Vincere più battaglie non equivale a vincere una guerra. Come un fulmine a ciel sereno, la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 24823, depositata lo scorso 9 dicembre, ha disatteso le aspettative di tutti i contribuenti che auspicavano di vedersi dichiarati illegittimi gli atti impositivi emessi dagli Uffici finanziari in violazione del contraddittorio preventivo, nelle sue più svariate declinazioni (accertamento emesso ante tempus, indagini a tavolino). E ciò, nonostante il fatto che, complici numerose sentenze emesse dalla stessa Corte di Cassazione, l’ago della bilancia sembrava ormai propendere a favore del contribuente, tanto da sollevare la questione alla Sezioni Unite al fine di debellare definitivamente quell’orientamento scarsamente garantista che ormai sembrava essere diventato residuale.
Operando un brusco cambiamento di rotta, tuttavia, le Sezioni Unite, in risposta all’ordinanza di rimessione 527/2015, ritengono che non esiste, allo stato, un principio generale, per il quale, in assenza di specifica disposizione, l’Amministrazione sarebbe tenuta ad attivare il contraddittorio endoprocedimentale ogni volta che debba essere adottato un provvedimento lesivo dei diritti e degli interessi del contribuente.
Queste le parole della Corte: “Differentemente dal diritto dell’Unione europea, il diritto nazionale, allo stato della legislazione, non pone in capo all’Amministrazione fiscale che si accinga ad adottare un provvedimento lesivo dei diritti del contribuente, in assenza di specifica prescrizione, un generalizzato obbligo di contraddittorio endoprocedimentale, comportante, in caso di violazione, l’invalidità dell’atto. Ne consegue che, in tema di tributi “non armonizzati”, l’obbligo dell’Amministrazione di attivare il contraddittorio endoprocedimentale, pena l’invalidità dell’atto, sussiste esclusivamente in relazione alle ipotesi, per le quali siffatto obbligo risulti specificamente sancito; mentre in tema di tributi “armonizzati”, avendo luogo la diretta applicazione del diritto dell’Unione, la violazione dell’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale da parte dell’Amministrazione comporta in ogni caso, anche in campo tributario, l’invalidità dell’atto, purchè, in giudizio, il contribuente assolta l’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato, e che l’opposizione di dette ragioni (valutate con riferimento al momento del mancato contraddittorio), si riveli non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede e al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell’interesse sostanziale, per le quali è stato predisposto”.
Il caso trae origine da un accertamento analitico-induttivo, emesso nei confronti di una società esercente attività di compravendita immobiliare per il recupero dell’IRPEG, IRAP ed IVA per l’anno di imposta 2003, nella quale si controverteva sulla portata applicativa dell’art. 12, comma 7 della L. 212/2000, nell’ambito del quale, con ordinanza n. 527/2015 venne rimessa alle Sezioni Unite la seguente questione: se l’obbligo di contraddittorio anticipato dovesse applicarsi indistintamente in relazione a tutte le tipologie di accertamento, o solo in relazione agli accertamenti che conseguano ad accessi, ispezioni o verifiche presso i locali in cui viene esercitata l’attività professionale e imprenditoriale del contribuente.
In risposta a tale questione, la Suprema Corte è giunta a due importanti conclusioni: 1) che al di fuori dei tributi armonizzati non sussiste alcun obbligo generalizzato di contraddittorio preventivo, a meno che lo stesso non sia espressamente disposto da qualche norma specifica (es. abuso del diritto); 2) che per i tributi armonizzati, dove, invece, tale obbligo è contemplato, grava sul contribuente che ne lamenti l’omissione specificare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere. Non è infatti sufficiente limitarsi a dire che non c’è stato il contraddittorio per far valere l’invalidità dell’atto, ma occorre che il contribuente dimostri che, se il contraddittorio ci fosse stato, si sarebbe potuti addivenire ad una soluzione differente da quella in concreto adottata.
A tali conclusioni i giudici pervengono sulla base della disamina dei dati normativi di riferimento interni e comunitari. Per quanto riguarda l’ordinamento interno, tutti i parametri normativi di riferimento porterebbero – a parere delle Sezioni Unite – a disconoscere l’esistenza di un obbligo generalizzato di contraddittorio preventivo. Non esiste, infatti, nella normativa tributaria una disposizione espressa che prevede un obbligo di contraddittorio anticipato, rinvenendosi, solo delle disposizioni specifiche per casi particolari (es. abuso del diritto, accertamenti standardizzati, liquidazione delle imposte e controllo formale della dichiarazione). Inoltre, lo stesso art. 12 comma 7 L. 212/2000 limita le garanzie ivi previste solo agli accertamenti conseguenti ad accessi, ispezioni e verifiche fiscali, ad esclusione, dunque, degli accertamenti “a tavolino” condotti presso l’Ufficio. Neppure nella Costituzione sussisterebbe in via generalizzata l’obbligo di attivare sempre e comunque il contraddittorio preventivo con il contribuente, atteso che l’art. 24 farebbe riferimento solo all’ambito giudiziale, mentre l’art. 97 non recherebbe alcun indice rivelatore dell’indefettibilità del contraddittorio endoprocedimentale.
Con riferimento al diritto comunitario, sebbene il contraddittorio preventivo sia stato definito “principio fondamentale dell’ordinamento europeo”, sicchè “il destinatario di un provvedimento potenzialmente lesivo deve essere messo previamente in condizione di manifestare utilmente il proprio punto di vista in ordine agli elementi sui quali l’amministrazione intende fondare la propria decisione”[1], le Sezioni Unite rilevano che ugualmente è stato affermato che la violazione del diritto ad essere ascoltati in via preventiva “determina l’annullamento dell’atto adottato al termine del procedimento amministrativo soltanto se, in mancanza di tale irregolarità, detto procedimento avrebbe potuto comportare un risultato diverso”[2].
Con la sentenza in commento la Cassazione opera una brusca inversione di tendenza rispetto al percorso che aveva delineato con le sue ultime pronunce[3], essendo in vari punti criticabile e, soprattutto continuando a non risolvere alcuni dubbi che ci si auspicava che potessero essere definitivamente debellati.
Un primo profilo di criticità attiene alla ingiustificata disparità di trattamento che le Sezioni Unite operano tra tributi armonizzati e tributi non armonizzati, in relazione del diritto al contraddittorio, apparendo, sotto questo profilo lesiva del principio costituzionale di uguaglianza, in quanto condurrebbe, anche sotto un profilo operativo, a delle soluzioni irragionevoli.
Si pensi, ad esempio, ad un accertamento dal quale scaturiscono maggiori ricavi ai fini delle imposte dirette e, correlativamente, si recupera un debito Iva. Sarebbe irragionevole (oltre che operativamente impossibile) pretendere – come sancito dalla Corte – di attivare il contraddittorio preventivo solo per le riprese ai fini Iva e non anche per le riprese ai fini delle dirette, atteso che, essendo i rilievi formulati sostanzialmente gli stessi, le prime scaturiscono direttamente dalle seconde.
Inoltre, sempre a livello pratico, la decisione della Suprema Corte non risolve i dubbi che si erano posti relativamente a determinate tipologie di accertamenti: si pensi, ad esempio, al caso degli accertamenti bancari e agli accertamenti fondati su studi di settore senza contraddittorio. Seguendo l’impostazione delle Sezioni Unite, nel caso di tributi non armonizzati l’obbligo del contraddittorio sarebbe garantito solo in presenza di una norma espressa che lo preveda. Orbene, negli accertamenti da studi di settore, pur non essendovi una norma espressa, il contraddittorio viene sempre attivato in quanto è solo tramite lo stesso che è possibile parametrare alla reale situazione economica del singolo contribuente le risultanze standardizzate di Gerico. Nel differente caso degli accertamenti bancari, che – come noto – scaturiscono da verifiche fiscali condotte “a tavolino”, presso gli uffici, seguendo l’impostazione delle Sezioni Unite, non è ancora chiaro se il contraddittorio debba essere o meno garantito. I giudici, infatti, non rispondono all’interrogativo cruciale, pur sottoposto dall’ordinanza di rimessione, su cosa effettivamente si intenda come contraddittorio, se cioè lo stesso comprenda anche tutte le ipotesi differenti dalla consegna del pvc all’esito di verifiche fiscali svolte presso la sede, come, ad esempio, la redazione di un verbale giornaliero, o la convocazione fatta al contribuente per la consegna di documenti o per la richiesta di chiarimenti (come di regola avviene per il caso degli accertamenti bancari).
Eppure, a voler trovare una chiave di lettura favorevole al contribuente, si evidenzia che sono proprio le Sezioni Unite a chiarire che il contraddittorio, nel caso dei tributi non armonizzati, debba essere garantito quando è espressamente previsto da una normativa specifica. Orbene, per il caso degli accertamenti bancari, l’obbligo di garantire il contraddittorio potrebbe ritenersi agganciato alla previsione normativa di cui all’art. 32, 1 comma n. 2 DPR 600/1973, secondo cui: “i dati e gli elementi attinenti ai rapporti ed alle operazioni acquisiti o rilevati … sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti … se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto ad imposta o che non hanno rilevanza allo stesso fine”. Trattasi, tuttavia, per come è scritta la sentenza, di un’interpretazione che potrebbe risultare piuttosto debole e facilmente attaccabile, atteso che, nella parte motiva della sentenza, le Sezioni Unite, proprio nel tentativo di argomentare sull’insussistenza di un obbligo generalizzato di contraddittorio, fanno espresso riferimento all’art. 12, comma7 L. 212/2000 che notoriamente è norma che riguarda le verifiche fiscali svolte presso la sede del contribuente. La delicatezza dell’argomento, considerate soprattutto le sue varie implicazioni a livello pratico – operativo, meritava senza dubbio una pronuncia più coraggiosa e maggiore sensibilità da parte delle Sezioni Unite. Solo in tal modo si sarebbe potuto garantire all’intero sistema una maggiore uniformità e organicità. Quell’uniformità e organicità per cui proprio le stesse Sezioni Unite, a distanza di meno di un anno, avevano aperto un varco con la sentenza n. 2594/2014.
[1] Corte giust. 18.12.2008, in causa C-349/07, Sopropè.
[2] Corte giust. 3.7.2014, in causa C-129 e C-130/13, Ramino International Logistic.
[3] Ex multis, Cass., 2594/2014 sulle verifiche scaturenti da indagini finanziarie, secondo cui “L’art. 12 c. 7 della L. 212 deve essere interpretato nel senso che l’inosservanza del termine di 60 giorni per l’emanazione dell’accertamento determina, salvo che ricorrano specifiche ragioni di urgenza, l’illegittimità dell’atto impositivo emesso ante tempus e che la nullità in questione non è limitata alla sola verifica che si concluda con la sottoscrizione e consegna del processo verbale di constatazione, ma più in generale, alla conclusione delle operazioni svolte, che trattandosi di indagini finanziarie, sono state effettuate presso gli uffici”; Cass., 20770/2013, secondo cui la nullità di cui all’art. 12 comma 7 della L. 212/2000 non è limitata alla sola verifica da concludersi con sottoscrizione e consegna del processo verbale di constatazione, ma comprenda pure l’accesso in quanto anche questo è da concludersi con sottoscrizione e consegna del processo verbale delle operazioni svolte.