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Sfruttamento del lavoro e responsabilità amministrativa degli Enti: alcune riflessioni a margine del caso Uber

2 Luglio 2020

Leonardo Cammarata e Taryn Simeone, Arata e Associati

Di cosa si parla in questo articolo

1. Premessa

Il Tribunale di Milano, Sezione Misure di Prevenzione, ha recentemente disposto l’amministrazione giudiziaria ai sensi dell’art. 34 del D. Lgs. 159/2011 (c.d. Codice Antimafia) nei confronti di una nota azienda attiva nel food delivery per le condizioni di sfruttamento dei c.d. rider ingaggiati per la consegna di cibo a domicilio.

L’attuale vicenda giudiziaria, sul cui merito ovviamente si esprimerà la Magistratura, fornisce lo spunto per svolgere alcune riflessioni in tema di reato di intermediazione illecita e sfruttamento illecito del lavoro di cui all’art. 603 bis c.p., introdotto in una prima, per certi versi lacunosa, formulazione dal D.L. 13 agosto 2011 n. 138 (convertito nella L. 14 settembre 2011 n. 148) e successivamente modificata dalla L. 199/2016 che, in quell’occasione, ne ha sancito l’introduzione nell’alveo del catalogo dei reati presupposto della responsabilità amministrativa degli Enti ex D. Lgs. 231/2001.

Come si vedrà, la riforma del 2016 ha in qualche modo cambiato il piano di applicazione della norma, trasformando un illecito sostanzialmente confinato nel settore primario in dinamiche da criminalità organizzata in reato teoricamente applicabile in contesti lavorativi più articolati.

Il recente provvedimento del Tribunale di Milano appare sicuramente interessante in relazione al tema dei rapporti tra società committente, non direttamente identificabile quale datore di lavoro dei soggetti in condizioni di sfruttamento spesso, peraltro, inquadrati come prestatori di lavoro autonomo o occasionali e società affidataria di una serie di servizi esternalizzati (trasporti, mensa, pulizie ecc. e, per l’appunto, i riders) che svolge, con i propri lavoratori in condizioni di sfruttamento, prestazioni a beneficio della committente, ma in formale autonomia dalla stessa, ciò che costituisce fenomeno diffusissimo nel quotidiano svolgimento dell’attività imprenditoriale.

È dunque lecito chiedersi se, e fino a che punto, possa estendersi la penale responsabilità anche alle società committenti che, oggi, possono essere soggetti incolpati ex D. Lgs. 231/2001, quantomeno sotto il profilo dell’omesso controllo e dell’esistenza di un deficit organizzativo, proprio per le modalitàillecite di gestione dei lavoratori da parte della società affidataria.

2. L’evoluzione normativa per la repressione del fenomeno del caporalato: l’art. 603 bis c.p.

Con l’introduzione di tale inedita figura criminosa, il legislatore del 2011 aveva manifestato la volontà di fronteggiare il fenomeno criminale del c.d. “caporalato”, spesso collegato ad organizzazioni mafiose, di sfruttamento della manovalanza con metodi illegali, in determinati settori produttivi, soprattutto l’edilizia e il settore agrario, in cui purtroppo è frequente il ricorso al lavoro “nero” e l’impiego di manodopera reclutata tra stranieri irregolarmente immigrati (con evidenti risparmi di costi del lavoro)[1].

Nella sua prima formulazione, l’art. 603 bis c.p., introdotto specificamente dall’art. 12, D.L. n. 138 del 13 agosto 2011, convertito in Legge n. 148 del 14 settembre 2011, puniva la sola condotta di attività organizzata di intermediazione, attribuendo la qualità di autore del reato ad un soggetto che normalmente non aveva parte nell’attività di sfruttamento e lasciando dunque fuori dall’alveo di applicazione della norma – al di là di una eventuale responsabilità in termini concorsuali[2] – il datore di lavoro, o per intenderci, l’utilizzatore finale della manodopera.

Tale configurazione della norma, che concentrava l’attenzione solo sulla figura del “caporale” e non anche del “committente”, è stata da subito oggetto di critiche, incentrate proprio sulla eccessiva selettività dell’intervento normativo che pareva non aver colto appieno la realtà del fenomeno criminale che intendeva arginare.

Si era, di fatto, in presenza di un reato proprio dell’intermediario di lavoro, che rimaneva l’unico destinatario dell’intervento repressivo, con l’effetto quasi paradossale di lasciare fuori dall’alveo di applicazione della norma una serie di condotte che evidentemente erano ugualmente, se non addirittura più, meritevoli di sanzione.

Restava infatti impunita l’ipotesi del datore di lavoro “committente” che utilizzava direttamente la manodopera ovvero che ne procedeva autonomamente al reclutamento nelle identiche condizioni di sfruttamento per cui l’intermediario veniva invece punito.

Nei fatti, l’art. 603 bis c.p. (nella sua precedente formulazione) è rimasta norma scarsamente applicata e si è rivelata, così come strutturata, inidonea a sanzionare e, ancor prima, ad arginare il fenomeno: il ricorso a fattispecie quali la riduzione o il mantenimento in schiavitù potevano rappresentare presidi validi contro le forme più gravi di sfruttamento, laddove presenti tutti gli elementi costitutivi di tale fattispecie ma rimanevano comunque inidonei a sanzionare le condotte, altrettanto gravi, di caporalato.

A cinque anni dalla sua introduzione, con la L. 199/2016, la fattispecie di cui all’art. 603 bis c.p. è stata sensibilmente rimodulata e ne è stata ampliata la sfera di punibilità estendendo anche all’utilizzatore le sanzioni originariamente previste a carico del solo caporale.

Il legislatore è intervenuto su diversi fronti: in primo luogo, la novella ha eliminato il riferimento al carattere organizzato dell’attività dell’intermediario previsto dal testo previgente; in secondo luogo, ha privato la condotta di quelle connotazioni modali (“mediante violenza, minaccia o intimidazione”) che ne erano elemento costitutivo e che sono confluite in un’aggravante ad effetto speciale.

Novità più significativa dell’intervento legislativo del 2016 è costituita dalla previsione di due distinte condotte attive: l’attuale art. 603 bis c.p., infatti, punisce, sempre che il fatto costituisca un più grave reato(i) chi recluta manodopera approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento; (ii) chi utilizza, assume, impiega manodopera, anche mediante l’attività di intermediazione di cui al punto precedente, sempre in condizione di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno.

Le attività di intermediazione e di sfruttamento si pongono tra loro in rapporto di progressione non necessaria. Invero, seppur sul piano empirico-fattuale il reclutamento di manodopera e l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, normalmente, precedono l’utilizzo della forza lavoro così reclutata, a rilevare penalmente è anche il mero reclutamento della manodopera che non si traduca in un effettivo sfruttamento della stessa. La destinazione al lavoro presso terzi, infatti, costituisce solo il fine del reclutatore ma non è elemento costitutivo della fattispecie in questione, di tal ché il reato si intende consumato anche laddove tale manodopera non venga poi effettivamente impiegata, purché sia stata comunque a tal fine reclutata.

Allo stesso modo, è penalmente sanzionato lo sfruttamento dei lavoratori anche se non intermediato dall’attività del caporale, in quanto la disposizione prevede che l’impiego del lavoro possa avvenire “anche” e, quindi, non esclusivamente mediante l’attività di intermediazione descritto al n. 1 dell’art. 603 bis c.p.[3].

Attraverso l’estensione della portata applicativa della norma si è dunque inteso andare a colpire lo sfruttamento del lavoro in quanto tale ma anche, per l’appunto, raggiungere quelle forme di caporalato più border line che rischiavano di restare al di fuori del recinto della rilevanza penale.

2.1 Gli indici di sfruttamento: quali sono?

Le “condizioni di sfruttamento” costituiscono elemento comune alle condotte di reclutamento ed utilizzo e, rispetto ad esse, il legislatore sulla scorta di quanto già contenuto della norma nella precedente formulazione, ha ritenuto, anche con la novella, di non fornirne una vera e propria definizione, bensì di tipizzare e ridefinire alcune delle situazioni tipologiche ricorrenti indicando, al comma 3 dell’art. 603 bis c.p., gli indici sintomatici di tale stato:

  • la reiterata corresponsione al lavoratore di una retribuzione palesemente difforme da quella prevista dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionata rispetto alla qualità e alla quantità del lavoro prestato;
  • la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro;
  • la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti.

La scelta di elencare una serie di indici di sfruttamento ha dato adito ad un dibattito circa la tassatività o meno degli stessi: c’è invero chi ritiene che non sarebbe ammissibile l’utilizzo di altri indici di natura interpretativa e chi, di contro, li considera di carattere meramente esemplificativo, ammettendo la possibilità della coesistenza di ulteriori criteri integrabili a quelli di matrice legislativa[4].

Sulla scorta di quanto contenuto nei lavori preparatori, potrebbe affermarsi che tali indici paiono assolvere alla funzione di individuare comportamenti meramente sintomatici dello sfruttamento e non già di definire ulteriormente il fatto tipico, con la conseguenza che essi non costituiscano un elenco chiuso di situazioni patologiche, ma che si prestino ad essere arricchiti, anche in considerazione delle molteplici sfaccettature del fenomeno del caporalato nell’ambito dell’economia moderna.

Basti pensare che lo stesso Tribunale di Milano, nell’ambito della attuale vicenda che ha dato spunto al presente contributo, ha dovuto certamente analizzare una nuova possibile forma di caporalato, ancora diversa da quella che il legislatore aveva in mente quando è stato introdotto il reato.

Ci si riferisce al nuovo “caporalato digitale”, con ciò intendendosi quelle forme di sfruttamento dei lavoratori che si realizzano attraverso piattaforme digitali (quali, ad esempio, quelle del food delivery) che, per come concepite, pur ricorrendo a strumenti corretti sul piano formale e contrattuale, paiono rivelare una sorta di vocazione strutturale allo sfruttamento lavorativo, imponendo – come nel caso al vaglio del Tribunale – un impegno quasi totalizzante del prestatore di lavoro, pur qualificato come lavoratore autonomo e pagato “a cottimo” in assenza, quasi totale, di garanzie.

3. Riflessioni in tema di responsabilità amministrativa degli Enti

Come ricordato, tratto saliente della novella del 2016 è l’inserimento del reato di caporalato nel catalogo dei reati presupposto della responsabilità amministrativa degli Enti ex D. Lgs. 231/2001: l’art. 25 quinquies del D. Lgs. 231/2001 prevede che la società nel cui interesse o vantaggio sia stato commesso il delitto di caporalato è soggetta alla sanzione pecuniaria da 400 a 1000 quote, alle sanzioni interdittive previste dall’art. 9, comma 2, per la durata non inferiore ad 1 anno e, laddove si accerti che l’ente sia stato utilizzato allo scopo unico o prevalente di consentire o agevolare la commissione del reato, all’interdizione definitiva dall’attività.

La mancata previsione di una responsabilità amministrativa dell’ente era stata oggetto di accese critiche al momento della prima introduzione nel 2011 dell’art. 603 bis c.p. e, a parere di chi scrive, addirittura inspiegabile.

Pochi reati, come quello di cui qui si sta trattando, appaiono così indicativi della patologia stessa dell’attività d’impresa, laddove infatti la condotta illecita appare strettamente connessa all’indebito vantaggio dell’Ente.

D’altro canto, la ampia formulazione della condotta tipica, che non presuppone necessariamente un rapporto di lavoro qualificato tra la società committente e i lavoratori reclutati dal caporale, dato che la norma fa uso dei termini “utilizza” e “impiega” oltre che “assume”, pone evidenti problemi di possibili interpretazioni eccessivamente estensive che rischiano di ampliare notevolmente la platea di enti chiamati a rispondere per tale illecito.

Se, dunque, nessun dubbio può esservi rispetto alle forme di sfruttamento più eclatanti come quelle in cui lo sfruttamento dei lavoratori, quasi sempre soggetti irregolarmente presenti sul territorio italiano, con scarsa conoscenza della lingua e dei propri diritti e, per ciò solo, disposti ad accettare condizioni di lavoro e di vita degradanti, più problematico è il caso delle realtà aziendali strutturate che esternalizzano lo svolgimento di alcuni servizi collaterali all’esercizio dell’attività tipica di impresa quali, i servizi logistici, di spedizione, di facchinaggio, di ristorazione, call center ecc. in cui, il più delle volte, sono impiegati lavoratori non altamente qualificati e specializzati e in cui è maggiore il rischio che trovino collocamento persone in stato di bisogno, disposte a tollerare, proprio in ragione delle proprie condizioni personali, trattamenti lavorativi discriminanti e degradanti.

Il rischio di contestazione del reato di caporalato, pur nella sua forma “grigia”, diventa quindi in astratto correlabile trasversalmente a qualsiasi ente che si avvalga, anche indirettamente, quale beneficiario finale di lavoratori in condizioni di sfruttamento: è proprio con riferimento a talune situazioni che occorre stabilire una linea di confine entro cui contenere il controllo che il committente può svolgere, a propria tutela, sulla società affidataria /appaltatrice del servizio.

In tale contesto appare, a parere di chi scrive, necessaria una specifica e capillare attività di identificazione dei rischi, che tenga conto non solo del trattamento del personale interno, ma anche dei lavoratori e dei servizi appaltati a terzi: gli “indici di sfruttamento” descritti nella fattispecie incriminatrice presupposto dell’illecito dell’Ente possono fungere da “sentinelle” e costituire elementi da considerare nell’ambito delle procedure interne.

Si pensi, ad esempio, all’ipotesi di una società appaltatrice che offra un servizio a prezzo che appare, per certi versi, eccessivamente “competitivo”: il fattore “prezzo” – che, da un lato, influisce sulle condizioni di lavoro dei soggetti impiegati e che, sul versante opposto, di fatto, si traduce nell’interesse e nel vantaggio della committente rispetto al reato, in termini di risparmio di spesa – può costituire un “segnale d’allarme” (per utilizzare un’espressione tipica nell’ambito societario) circa il rischio di commissione del reato in questione.

A tal fine può essere utile l’adozione di misure idonee a prevenire la selezione di soggetti dediti allo sfruttamento della manodopera impiegata nell’ambito del processo di approvvigionamento quali, ad esempio, “clausole di auditing” nell’ambito degli accordi commerciali con i fornitori, che consentano di verificare direttamente, a mezzo di visite ispettive ovvero tramite la trasmissione di tutta la documentazione utile a tale scopo, l’ottemperanza alle normative sindacali nonché in materia di salute e sicurezza dei lavoratori.

Parimenti indispensabile a tutela dell’Ente è l’aggiornamento del modello organizzativo correlato al delitto di caporalato, prendendo in considerazione non solo il proprio ambiente di lavoro ma anche gli appalti aventi ad oggetto settori e contesti in cui è verosimile che possa annidarsi tale fenomeno[5].

4. L’attenuante della collaborazione

Il reato di caporalato è stato inoltre affiancato da una serie di ulteriori disposizioni.

In primo luogo il legislatore ha inteso incentivare le condotte collaborative attraverso l’introduzione di una circostanza attenuante, contenuta nell’art. 603 bis.1 c.p. che prevede una diminuzione di pena da un terzo a due terzi nei confronti di chi, nel rendere dichiarazioni su quanto a sua conoscenza, consenta di evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, ovvero aiuti concretamente l’autorità giudiziaria nella raccolta di prove decisive per l’individuazione o la cattura dei concorrenti, ovvero ancora per il sequestro dei proventi dell’attività già trasferiti.

Si tratta di misura premiale, già sperimentata con riferimento alle ipotesi di corruzione, che mira a far emergere quelle forme di caporalato più subdole (il riferimento è ancora al “caporalato grigio”), infrangendo il muro di omertà costruito sulla base di legami di solidarietà che permeano molti contesti criminali[6].

5. Le misure patrimoniali

In secondo luogo, la L. 199/2016 ha introdotto all’art. 603 bis.3 c.p. la misura patrimoniale della confisca obbligatoria delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne costituiscono il prezzo, il prodotto o il profitto, anche nella forma per equivalente di cui all’art. 12 sexies del D.L. 306/1992, vale a dire della confisca, c.d. allargata e/o per sproporzione, del denaro, dei beni o delle altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore, appunto, sproporzionato al proprio reddito dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica

Tale misura ablativa ha una ampia portata: si pensi, ad esempio, alla confisca del complesso aziendale dell’utilizzatore o di singoli beni che la compongono, nel caso in cui l’azienda o parte di essa sia servita o sia stata destinata allo sfruttamento dei lavoratori, ovvero rappresenti il prodotto stesso di tale attività illecita

Se per un verso il legislatore ha inteso inasprire le misure patrimoniali connesse a tale fattispecie di reato, per altro verso è stato comunque attento a salvaguardare la continuità aziendale prevedendo misure idonee alla prosecuzione dell’attività e nel contempo idonee anche a scongiurare il protrarsi del trattamento degradante dei lavoratori.

L’art. 3 L. 199/2016 ha introdotto l’innovativo strumento del controllo giudiziario dell’azienda laddove sussistano i presupposti per l’applicazione della misura cautelare reale del sequestro preventivo ex art. 321 c.p.p. e qualora “l’interruzione dell’attività imprenditoriale possa comportare ripercussioni negative sui livelli occupazionali o compromettere il valore economico del complesso aziendale”.

Tale istituto prevede la nomina di un amministratore giudiziario, alternativa al sequestro dell’azienda, il quale, senza determinare lo spossessamento gestorio ha il compito di affiancare l’imprenditore al fine di impedire che si verifichino situazioni di grave sfruttamento.

Si tratta di una scelta legislativa di tipo terapeutico e orientata a consentire comunque il perseguimento dell’oggetto sociale, pur evitando il perpetrarsi delle condotte criminose in questione.

6. La misura di prevenzione dell’amministrazione giudiziaria ex art. 34 D. Lgs. 159/2011

L’attenzione del legislatore alla salvaguardia dell’attività aziendale trova ulteriore conferma nell’inserimento dell’art. 603 bis c.p. nel catalogo dei reati suscettibili di attivazione della misura di prevenzione dell’amministrazione giudiziaria di cui all’art. 34 D. Lgs. 159/2011 (Codice Antimafia).

Tale norma prevede che “quando sussistono sufficienti indizi per ritenere che il libero esercizio di determinate attività economiche, comprese quelle di carattere imprenditoriale […] possa comunque agevolare l’attività di persone […] sottoposte a procedimento penale […] per i delitti di cui (tra gli altro) all’art. 603 bis c.p. […] il tribunale competente per l’applicazione delle misure di prevenzione nei confronti delle persone sopraindicate dispone l’amministrazione giudiziaria delle aziende o dei beni utilizzabili, direttamente o indirettamente, per lo svolgimento delle predette attività economiche”.

Tale misura potrebbe, per certi versi, apparire simile a quella prevista dall’art. 3 L. 199/2016: in verità, diversi ne sono i presupposti e gli effetti.

Essa prevede, infatti, la nomina di un amministratore giudiziario con conseguente parziale spossessamento gestorio (a differenza dello strumento del controllo giudiziario che prevede l’affiancamento dell’amministratore all’imprenditore) e si basa sul presupposto che l’attività economica o l’azienda abbia agevolato persone indiziate di aver commesso il delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro.

Coerentemente con la funzione specifica di prevenzione, appunto, di tale misura, essa non presuppone la formale contestazione al destinatario, soggetto terzo e diverso dall’indagato, del reato di caporalato, essendo sufficienti meri “indizi o sospetti” di una sua condotta agevolativa posta in essere a beneficio degli indiziati del reato.

Proprio questa è la misura adottata dal Tribunale di Milano, sezione Misure di prevenzione, nell’ambito della quale il collegio ha fornito specifiche indicazioni per l’amministrazione giudiziaria che dovrà essere finalizzata “ad analizzare ed eventualmente rimodulare, in un’ottica primaria di salvaguardia dell’occupazione a tutti i livelli, gli accordi contrattuali in essere con la rete delle cooperative aventi ad oggetto la prestazione di manodopera nel sito oggetto di indagine con altre società”.

Attraverso tale misura l’Autorità Giudiziaria ha, di fatto, colpito la multinazionale – alla data della applicazione della misura ancora non iscritta nel registro degli indagati[7] – proprio nel suo ruolo di “utilizzatore finale” della forza lavoro sfruttata e, quantomeno sulla scorta degli elementi a disposizione del Tribunale, soggetto agevolatore dell’attività di caporalato.

7. Conclusioni

Alla luce delle problematiche illustrate emerge chiaramente l’importanza che i contenuti del modello di organizzazione e gestione assumono per l’impresa nella prevenzione della commissione del reato di intermediazione illecita.

Lo stesso Tribunale, nel contesto applicativo della misura di prevenzione nel caso che ha dato spunto al presente contributo, ha stabilito che l’amministrazione nominata deve provvedere, tra l’altro, “a verificare l’idoneità del modello organizzativo previsto dal D. Lgs. 231/2001 per prevenire fattispecie di reato ricollegabili all’art. 603 bis c.p. e quindi disfunzioni di illegalità aziendale come quelle accertate”.

Un’adeguata e capillare valutazione del rischio (anche indiretto) correlato alla fattispecie di cui all’art. 603 bis c.p. può rivelarsi strumento idoneo per l’adozione e l’attuazione di un modello efficace che consenta l’esenzione di responsabilità dell’Ente ai sensi dell’art. 6 D. Lgs. 231/2001, nell’ipotesi di reato commesso da soggetti in posizione apicale.

A tale stregua, quindi, il controllo del committente utilizzatore finale dei lavoratori in condizioni di sfruttamento, prodromico ad una corretta valutazione del rischio di commissione di reati contenuti nel catalogo 231 e ad una efficace predisposizione del modello organizzativo, appare oltre che necessario, doveroso, a tutela dell’Ente stesso.

Ciò ancor più oggi, a pochi giorni dall’emanazione del Position Paper di Confindustria che ha fornito le prime indicazioni operative per le imprese in merito alla adeguatezza dei modelli organizzativi nell’attuale “contesto Covid-19”. L’epidemia può rappresentare un’ulteriore “occasione” di commissione di alcune fattispecie di reato già incluse all’interno del catalogo dei reati presupposto “ma, in sé considerate, non strettamente connesse alla gestione del rischio COVID-19 in ambito aziendale e, per questo, riconducibile ad un perimetro di rischi indiretti”[8].

Tra i reati rispetto ai quali può incrementare il rischio di configurazione rientra anche l’ipotesi di caporalato e impiego di cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, dei quali, le difficoltà correlate alla prosecuzione dell’attività produttiva durante l’emergenza potrebbero averne determinato un maggior rischio di utilizzo e impiego irregolare.

Si tratta di un rischio che le imprese dotate di modello organizzativo hanno già valutato come rilevante nell’ambito dell’attività di risk assessment e rispetto al quale può essere considerata, caso per caso, l’opportunità di rafforzare le procedure con una conseguente implementazione del modello esistente.

 

 


[1] cfr. Pistorelli, “La responsabilità degli Enti per il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro” in www.rivista231.it

[2] Peraltro, con riferimento alla responsabilità a titolo concorsuale del datore di lavoro, la linea interpretativa adottata poteva comportare un difficile accertamento dell’elemento soggettivo: sarebbe stato necessario provare che egli avesse commissionato il reclutamento all’intermediario. Di fatto, sarebbe stato necessario verificare la presenza di un previo concerto tra i due coautori (Cfr. Bricchetti-Pistorelli, “Caporalato: per il nuovo reato pene fino a 8 anni”, in Guida al Diritto 2011).

[3cfr. Padovani, “Un nuovo intervento per superare i difetti di una riforma zoppa”, in Guida al Diritto, n. 48, 2016

[4] cfr. A. Quattrocchi, “Le nuove manifestazioni della prevenzione patrimoniale: amministrazione giudiziaria e contrasto al “caporalato” nel caso Uber” in Giurisprudenza Penale n. 6, 2020

[5] cfr. Chilosi-Riccardi, “Reato di caporalato: riflessi sui modelli 231”, in Osservatorio 231, n. 4, aprile 2017

[6] cfr.Merlo, “Il contrasto al “caporalato grigio” tra prevenzione e repressione”, in Diritto Penale Contemporaneo, n. 6/2019

[7] È di appena qualche giorno fa la notizia della iscrizione della società Uber Italia S.r.l. nel registro degli indagati ai sensi del D. Lgs. 231/2001

[8] cfr. Position Paper Confindustria “La responsabilità amministrativa degli Enti ai tempi del Covid-19 – Prime indicazioni operative”, giugno 2020

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