1. Il fatto
Il Tribunale di Napoli, con ordinanza del 24 marzo 2016, ha parzialmente accolto il ricorso esperito da alcuni soci di minoranza per ottenere in via cautelare la sospensione di due delibere (l’una di riduzione del capitale, l’altra di approvazione di alcune modifiche statutarie) adottate, nel corso della medesima seduta, dall’assemblea di una banca che, all’epoca dei fatti, era costituita in forma di Società Cooperativa per Azioni.
In relazione al fumus boni iuris i ricorrenti avevano lamentato, quanto alla delibera di riduzione del capitale, l’assoluta mancanza di opportunità della facoltativa riduzione di capitale, in violazione dell’art. 2445 cod. civ., dovuta all’erronea valutazione operata dagli amministratori; quanto alla delibera concernente le modifiche statutarie, l’illegittimità per eccessiva compressione del diritto di recesso. Sotto il profilo del periculum in mora i soci allegavano il pregiudizio irreparabile di due prerogative essenziali della partecipazione azionaria: il valore economico e i diritti amministrativi.
La banca si era costituita eccependo preliminarmente il difetto di legittimazione ad agire dei ricorrenti, chiedendo comunque il rigetto delle domande avversarie, anche sul rilievo che le delibere impugnate non potessero essere oggetto di sospensione dal momento che non richiedevano alcun atto di esecuzione ulteriore rispetto alla già avvenuta iscrizione nel Registro delle Imprese.
Il Tribunale pur giudicando fondato il fumus relativamente a entrambe le istanza, ha ritenuto non infondato il periculum unicamente come dedotto con riferimento alla delibera di riduzione del capitale sociale, ed ha quindi sospeso in via cautelare questa sola deliberazione.
La pronuncia in oggetto ha affrontato varie questioni di interesse, anche di natura preliminare, che meritano di essere approfondite.
2. Le questioni preliminari
a. Sono legittimati ad agire per la nullità della delibera anche i soci non dissenzienti
Il Tribunale ha anzitutto sancito la piena legittimazione ad agire per la nullità di una delibera assembleare in capo anche ai soci che avevano votato a favore dell’adozione della stessa. E ciò per un duplice motivo. Anzitutto perché l’interesse ad agire va valutato con riferimento al momento dell’introduzione del giudizio (e dunque, nel caso de quo, al momento del deposito del ricorso cautelare), momento in cui l’interesse del socio può senz’altro essere diverso (e addirittura contrario) rispetto a quello che aveva al momento dell’espressione del voto in assemblea[1]. In secondo luogo, non può che venire in considerazione il chiaro tenore letterale dell’art. 2379, comma 1, cod. civ., che consente l’impugnazione della delibera per nullità a chiunque vi abbia interesse.
Pertanto, non può che concludersi per la piena legittimazione ad agire anche del socio che in sede assembleare abbia espresso voto favorevole per l’adozione della delibera[2].
b. La trasformazione in S.p.A. intervenuta medio tempore non ha rilevanza
Sempre in via preliminare il Tribunale ha statuito come nel caso de quo non avesse alcuna rilevanza il disposto di cui all’art. 2504 quater cod. civ.: atteso infatti che la controversia aveva ad oggetto l’impugnativa di delibere di riduzione del capitale sociale e di modifiche statutarie, l’avvenuta iscrizione nel Registro delle Imprese dell’atto di trasformazione in S.p.A. non poteva essere di alcun impedimento all’eventuale accoglimento della sospensiva. Inoltre il ricorso era stato proposto ben prima dell’avvenuta iscrizione e pertanto i ricorrenti non potevano subire i tempi del processo, peraltro allungati da un tentativo di conciliazione effettuato dal giudice del merito.
c. Può integrare gravi responsabilità la decisione di sindaci e amministratori di non sottoporre la proposta conciliativa all’assemblea dei soci
Il Tribunale ha poi stigmatizzato negativamente il comportamento tenuto da amministratori e sindaci della banca, che pur invitati a sottoporre ai competenti organi sociali la proposta conciliativa formulata nel parallelo processo di merito, non avevano accolto detto invito, limitandosi a produrre copia del verbale del Consiglio di Amministrazione (tenutosi alla presenza anche del Collegio Sindacale) durante il quale era stato deciso di respingere sic et simpliciter detta proposta. Un simile atteggiamento, “oltre che foriero di possibili gravi responsabilità nei confronti dei soci a cui non è stato concesso di esprimersi”, dimostra “evidentemente” che gli amministratori sapevano (o quantomeno temevano) di non avere il consenso della maggioranza dei soci. È del tutto ovvio, infatti, quantomeno con riferimento alla delibera modificativa della disciplina del recesso contenuta nello statuto, che il giudice del merito non avrebbe potuto non tenere conto della valutazione della maggioranza dell’assemblea (soprattutto in caso di rigetto della proposta conciliativa). Invece amministratori e sindaci hanno deciso in nome e per conto dei soci che li hanno nominati, senza neppure dare loro alcuna informativa circa la proposta del Tribunale.
3. Inapplicabilità alle società cooperative del regime di riduzione obbligatoria del capitale
Passando all’esame del merito, il giudice di Napoli, all’esito di una valutazione comparativa tra l’evidente maggior pregiudizio che avrebbe subito l’istituto bancario rispetto a quello dei soci ricorrenti, ha deciso per il rigetto dell’istanza di sospensiva della delibera di riduzione del capitale sociale. Mentre infatti gli attori, in caso di rigetto dell’istanza, avrebbero subito unicamente conseguenze patrimoniali non irreparabili, la banca avrebbe invece subito rilevantissime (e inevitabili) conseguenze a cascata in ordine alla validità dell’aumento di capitale già deliberato e sottoscritto al fine di ripristinare il capitale minimo di vigilanza, così impedendo di fatto alla società la possibilità di continuare ad operare.
E ciò, nonostante il fumus di illegittimità della delibera risultasse fondato. Non perché i dati contabili della situazione finanziaria risultassero inveritieri, né perché l’operazione non fosse opportuna, bensì perché la riduzione del capitale era stata operata ai sensi dell’art. 2446 cod. civ. Quest’ultimo, infatti, a parere del Tribunale non è applicabile alle società cooperative, le quali, al più, potrebbero effettuare una riduzione volontaria ex art. 2445 cod. civ.
Sul punto il Tribunale si conforma alla tesi assolutamente maggioritaria in dottrina[3]. Le ragioni a sostegno dell’inapplicabilità dell’art. 2446, commi 2 e 3, cod. civ. alle società cooperative sono molteplici. Anzitutto, la circostanza che la riduzione del capitale sociale nelle società cooperative non comporta alcuna modifica dell’atto costitutivo (con l’ovvia conseguenza che la relativa decisione non può essere iscritta nel Registro delle Imprese per violazione del principio di tassatività degli atti iscrivibili). In secondo luogo, il fatto che la cooperativa non sia tenuta a far conoscere ai terzi le variazioni del proprio capitale sociale comporta che la stessa non abbia alcun obbligo di ridurre il capitale in presenza di perdite. In terzo luogo, la frequenza in ingresso/uscita dei soci, soprattutto laddove la cooperativa abbia grosse dimensioni, rende assai meno significativa la relativa informativa per i soci della cooperativa stessa.
4. Sull’impugnazione della delibera di modifica delle clausole statuarie concernenti il diritto di recesso
Diversa sorte ha invece avuto l’istanza cautelare relativa alla delibera assembleare avente ad oggetto la modifica del diritto di recesso. Il Tribunale, infatti, ha interamente accolto il ricorso, sospendendone l’esecuzione, sulla scorta anche di una valutazione comparativa degli interessi in gioco: da un lato, infatti, i soci avrebbero visto sostanzialmente espropriato il proprio diritto di proprietà, mentre la banca, dall’altro lato, avrebbe subito un impatto economico di limitato importo, dovendo al più rimborsare le sole quote dei ricorrenti. Né, con riferimento al fumus, poteva essere sottaciuto l’ulteriore profilo della assoluta mancanza di trasparenza all’esito della modifica, attesa “la probabile difficoltà del socio poco attento o culturalmente non adeguato, di capire con chiarezza che dalla semplice lettura dell’articolo … non è possibile dedurre il reale contenuto del diritto di recesso e delle relative modalità liquidatorie, ma occorre andare a leggere con attenzione un altro articolo dello statuto avente una intitolazione completamente diversa”: con la modifica, infatti, il diritto di recesso era stato spostato dall’articolo intitolato “diritto di recesso” all’articolo rubricato “attribuzioni del Consiglio di Amministrazione”. Inoltre, il diritto di recesso, nello statuto modificato, era sostanzialmente escluso, in quanto sottoposto, nei modi e nei tempi di liquidazione, all’arbitrio incondizionato degli amministratori, con ciò rendendo la delibera nulla per violazione dell’art. 2437, comma 6, cod. civ.
5. Il diritto di recesso nelle banche popolari e nelle banche di credito cooperativo: l’art. 28 TUB
La modifica statutaria, per espressa dichiarazione resa dagli amministratori in sede assembleare, aveva preso le mosse dal nuovo art. 28, comma 2 ter, TUB, recentemente novellato[4]. Quest’ultimo prevede quanto segue: “nelle banche popolari e nelle banche di credito cooperativo il diritto al rimborso delle azioni nel caso di recesso, anche a seguito di trasformazione, morte o esclusione del socio, è limitato secondo quanto previsto dalla Banca d’Italia, anche in deroga a norme di legge, laddove ciò sia necessario ad assicurare la computabilità delle azioni nel patrimonio di vigilanza di qualità primaria della banca. Agli stessi fini, la Banca d’Italia può limitare il diritto al rimborso degli altri strumenti di capitale emessi”.
La norma in esame presenta ictu oculi vari profili dubbi di costituzionalità, tanto che, per l’appunto, è ora al vaglio della Corte Costituzionale dopo che il Consiglio di Stato ha dichiarato “rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 del decreto-legge 24 gennaio 2015, n. 3 (Misure urgenti per il sistema bancario e gli investimenti), convertito con modificazioni in legge 24 marzo 2015, n. 33 – ovvero direttamente di tale ultima legge – per i seguenti profili […]:
a) per contrasto con l’art. 77, comma 2, Cost. in relazione alla evidente carenza dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza legittimanti il ricorso allo strumento decretale d’urgenza;
b) per contrasto con gli articoli 41, 42 e 117, comma 1, Cost., in relazione all’articolo 1 del Protocollo Addizionale n. 1 alla CEDU, nella parte in cui prevede che, disposta dall’assemblea della banca popolare la trasformazione in società per azioni secondo quanto previsto dal nuovo testo dell’art. 29, comma 2-ter, del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, il diritto al rimborso delle azioni al socio che a fronte di tale trasformazione eserciti il recesso possa essere limitato (anche con la possibilità, quindi, di escluderlo tout court), e non, invece, soltanto differito entro limiti temporali predeterminati dalla legge e con previsione legale di un interesse corrispettivo;
c) per contrasto con gli articoli 1, 3, 95, 97, 23 e 42 Cost., nella parte in cui, comunque, attribuisce alla Banca d’Italia il potere di disciplinare le modalità di tale esclusione, nella misura in cui detto potere viene attribuito “anche in deroga a norme di legge”, con conseguente attribuzione all’Istituto di vigilanza di un potere di delegificazione in bianco, senza la previa e puntuale indicazione, da parte del legislatore, delle norme legislative che possano essere derogate e, altresì, in ambiti coperti da riserva di legge”[5].
Il predetto articolo, in ogni caso, come anche correttamente rilevato dal giudice cautelare, prevede unicamente la possibilità di limitare il diritto di recesso, non certo quella di escluderlo tout court, come invece avvenuto nel caso de quo, pena la violazione dell’art. 42 della Costituzione. La disciplina risultante dalla modifica statutaria, infatti, consentirebbe la completa soppressione dell’effettivo contenuto non solo giuridico, ma anche economico del recesso. In questo caso, l’esclusione del diritto al rimborso in caso di recesso, finirebbe per tradursi in una sorta di esproprio senza indennizzo della quota societaria.
Ma anche ad ammettere la possibilità di espropriare al socio proprietario il diritto di decidere di liquidare, entro certi limiti, la propria quota, occorre comunque in qualche modo indennizzarlo sulla base del valore reale della sua quota. Limitare, pertanto, non può certo significare dare agli amministratori il diritto di rinviare a proprio ed immotivato piacimento l’intero rimborso delle azioni senza limiti di tempo, così svuotando di fatto il diritto del socio al rimborso della propria quota.
Si tratta, evidentemente, di principio pacifico sia in giurisprudenza che in dottrina, così come confermato anche dal citato provvedimento del Consiglio di Stato. Non si può quindi che concordare con la pronuncia in esame, soprattutto quanto alla fondatezza del ricorso sotto il profilo del fumus boni iuris.
[1] Dello stesso avviso è la giurisprudenza della corte di legittimità, con orientamento risalente ma mai mutato. Si vedano, inter alia, Cass. n. 3232/1982, in Giur. it., 1983, I, 1, 609; Cass. n.3881/1988, in Giust. Civ., 1988, I, 2600; Trib. Milano, 3 luglio 1989, in Giur. it., 1989, I, 2, 922.
[2] Sul punto va necessariamente evidenziato il diverso tenore letterale dell’art. 2377, comma 2, cod. civ. che, in tema di annullabilità delle delibere assembleari, prevede espressamente la limitazione all’impugnativa ai soli soci “assenti, dissenzienti o astenuti”.
[3] Si vedano, inter alia, E. Cusa, “Le riduzioni di capitale nelle società cooperative”, in Rivista delle società, 2010, pp. 471-498; R. Marcello e F.G. Poggiani, “Il trattamento delle perdite nelle società cooperative”, in Il Fisco, 47/2010.
[4] È stato infatti modificato dal D.L. n. 3 del 2015, convertito dalla L. n. 33 del 2015.
[5] Cons. Stato, sez. VI, ordinanza del 15 dicembre 2016, n. 5277 (Pres. De Francisco, est. Giovagnoli).