Con sentenza del 12 marzo 2014 la Corte d’Appello di Roma ha condannato la banca al risarcimento del danno cagionato ai clienti investitori dall’inadempimento degli obblighi derivanti da contratto di consulenza in materia di investimento in strumenti finanziari in essere tra le parti relativamente ad un investimento in bond argentini.
La sentenza appare interessante per la ricostruzione degli elementi di valutazione adottati dalla Corte di Appello a sostegno della propria decisione, di seguito riassunti.
In primo luogo, la Corte evidenzia come, nel periodo dei circa quattro mesi di durata dell’incarico, la banca non abbia inviato ai propri clienti alcuna informazione sulla situazione del loro portafoglio titoli. Ciò nonostante rientri indubbiamente negli obblighi contrattuali di consulenza quella di monitorare costantemente la posizione del cliente al fine di consigliargli le opportune mosse d’investimento o di disinvestimento. In assenza di informazioni sull’andamento dei bond argentini, e di relativi consigli in merito alla gestione del portafoglio, appare evidente la configurabilità di un grave inadempimento in capo alla stessa banca.
In secondo luogo, la Corte esamina, rigettandole, le argomentazioni che hanno spinto il Tribunale a non ritenere colposamente inadempiente la banca per non aver immediatamente consigliato la vendita dei titoli, e riconducibili al fatto che:
- il rapporto di consulenza era iniziato quando i titoli posseduti dagli investitori, già declassati dalle agenzie di rating, mostravano un consistente abbassamento di valore tanto da renderli difficilmente collocabili;
- in caso di disinvestimento, non sarebbero state incassate dai clienti investitori cedole per circa 16.000 euro che sarebbero andate in scadenza a meno di 2 mesi di distanza dalla stipula del contratto di consulenza;
- in sede di stipula del contratto di consulenza gli attori avevano evidenziato una propensione al rischio media con obbiettivi speculativi;
- proprio dopo l’incasso da parte degli attori delle cedole nel novembre 2001, il rating dei titoli era ulteriormente peggiorato da CC in SD;
- che da tale epoca il valore dei titoli, pari a circa il 30% del valore nominale, era rimasto invariato.
Rispetto a tali argomentazioni, la Corte d’Appello sottolinea come:
- indipendentemente dagli obbiettivi che il cliente intende raggiungere, la banca è comunque obbligata a fornirgli i migliori consigli di investimento, evidenziando le criticità degli investimenti in essere;
- gli investitori, in sede di stipula del contratto, avevano indicato di possedere una media conoscenza degli strumenti d’investimento ed una media propensione al rischio. Tale circostanza appariva contraddittoria con le dichiarate finalità speculative, nonché poco compatibile con la detenzione di titoli non investment grade, e avrebbe dovuto imporre alla banca una particolare attenzione nell’adempimento degli obblighi contrattuali;
- rispetto alla supposta “non vendibilità” dei titoli in epoca successiva all’incasso da parte degli investitori della cedola ed al loro ultimo declassamento, la Corte evidenzia come gli investitori avessero lamentato l’inadempimento degli obblighi di informazione e consulenza sin dalla data di stipula del contratto dì consulenza;
- nel periodo rilevante ai fini della presente vertenza (dal 13 settembre 2001, data di stipula del contratto di consulenza, al 23 dicembre 2001, quando il governo argentino ha reso pubblica la propria decisione di sospendere sia la restituzione alla scadenza del capitale investito in titoli del debito pubblico, sia il pagamento degli interessi alla scadenza), il valore dei titoli in possesso degli attori è diminuito dal 77,65% del valore nominale al 40% circa raggiunto in prossimità della dichiarazione di default da parte del governo argentino. Il rating dei titolo, come attribuito dall’agenzia Standard & Poor’s, era diminuito dal B- del settembre al CCC+ del 9 ottobre 2001 con una successiva riduzione al CC del 30 ottobre 2001. Il rating attribuito ai titoli era quindi non investment grade (ed titoli spazzatura) e, in presenza di rischio elevato, gli stessi non erano compatibili con il profilo di rischio medio che gli investitori si erano attribuiti in sede di stipula del contratto di consulenza. La banca, operando con correttezza e buona fede avrebbe dovuto quindi informare immediatamente i clienti della presenza in portafoglio di titoli caratterizzati da rischio non conforme al profilo di rischio dichiarato in relazione sia al rating attribuito dalle agenzie del settore, sia al peggioramento della quotazione di mercato dei titoli.