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Giurisprudenza

Società in house: revocabilità dell’ammissione al concordato preventivo e assoggettabilità al fallimento

9 Dicembre 2019

Francesca Gaveglio, dottoressa di ricerca in diritto d’impresa presso l’Università Bocconi e avvocato presso Fivelex Studio Legale

Cassazione Civile, Sez. I, 30 ottobre 2019, n. 27865 – Pres. Ferri, Rel. Terrusi

Di cosa si parla in questo articolo

Nella sentenza in esame la Cassazione si è pronunciata in merito ai presupposti per la revoca dell’ammissione al concordato preventivo nonché a quelli per la conseguente dichiarazione di fallimento di società in house.

Quanto alla revoca del concordato preventivo per il venir meno delle condizioni di ammissibilità, la Suprema Corte – posta la distinzione tra verifica della fattibilità (giuridica e economica) del piano, riservata al tribunale, e verifica della convenienza economica dello stesso, riservata ai creditori – ha chiarito che «mentre il controllo di fattibilità giuridica non incontra particolari limiti, quello concernente la fattibilità economica, intesa come realizzabilità di esso nei fatti, può essere svolto nei limiti della verifica della sussistenza, o meno, di una manifesta inettitudine del piano a raggiungere gli obiettivi prefissati, individuabile caso per caso in riferimento alle specifiche modalità indicate dal proponente per superare la crisi (con ciò ponendosi il giudice nella prospettiva funzionale, propria della causa concreta)».

Secondo la Cassazione, nell’ipotesi di concordato con continuità aziendale ex art. 186 bis l.f., tali principi vengono ancor più in rilievo, dovendo il piano essere «idoneo a dimostrare la sostenibilità finanziaria della continuità stessa in un contesto in cui il favor per la prosecuzione dell’attività imprenditoriale è accompagnato da una serie di cautele inerenti il piano e l’attestazione, tese a evitare il rischio di un aggravamento del dissesto ai danni dei creditori, al cui miglior soddisfacimento la continuazione dell’attività non può che essere funzionale». Alla luce di quanto precede, la Suprema Corte ha affermato che la previsione dell’art. 186 bis, ultimo comma, l.f., che attribuisce al tribunale il potere di revocare l’ammissione al concordato con continuità aziendale qualora l’esercizio dell’attività di impresa risulti manifestamente dannoso per i creditori, «non implica che l’organo giudicante abbia il compito di procedere alla valutazione della convenienza economica della proposta, ma che si debba verificare che l’andamento dei flussi di cassa e dell’indebitamento sia coerente con l’obiettivo del risanamento dell’impresa così come indicato nella proposta e nel piano, e che non sia tale da erodere le prospettive di soddisfazione dei creditori». Un simile sindacato, pertanto, esula da una valutazione di convenienza economica e rientra nella valutazione riservata al (e doverosa per) il giudice del merito.

Con riferimento al presupposto soggettivo di fallibilità, la Suprema Corte ha ribadito il proprio orientamento secondo cui «la società di capitali con partecipazione in tutto o in parte pubblica, è assoggettabile al fallimento in quanto soggetto di diritto privato agli effetti dell’art. 1 L. Fall., essendo la posizione dell’ente pubblico all’interno della società unicamente quella di socio in base al capitale conferito, senza che gli sia consentito influire sul funzionamento della società avvalendosi di poteri pubblicistici». Sul punto la Cassazione ha precisato che la natura privatistica delle società a partecipazione pubblica e dunque l’assoggettabilità al fallimento delle stesse non è esclusa dal «cd. controllo analogo, mediante il quale l’azionista pubblico svolge un’influenza dominante sulla società, così da rendere il legame partecipativo assimilabile a una relazione interorganica, poiché questo non incide sulla distinzione del piano giuridico-formale, tra pubblica amministrazione ed ente privato societario, che è pur sempre centro di imputazione di rapporti e posizioni giuridiche soggettive diverso dall’ente partecipante».

 

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