Il dibattito internazionale è oggi governato dalla necessità (rectius desiderabilità) di coordinare i sistemi fiscali dei vari Stati al fine di contrastare la doppia non imposizione e quel fenomeno – di difficile definizione – che va sotto il nome di pianificazione fiscale aggressiva. Tali tematiche hanno acquisito una sempre maggiore attenzione grazie alla spinta di organizzazioni non governative, dell’OCSE e del suo progetto anti BEPS (Base Erosion and Profit Shifting) e dell’Unione Europea. In tale contesto mi sembra si inserisca pienamente la sentenza della Corte di Cassazione n. 25281 del 16 dicembre 2015 che creando un ponte tra la clausola del beneficiario effettivo e la doppia non imposizione offre spunti di riflessione rilevanti che aprono numerosi interrogativi.
La sentenza ha origine dal ricorso di una società residente in Italia che contesta l’uso della normativa in materia di Controlled Foreign Companies (d’ora in avanti CFC) italiana ex art. 167 TUIR nei rapporti tra controllante italiana e controllata localizzata a Cipro, Stato che ai sensi dell’art. 1 del d.m. 21 novembre 2001 n. 429 rientra tra quelli aventi un regime fiscale privilegiato. In particolare, il ricorso della società si fonda su tre motivi. Il primo si basa sul termine di risposta dell’interpello che non sarebbe stato osservato correttamente dall’Amministrazione finanziaria. Il secondo motivo guarda al possibile contrasto della normativa CFC con il diritto dell’UE e, in particolare, con la libertà di stabilimento disciplinata dagli artt. 49 e 54 TFUE tenendo in considerazione l’interpretazione data dalla Corte di Giustizia nella sentenza Cadbury Schweppes del 12 settembre 2006, C-196/04 che ne ha limitato l’applicazione esclusivamente alle “costruzioni di puro artificio destinate ad eludere l’imposta nazionale normalmente dovuta”. Il terzo ed ultimo motivo si basa sulla possibile violazione della normativa CFC della Convenzione tra Italia e Cipro per evitare le doppie imposizioni e prevenire le evasioni fiscali in materia di imposte sul reddito ratificata con legge 10 luglio 1982 n. 564. In particolare, secondo la ricorrente gli articoli 5 e 7 della Convenzione, incentrati rispettivamente su stabile organizzazione e utili delle imprese e che consentono la tassazione degli utili delle società nello Stato della residenza a meno che non sia identificabile una stabile organizzazione nello Stato della fonte, impedirebbero la tassazione in Italia di “redditi privi di qualsiasi collegamento con il territorio dello Stato” e dunque impedirebbero l’applicazione dell’art. 167 TUIR.
Tale breve nota si sofferma proprio sull’ultimo punto descritto in quanto la risposta della Corte di Cassazione risulta essere di estremo interesse e risulta possedere un impatto notevole (almeno in potenza) anche per le prossime pronunce aventi profili di fiscalità internazionale.
L’utilizzo degli articoli 5 e 7 della Convenzione contro le doppie imposizioni per limitare l’utilizzo della disciplina CFC richiama alla memoria un interessante dibattito – ancora irrisolto a livello teorico ma piuttosto consolidato a livello pratico visto l’uso costante di tale normativa nel panorama internazionale – sulla compatibilità della normativa CFC con i trattati contro le doppie imposizioni e la necessità o meno di prevedere una norma ad hoc all’interno del trattato che ne preveda espressamente l’applicabilità affinché la normativa CFC non determini una violazione del trattato stesso. Questo dibattito porta ad interrogarci, da una parte, sul ruolo del Commentario OCSE nell’interpretazione di tali convenzioni – infatti, il para. 23 del Commentario all’art. 1 riconosce espressamente che la normativa CFC, stante la finalità ultima di protezione della base imponibile nazionale, sia internazionalmente riconosciuta come uno strumento legittimo e, pertanto, non sia contraria alle norme del Modello OCSE e, per quanto qui di interesse, all’art. 7 – e, dall’altra parte, su alcune decisioni nazionali in materia di compatibilità della disciplina CFC e dei trattati tra cui il caso Schneider deciso nel 2002 dal Conseil d’Etat francese (no. 232276, RJF 10/2002). Quest’ultimo risulta essere di particolare interesse in quanto la Corte (contrariamente a quanto generalmente accade: si veda senza presunzione di esaustività il caso n. 2655-05 deciso nel 2008 dalla Corte Amministrativa Suprema Svedese o il caso Gyo-Hi della Corte Suprema Giapponese n. 91 del 29 ottobre 2009) ha espressamente dichiarato la normativa CFC in contrasto con il trattato Francia Svizzera e, in particolare, con l’art. 7 in materia di utili d’impresa dello stesso. Ad abundantiam, sembra utile rilevare anche quel filone interpretativo (Avi-Yonah) che ritiene che la normativa CFC ridefinisca la residenza della società controllata rispettando l’art. 4 del Modello OCSE. Una volta che la società controllata è residente non vi sarebbe alcun limite del trattato ad una tassazione di tutto il suo reddito.
La Corte di Cassazione nella sentenza n. 25281/2015 in esame non prende in considerazione tali elementi ma considera la normativa CFC in linea con le convenzioni allargando l’angolo visuale e introducendo, sulla base del concetto del beneficiario effettivo, quella che sembra potersi interpretare come una norma generale anti abuso implicita (la Corte fa riferimento ad una “clausola generale dell’ordinamento fiscale internazionale”) atta a contrastare la pianificazione fiscale aggressiva ed a ristabilire un “corretto confronto concorrenziale tra operatori economici”. Più nello specifico la Corte parte dalle finalità delle convenzioni contro le doppie imposizioni identificate nell’evitare la cd. doppia imposizione e prevenire l’evasione fiscale (non vi è in questa prima parte alcun riferimento all’abuso o elusione di imposta). Secondo la Corte, al fine di godere dei benefici convenzionali ed evitare un uso improprio degli stessi, il soggetto di riferimento deve, da una parte, essere residente nell’altro Stato contraente e, dall’altra, avere “la disponibilità economica e giuridica del provento formalmente percepito”. Tale secondo requisito avrebbe portata generale in quanto seppur basandosi sulla clausola del beneficiario effettivo, sarebbe applicabile anche in assenza di una menzione esplicita della stessa. Tale clausola avrebbe, infatti, una finalità antiabuso generale atta a contrastare tutte quelle pratiche volte “a trarre profitto dalla autolimitazione della potestà impositiva statale”. In particolare, secondo la Corte tale autolimitazione derivante dalle convenzioni deve essere rispettata soltanto nel limite in cui l’utilizzo della convenzione non sia abusivo e quindi (congiunzione espressamente utilizzata dai giudici) causa di fenomeni di doppia non imposizione. Da ciò la Corte conclude che è ben possibile per l’Italia tassare i proventi diretti ad un residente cipriota “nella misura in cui, se ciò non facesse, oltre a vedersi distorte le norme distributive convenzionali, relative all’esercizio del potere impositivo degli Stati, si consentirebbe una forma di pianificazione fiscale, non soltanto aggressiva per le ragioni esattariali ma, al contempo, anche pregiudizievole per un corretto confronto concorrenziale tra operatori economici”.
Come sottolineato, le conclusioni della Corte di Cassazione sono di particolare interesse sia da un punto di vista generale che specifico.
Da un punto di vista generale, la sentenza che come già precisato ha origine dal rapporto tra la normativa CFC e i trattati contro le doppie imposizioni, si inserisce a pieno titolo nel dibattito – particolarmente attuale ma non di recente origine – del ruolo della doppia non imposizione nelle convenzioni contro le doppie imposizioni. In altre parole, non vi è ancora una posizione unanime nel panorama internazionale su quali siano gli obiettivi dei trattati contro le doppie imposizioni e se tra questi vi sia anche quello di impedire la doppia non imposizione in mancanza di un esplicito riferimento alla stessa. In tal senso, al fine di risolvere questo dubbio interpretativo l’OCSE raccomanda nel report finale dell’Azione 6 “Preventing the Granting of Treaty Benefits in Inappropriate Circumstances” di indicare espressamente nel preambolo dei trattati che gli stessi abbiano come obiettivo anche quello di non favorire la doppia non imposizione. La Corte di Cassazione italiana sembra affermare, senza alcun indugio, che il contrasto alla doppia non imposizione sia uno degli obiettivi delle convenzioni contro le doppie imposizioni in quanto “deprecabile” quanto la doppia imposizione.
Da un punto di vista specifico, è peculiare l’utilizzo della clausola del beneficiario effettivo come clausola generale antiabuso al fine di legittimare l’uso della normativa CFC. Tale peculiarità risiede innanzitutto nel problema interpretativo che la clausola del beneficiario effettivo pone. È dubbio, infatti, che possa essere utilizzata come clausola generale antiabuso dell’ordinamento fiscale internazionale anche alla luce delle recenti modifiche al commentario al modello OCSE che al para. 12.5 dell’articolo 10 prevede espressamente che la clausola del beneficiario effettivo possa risolvere alcune forme di elusione fiscale ma non tutti i casi di treaty shopping, per i quali è pertanto necessario introdurre – anche al fine di rispettare il principio di certezza del diritto – eventualmente altre norme antiabuso, tra cui il cd. Principle Purpose Test previsto nell’azione 6 del progetto anti BEPS. Ma sembra esserci un profilo ulteriore: al di là dell’interpretazione che si voglia dare alla clausola del beneficiario effettivo, rimane anche il dubbio se fosse davvero necessario scomodare tale clausola per legittimare l’uso della CFC che, come già precisato, sembra risiedere in diverse ed ulteriori considerazioni.