Il 17 ottobre scorso il Tribunale di Roma (sezione specializzata in materia di Impresa) è tornato sui diritti di voice all’interno delle società di capitali. I giudici hanno rivolto uno sguardo attento e analitico alle modifiche statutarie, rivolgendosi in particolare al caso di una delibera, adottata dall’assemblea straordinaria di una società, con la quale si sono modificati il diritto di prelazione previsto per via statutaria e l’oggetto sociale. La denunciante – che deteneva nella società quote pari al 7% del capitale sociale, lamentava la mancata convocazione dell’assemblea straordinaria e la non partecipazione del collegio sindacale alla stessa. La società, dall’altro lato, si difendeva basandosi proprio sulla infima quota posseduta dalla non convocata, che non avrebbe comunque permesso alla denunciante di mutare la decisione sociale. Questo il punto focale della difesa: un socio detentore di una partecipazione tanto piccola non sarebbe potuto determinare alcun cambiamento.
Ed è proprio tale affermazione ad essere smentita dai giudici romani. Il Tribunale precisa infatti che la convocazione dell’assemblea non vuole tutelare solo ed esclusivamente l’esercizio di voto nell’assemblea stessa (dal quale punto di vista, indubbiamente la ricorrente non avrebbe avuto alcun interesse nel ripetere l’assemblea medesima), ma piuttosto l’obiettivo dell’art. 2379 cod. civ. è garantire a partecipazione del socio alla “discussione assembleare”, indipendentemente dal suo esito e dal potere “detenuto” ed esercitabile.
Il tribunale sottolinea quindi, con questa pronuncia, l’importanza non tanto del diritto di voto, quanto del diritto di prendere parte, partecipare ed essere – a tutti gli effetti – soci attivi, riconoscendo (rectius ribadendo) un vero e forte diritto di voice. Cioè che conta non è il risultato finale, ma il processo e il percorso che permette di raggiungerlo. La conseguenza di un diverso orientamento, sottolineano i giudici, sarebbe l’inutilità di qualsiasi assemblea nelle società caratterizzate dalla presenza di un socio di maggioranza.
Per quanto invece riguarda la partecipazione del collegio sindacale, viene correttamente evidenziato che l’art. 2405 cod. civ. impone che le assenze non siano superiori a due assemblee e che comunque lo stesso influenzerebbe – secondo il collegio romano – il rapporto tra la società e il collegio sindacale, non certo la validità della delibera. Osservano correttamente i giudici, che laddove il legislatore ha voluto che la presenza del collegio sindacale acquistasse rilevanza ai fini della validità dell’assemblea tenuta e delle sue decisione, lo ha previsto chiaramente (come avviene per l’assemblea totalitaria). Lo stesso non è accaduto con le norme dettate in tema di assemblee ordinarie e straordinarie correttamente convocate.
Nonostante il ricorso della parte attrice venga respinto, perché convocazione c’era stata (con tanto di ricevuta di ritorno della comunicazione), la pronuncia apre un interessante spiraglio all’evoluzione della figura del socio di minoranza nell’ordinamento italiano, una figura che con il tempo si è guadagnato un suo posto nelle quotate (tramite il meccanismo del voto di lista) e che ancora oggi teme e rischia la sottorappresentanza negli organi gestori, finendo con l’essere alla mercè della maggioranza. In questo la pronuncia del Tribunale di Roma si pone come caposaldo, sottolineando l’essenzialità dell’apporto di tutti (anche di quelli che sul voto poco possono influire) al bene sociale e alla discussione che questo riguarda.