, rileva preliminarmente come, in punto di fatto, risulti d’immediata percezione lo stridente contrasto tra l’iniziativa assunta dal proprietario A. per liquidare i diritti di opzione e la sua inerzia a fronte del progressivo depauperamento del valore delle azioni.
In diritto, appare altresì evidente alla Corte che “gli oneri e gli obblighi del custode di cui agli artt. 65 e 546 c.p.c., tra cui va compreso l’esplicito riferimento al dovere di amministrazione del bene in sequestro, devono essere modulati in base all’oggetto del sequestro ed al tipo di relazione esistente tra il terzo ed il bene assoggettato al vincolo: detti obblighi sono ovviamente particolarmente intensi, fino a comprendere la gestione del bene sequestrato, solo nel caso in cui il soggetto inciso dal provvedimento cautelare sia effettivamente debitore del debitore esecutato e sia anche il titolare del denaro o del bene assoggettato a sequestro, il cui valore mira alla garanzia del credito cautelato; eppure, anche in detta ipotesi appare arduo sostenere che il debitore proprietario dell’immobile oggetto del sequestro conservativo debba precipitarsi a venderlo, in corso di causa ed addirittura prima dell’avvio dell’esecuzione (il sequestro si converte in pignoramento soltanto con la sentenza di condanna esecutiva – art. 686 c.p.c.), qualora il mercato immobiliare subisca pesanti flessioni, al fine di preservare il valore stimato al momento dell’esecuzione del sequestro stesso”.
A maggior ragione, quindi, nell’ipotesi in cui la titolarità dei beni posseduti/detenuti dal terzo faccia capo al medesimo debitore esecutato, non può il dovere di amministrazione previsto per la custodia ex lege dall’art. 65 c.p.c. trasformarsi, per il terzo non proprietario del bene in sequestro, in un onere maggiore e più grave di quello che già gli competeva in precedenza ex contractu, atteso che ciò travalicherebbe i limiti degli effetti del sequestro conservativo, “senza che possa spiegarsi il fondamento normativo del trasferimento in capo al custode del potere di iniziative così straordinarie da esitare addirittura nella liquidazione anticipata del bene oggetto di cautela”.
In sostanza, spiega la Corte, se prima del sequestro conservativo la banca depositaria amministrava i titoli di proprietà dell’A. nei limiti del contratto di deposito titoli a custodia ed amministrazione, operando sugli stessi solo su ordine dell’investitore, “non può sostenersi che l’art. 65 c.p.c. possa giustificare lo spostamento della titolarità dei beni e della gestione dal proprietario al depositario, questi essendo tenuto solo a continuare nel tipo di amministrazione che già gli spettava e, in più, ad astenersi – per effetto del vincolo imposto dal sequestro – dall’eseguire, come pure il contratto gli imporrebbe, gli atti dispositivi dei titoli stessi che dovessero provenire dall’investitore, soggetto passivo del provvedimento cautelare; in ogni caso, pur prescindendo dalla condotta del custode, l’effetto che si deve perseguire con il sequestro conservativo è quello dell’indifferenza verso la procedura degli eventuali atti dispositivi che hanno per oggetto la cosa sequestrata”.
A dette condivisibili conclusioni la Corte perviene considerando che il dovere di amministrazione del custode previsto dall’art. 65 c.p.c., che è norma procedurale, deve necessariamente essere interpretato – nel caso che ne occupa – in coerenza con gli artt. 2740 e 2906 c.c., che sono invece le norme sostanziali destinate a stabilire i limiti di operatività e lo scopo della misura cautelare.
Per altro verso, va pure considerato, secondo la Corte, che in tal senso è esplicito anche l’art. 546 c.p.c., laddove assoggetta il terzo agli obblighi che la legge impone al custode “relativamente alle cose ed alle somme da lui dovute” e non con riferimento a tutte le cose da lui possedute e/o detenute a qualsiasi titolo per conto del debitore esecutato.
Per quanto concerne, infine, il supposto dovere di qualunque custode di preservare il valore dei beni oggetto del sequestro conservativo, la Corte territoriale rimarca che “– a parte il caso in cui la cautela ricade su somme di denaro liquido – in tutte le restanti ipotesi, soprattutto quando si tratti di pignoramento di titoli rappresentativi di una partecipazione, quali sono i fondi comuni o le azioni o le quote societarie, al momento del sequestro (ma anche al momento della sua trasformazione in pignoramento) viene vincolato un valore che non è né attuale, né reale e che non è neppure esigibile dal titolare, perché diventa definitivo solo con la liquidazione del bene in base al corrispondente valore di mercato del giorno della vendita; non vi è dubbio che la decisione di liquidare la partecipazione spetti esclusivamente al titolare della stessa, anche in caso di sequestro, previa autorizzazione giudiziale, ovvero al soggetto a cui è stata delegata la gestione, circostanza che nel caso concreto non risulta né allegata, né dimostrata”.
Ne deriva che, secondo la Corte, appare improprio persino invocare – in detti casi – la nozione di danno, visto che il depauperamento di cui il debitore esecutato si duole non è riferibile ad un valore economico certo e definitivamente acquisito al suo patrimonio, bensì ad un’aspettativa destinata a concretizzarsi solo in caso di un’ulteriore decisione, cioè quella di vendere la partecipazione al corrispondente valore di mercato.
La Corte ritiene dunque un errore, a fronte della riduzione dell’importo oggetto del sequestro, la decisione di liberare anche gli altri beni (immobili ed azioni) originariamente cautelati, concentrando il vincolo giudiziario su partecipazioni il cui valore è per definizione instabile e fluttuante in base all’andamento del mercato, pur volendo tacere del fatto che il vero valore della quota deve tener conto anche degli eventuali debiti (ad es. per gli oneri di commissioni) del titolare della stessa verso il fondo o l’emittente: in tal modo è stato infatti diminuito il valore complessivo dell’insieme dei beni di proprietà del debitore, posti a garanzia del credito.
Accogliendo anche sul punto i motivi di censura formulati dalla banca, la sentenza in commento fa chiarezza sulla questione, precisando che, secondo il disposto dell’art. 669 duodecies c.p.c., era onere del debitore sequestrato chiedere per tempo al giudice della cautela la vendita delle azioni, a causa della progressiva perdita di valore di cui era informato dalla banca, in attuazione del suo dovere di leale collaborazione con il creditore procedente, per agevolare il recupero del credito, come peraltro fatto dallo stesso A. nel caso dei diritti di opzione (diritti peraltro accessori alla titolarità delle azioni, che dovrebbero per definizione seguire lo stesso regime giuridico del diritto principale a cui accedono).
Rileva ancora la Corte che, seppur non esplicitamente, il primo giudice ha altresì censurato la condotta della banca in relazione alla violazione dei suoi doveri d’intermediario, richiamando esplicitamente l’art. 28 comma 4 reg. Consob n. 11522 del 1998, in tal modo ravvisando profili di responsabilità riconducibili ad un rapporto diverso tra la banca e l’investitore, cioè al loro rapporto contrattuale di operatività in servizi finanziari.
Ha sostenuto infatti il primo giudice, nella parte relativa alla liquidazione del danno, che “indicativo in tal senso è quanto previsto dalla disciplina speciale, secondo cui “gli intermediari autorizzati informano prontamente e per iscritto l’investitore ove il patrimonio affidato nell’ambito di una gestione si sia ridotto per effetto di perdite, effettive o potenziali, in misura pari o superiore al 30% del controvalore totale del patrimonio a disposizione alla data di inizio di ciascun anno, ovvero, se successiva, a quella di inizio del rapporto, tenuto conto di eventuali conferimenti o prelievi” (art. 28 comma 4 reg. Consob n. 11522 del 1998)”.
L’appellante ha ampiamente censurato anche detto profilo, sostenendo di aver correttamente adempiuto ai propri doveri d’informazione dell’investitore e di non essere in ogni caso tenuta ad informarlo dell’aggravamento del rischio dell’investimento già effettuato. L’istituto di credito ha altresì censurato la sentenza di primo grado nella parte in cui fissa nella percentuale del 30% la soglia al di sotto della quale la banca si sarebbe dovuta attivare per la vendita delle azioni oggetto di sequestro, al fine di preservarne il valore, evidenziando come non fosse mai stato indicato dal giudice del sequestro alcun criterio in tal senso. In ogni caso, prosegue la banca, la percentuale (arbitrariamente) fissata nella sentenza di primo grado non aveva nulla a che vedere con le esigenze del sequestro conservativo in questione, non tenendo in alcuna considerazione l’ammontare del credito del sequestrante e l’interesse di questi ed incombendo comunque sul titolare delle azioni sequestrate e sul creditore procedente l’onere – oltre che l’interesse – di adire l’autorità giudiziaria per i provvedimenti del caso.
Al riguardo, la Corte ritiene documentalmente provata, in punto di fatto, la circostanza che l’attore/odierno appellato abbia ricevuto le comunicazioni semestrali della banca relative all’andamento dei titoli ed al loro valore, a nulla rilevando le sue generiche contestazioni di non aver ricevuto proprio e soltanto quei documenti; invero, consultando i relativi documenti allegati dalla banca, è alquanto agevole – secondo la Corte – rilevare il progressivo depauperamento del valore dei titoli.
In diritto, la Corte condivide il principio richiamato dall’istituto di credito (vds. Cass. n. 16138 del 3 luglio 2017, ribadito da Cass. n. 14691 del 6 giugno 2018), secondo cui “In tema di contratti relativi a strumenti finanziari, deve escludersi che l’intermediario nella compravendita di valori mobiliari, quando abbia stipulato con il cliente solo un contratto di deposito titoli in custodia ed amministrazione, abbia un obbligo di informazione, proprio del contratto di gestione del portafoglio, relativo all’aggravamento del rischio dell’investimento già effettuato”.
In dette occasioni la Suprema Corte ha annotato che “se è infatti vero che «gli obblighi di informazione previsti dall’art. 21 D.Igs. 58/1998 (TUF) non riguardano soltanto la fase anteriore alla stipula del contratto di negoziazione, ma anche la fase successiva, è pur vero che gli obblighi relativi alla fase di esecuzione attengono allo svolgimento successivo del rapporto quale è predeterminato dallo stesso contratto quadro, che disciplina le modalità con cui devono essere impartiti gli ordini dal cliente ed eseguiti dall’intermediario i singoli ordini di investimento o disinvestimento; si devono invece escludere obblighi di informazione successivi alla concreta erogazione del servizio e relativi, quindi, all’investimento effettuato, quando non sia previsto nel contratto un servizio di gestione del portafoglio o un servizio di consulenza» (Cass. 2185/2013; Cass.4602/2017; Cass.16318/2017; in tema Cass. 21890/2015, che ha ritenuto sussistente, sulla base degli obblighi di diligenza e trasparenza, gravanti sull’intermediario ex art. 21 del d.lgs. n. 58 del 1998 ed art. 28, comma 2, regolamento Consob n. 11522 del 1988, riguardanti anche il servizio di deposito titoli a custodia e amministrazione accessorio ad un contratto di negoziazione dei medesimi strumenti finanziari, una volta avvenuta la negoziazione, l’obbligo per l’intermediario di «acquisire le informazioni necessarie dai clienti e operare in modo che questi siano sempre adeguatamente informati», ma non concernenti genericamente l’andamento dei titoli, come specificamente stabilito dal menzionato art. 28 per i soli derivati e i “warrant”, per il diverso rapporto di gestione titoli, ma dipendenti unicamente da specifiche circostanze quali, ad esempio, la conoscenza, da parte della banca di notizie particolari e non riservate, o l’esito di analisi economiche, condotte dalla stessa banca, che l’obbligo di correttezza suggerisca di divulgare tra i clienti )”.
Tenuto conto che il contratto esistente tra la banca e l’A. è un contratto di deposito titoli a custodia ed amministrazione, la Corte sottolinea l’erroneità del riferimento del primo giudice all’art. 28 comma 4 reg. Consob n. 11522 del 1998 che presuppone, invece, il diverso contratto di gestione del portafoglio, non sussistente nel caso di specie, come reiteratamente evidenziato ed eccepito dall’istituto di credito.
Nel contratto di deposito ed amministrazione, infatti, i compiti gravanti sul depositario si esauriscono nella sola conservazione dei titoli e nella loro amministrazione e consistono, in particolare, nella riscossione dei dividendi e degli interessi, con esclusione perciò di ogni obbligo ulteriore e, segnatamente, degli obblighi consultivi ed informativi sottesi alla gestione del portafoglio.
Chiarita la questione nei termini così delineati, la Corte territoriale ribalta totalmente la sentenza di primo grado, rimarcando – a ragion veduta – che alcun danno può essere liquidato nel caso di specie a titolo di responsabilità extracontrattuale del custode.