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Sostenibilità ambientale, autonomia privata e private regulation

29 Marzo 2024

Blanca Saavedra Servida, Ricercatrice di diritto privato, Università Statale di Milano

Di cosa si parla in questo articolo

 [*] SOMMARIO: Il contributo indaga quali siano le ricadute sull’autonomia privata delle politiche ambientali dell’Unione europea, esplorando la possibilità che la sostenibilità ambientale sia una norma dotata di efficacia orizzontale, applicabile ai rapporti contrattuali di impresa. Più nel dettaglio, si vuol verificare se il principio dello sviluppo sostenibile costituisca un limite interno all’autonomia privata e, per altro verso, alla capacità di autoregolamentazione delle imprese, anche alla luce dell’art. 25 della proposta di Direttiva sulla due diligence delle società ai fini della sostenibilità. Acclarato che l’imposizione di misure limitative dell’autonomia privata è sempre coperta da riserva di legge e, d’altro canto, che la violazione di una clausola generale – come quella dello sviluppo sostenibile – non può mai condurre alla nullità del contratto, ci si concentra sul ruolo dell’autoregolamento privato nella governance ambientale. In questa prospettiva svolgono un ruolo cruciale gli strumenti di c.d. accountability e trasparenza introdotti dal Legislatore europeo, che si inseriscono nell’ambito di una strategia di responsabilizzazione dell’impresa che mira a superare il modello della pura disclosure per intervenire sulle modalità di esercizio dell’attività di impresa, anche nell’interesse della vasta platea di stakeholder coinvolti.

ABSTRACT: This paper investigates what are the repercussions on private autonomy of the European Union’s environmental policies, exploring the possibility of environmental sustainability as a horizontal standard applicable to corporate contractual relationships. In more detail, it is to be examined whether the principle of sustainable development constitutes an internal limit on private autonomy and, on the other hand, on private self-regulation, particularly in the light of Article 25 of the proposal for a Directive on Corporate Sustainability Due Diligence. Ascertained that the imposition of any measures restricting the freedom of contract for the purpose of environmental preservation must have a legislative basis and, in other respects, that the breach of a general clause – such as the sustainable development one – can never entail the voidness of the contract, the paper focuses on the role of private self-regulation within environmental governance. Improving corporate accountability and responsibility is a key tool for overcoming a disclosure-based model and shaping corporate governance, in the interest of stakeholders as well.


1. Premessa: il ruolo del sistema industriale nella crisi ecologica.

Secondo l’ultimo rapporto dell’IPCC [1]– l’Intergovernmental Panel for Climate Change, il principale organismo internazionale per la valutazione dei cambiamenti climatici e del loro impatto su ecosistemi e biodiversità – l’influenza umana sul sistema climatico ha determinato, in tutte le aree del mondo, rilevanti variazioni negli estremi meteorologici, come le ondate di calore e la siccità[2].

Le prove scientifiche raccolte nel rapporto evidenziano che il riscaldamento globale – da cui dipendono, in larga misura, i cambiamenti climatici in atto – è imputabile alle attività dell’uomo, le cui emissioni hanno provocato un aumento abnorme della concentrazione di gas climalteranti nell’atmosfera[3].

A venire in rilievo sono anzitutto le attività che fanno ricorso ai combustibili fossili – carbone, gas naturale e petrolio – per la produzione e il consumo finale di energia. Fra queste spiccano le attività del settore secondario, soprattutto le industrie energetiche impegnate nella produzione di energia elettrica e, seppur in minor misura, le industrie manifatturiere e i processi industriali[4].

Ma la crisi climatica innescata dall’aumento della concentrazione dei gas serra non esaurisce la crisi ecologica in corso, che si sviluppa anche su altri fronti – si pensi all’inquinamento chimico oppure alla emissione di aerosol – e minaccia la stabilità dell’“ecosistema terrestre olocenico”[5].

Oltre alle emissioni di gas serra, le industrie – soprattutto le centrali termoelettriche alimentate a carbone, ma anche le industrie pesanti – sono responsabili di una quota ancora rimarchevole, sebbene in diminuzione, di altre emissioni inquinanti per aria, acqua e suolo: si pensi agli ossidi di azoto e di zolfo – che causano l’acidificazione delle precipitazioni e la formazione dello smog fotochimico – e al materiale particolato sottile e, ancora, agli inquinanti organici persistenti come le diossine e i metalli pesanti[6].

Per contrastare i cambiamenti climatici e il degrado ambientale, nel 2019 la Commissione europea ha presentato un ambizioso pacchetto di proposte legislative che mirano, entro il 2030, a ridurre del 55% rispetto al 1990 le emissioni nette di CO2 e, entro il 2050, a raggiungere la neutralità carbonica. Si tratta del noto “Green Deal”, piano strategico deputato ad avviare quel processo di transizione ecologica che le istituzioni europee ritengono, nel contesto dell’economia sociale di mercato, condizione imprescindibile per garantire la sostenibilità del sistema economico e, al contempo, occasione di crescita per lo stesso[7].

All’obiettivo della neutralità climatica – che la legge europea sul clima del 2021 ha reso giuridicamente vincolante, da mero impegno politico che era[8] – si affianca quello di ridurre l’inquinamento al di sotto delle soglie ritenute dannose per la salute umana e per gli ecosistemi naturali[9].

Questi obiettivi sono in linea con quanto stabilito nell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile[10] e nell’Accordo di Parigi[11], che si prefigge di mantenere l’aumento della temperatura media mondiale al di sotto dei 2 °C, sforzandosi di limitarlo a 1,5 °C rispetto ai livelli preindustriali[12].

Tuttavia, dal citato rapporto dell’IPCC emerge che per conseguire questo risultato è necessaria un’azione immediata, rapida e su larga scala, che coinvolga tra gli altri anche il sistema industriale[13], il quale, essendo responsabile di oltre la metà delle emissioni di sostanze inquinanti e gas serra, non può che rivestire un ruolo centrale nella governance ambientale[14]. Sia la crisi climatica che la più ampia crisi ecologica in atto rappresentano un problema globale per affrontare il quale si rivelano necessarie, nondimeno, anche azioni locali che vedano la partecipazione della comunità imprenditoriale, oltreché degli attori istituzionali che agiscono sul modello del command and control[15].

Data la correlazione che sussiste tra tali crisi e l’attività di impresa, il presente studio intende esaminare le ricadute giusprivatistiche delle politiche ambientali dell’Unione europea, che sono guidate dal principio dello sviluppo sostenibile. La prospettiva adottata è quella ambientale, in ragione della trasversalità delle relative istanze rispetto alle questioni economiche e sociali. Inoltre, il riferimento all’ambiente presente negli artt. 41 e 42 Cost., che riguardano due essenziali istituti civilistici, ha indotto a esplorare la possibilità che il principio dello sviluppo sostenibile esplichi una qualche forma di efficacia di diritto privato. Per quanto si tratti di un principio che opera anzitutto in senso verticale, regolando la condotta dello Stato e dell’apparato amministrativo, non può escludersi a priori l’idea che possa ricevere un’applicazione orizzontale nei rapporti tra privati e, segnatamente, nei rapporti contrattuali dell’impresa[16].

A tal riguardo, nel contributo si vuol verificare se il principio dello sviluppo sostenibile costituisca un limite interno all’autonomia privata e, per altro verso, alla capacità di autoregolamentazione delle imprese, anche alla luce della proposta di Direttiva sulla due diligence delle società ai fini della sostenibilità presentata il 23 febbraio 2022 dalla Commissione europea, che mira a integrare il rispetto dei diritti umani e dell’ambiente nella governance delle imprese[17].

2. Il significato normativo della clausola generale dello sviluppo sostenibile.

Prima di avviare il discorso, è opportuno individuare quale sia il significato normativo da attribuire al concetto di sviluppo sostenibile, che rappresenta uno degli obiettivi di lungo periodo dell’Unione europea.

Secondo una nota definizione, diventata ormai tralatizia, può dirsi sostenibile una forma di sviluppo che consenta di soddisfare i bisogni delle generazioni presenti senza compromettere le chances di quelle future di soddisfare i propri[18]. A venir in rilievo sono i bisogni tanto di crescita quanto ambientali. Almeno secondo la costruzione concettuale consolidatasi in seno alle Nazioni Unite, tributaria del c.d. “triplice approccio” di matrice economica, lo sviluppo sostenibile si fonda infatti su tre pilastri inseparabili ed equiordinati: la tutela dell’ambiente, da un lato, e lo sviluppo economico e sociale, dall’altro[19].

Inizialmente emerso e affermatosi nel diritto internazionale dell’ambiente, di cui costituisce uno dei cardini in ragione della dimensione globale dei problemi che sottende[20], questo concetto è successivamente transitato in ambito europeo, dov’è stato formalizzato per la prima volta nel 1993, nel Quinto programma comunitario d’azione, che venne significativamente indirizzato “a favore dell’ambiente e di uno sviluppo sostenibile”. In seguito, nel Trattato di Amsterdam del 1999, esso è assurto al rango di principio generale dell’Unione europea, venendo declinato nel principio di integrazione ambientale[21].

Negli ultimi trent’anni il principio dello sviluppo sostenibile ha assunto una importanza sempre maggiore nel quadro normativo di matrice europea, nel quale la salvaguardia dell’ambiente si coniuga con l’obiettivo del progresso economico e sociale, mediato da una crescita equilibrata del mercato interno e da un’economia sociale di mercato fortemente competitiva[22]. Attualmente l’art. 37 della Carta dei diritti fondamentali[23] e l’art. 11 TFUE prevedono, in conformità al principio dello sviluppo sostenibile, che un elevato grado di tutela dell’ambiente e il miglioramento della sua qualità vadano garantiti e integrati nella definizione e nell’attuazione di ogni politica e azione dell’Unione europea[24].

Per come è stato accolto nel sistema europeo, il principio dello sviluppo sostenibile rivela quindi un’anima intrinsecamente antitetica[25]. Il che, d’altronde, trova corrispondenza anche nella struttura della Carta di Nizza, al cui interno si riproduce quella tensione tra libertà di impresa e dovere di solidarietà, a cui è assiologicamente ricondotta la tutela dell’ambiente, che rende il potenziale conflitto tra i distinti diritti fondamentali, e l’inevitabile bilanciamento che ne consegue, un tratto necessitato dell’architettura ordinamentale.

Sebbene il principio dello sviluppo sostenibile non abbia ricevuto un espresso riconoscimento nel dettato costituzionale, in cui si parla di “tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni”, tale dinamica si rinviene anche a livello interno[26]. L’art. 41 Cost. fonda una situazione soggettiva di libertà individuale che, tuttavia, sconta i limiti negativi sanciti nei commi 2° e nel 3° comma della disposizione, che nella formulazione attuale prevedono che l’iniziativa economica privata non possa svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute e all’ambiente e, per altro verso, che l’attività economica sia pubblica che privata possa essere indirizzata e coordinata sia a fini sociali che a fini ambientali[27].

Grazie alla riforma costituzionale attuata con l. cost. n. 1 dell’11 febbraio 2022 – che ha introdotto nel novero dei principi fondamentali la doverosità della tutela dell’ambiente, riconosciuta quale valore sistemico[28] – il concetto di sviluppo sostenibile ha ricevuto, seppur indirettamente, una copertura costituzionale[29].

In tal modo è stato conferito rango super-primario a un principio programmatico che era già stato codificato nelle fonti ordinarie, agli artt. 3-ter e 3-quater del codice dell’ambiente. Queste disposizioni prevedono che tutte le attività rilevanti ai sensi del codice dell’ambiente debbano conformarsi al principio dello sviluppo sostenibile e, a tal fine, che tutte le persone fisiche e giuridiche, siano esse pubbliche o private, abbiano il dovere di garantire la tutela dell’ambiente e degli ecosistemi naturali mediante un’azione adeguata e informata ai principi della precauzione, dell’azione preventiva, della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché al principio del “chi inquina paga”[30].

L’eterogeneità dei contesti in cui il principio dello sviluppo sostenibile viene richiamato rende difficoltoso ricostruirne un significato unitario. Ad accomunare le varie enunciazioni è l’assunto su cui si fondano, ovvero che vi sia una situazione di scarsità di risorse naturali rispetto agli obiettivi stabiliti, che determina il sorgere di obblighi di natura giuridica e non meramente politica[31]. Tuttavia, ciò non soccorre alla determinazione del contenuto del principio, non essendo chiaro, a livello verticale, se esso detti veri e propri obblighi di condotta o si limiti a indicare un canone d’azione programmatico (e, in tal caso, se il canone sia immediatamente precettivo o meno) e, a livello orizzontale, se e, in caso di risposta affermativa, quali situazioni giuridiche soggettive possa fondare[32].

Evocando la necessità di conciliare la crescita economica con la protezione dell’ambiente – e ciò, in estrema sintesi, attraverso la definizione di un punto di equilibrio tra le risorse consumabili adesso e quelle da risparmiare affinché possano soddisfare gli attuali e concomitanti bisogni degli altri Paesi e quelli, futuri, delle generazioni di domani – la dottrina maggioritaria individua il significato normativo dello sviluppo sostenibile nella previsione di un obbligo di condotta per gli Stati, tenuti ad adottare misure che proteggano l’ambiente dai rischi insiti nella voracità delle dinamiche di produzione e consumo[33]. Il principale effetto giuridico del principio dello sviluppo sostenibile sarebbe quello di far sorgere in capo agli Stati e ai loro apparati ammnistrativi un dovere di azione[34].

Maggiori dubbi emergono quando viene in discorso la riferibilità del principio in parola a un soggetto privato, soprattutto se si tenta di definire cosa ciò significhi in concreto. La questione si risolve nell’interrogativo se sia possibile ricavare dal principio dello sviluppo sostenibile una regola valevole nei rapporti tra privati[35]. Nel tentativo di rispondere a questa domanda, è necessario tenere conto della natura valutativa del concetto di sviluppo sostenibile, che impone a chi voglia applicare il relativo principio di concretizzarne il significato attraverso un’operazione di integrazione valutativa[36] e , in ultima analisi, di esprimere un giudizio di valore. In altri termini, l’indeterminatezza semantica che connota il principio dello sviluppo sostenibile fa sì che sia l’interprete a dover determinare, di volta in volta, quale sia la fattispecie applicativa[37]. In assenza di un criterio che stabilisca univocamente le condizioni a cui un certo fatto può dirsi conforme al principio dello sviluppo sostenibile[38], l’individuazione dello standard alla cui stregua costruirne il significato è dunque rimessa all’interprete, similmente a quanto accade quando si è in presenza di una clausola generale[39].

Tuttavia, ciò comporta il rischio di incorrere in una “spirale tautologica”, vale a dire una situazione in cui si tenta di concretizzare un concetto indeterminato tramite un parametro che sconta lo stesso grado di indeterminatezza del termine che si vuol concretizzare[40].

3. Sviluppo sostenibile e autonomia contrattuale.

L’interrogativo circa la possibilità che il principio dello sviluppo sostenibile costituisca un limite interno all’autonomia contrattuale evoca la questione dell’efficacia di diritto privato dei principi generali. Il richiamo corre alla teoria della Drittwirkung[41], che può essere diretta ovvero mediata, qualora l’effetto orizzontale si produca tramite clausole generali già contenute in una fonte di rango inferiore. Alla luce dell’ambito materiale individuato nei commi 2° e 3° dell’art. 41 Cost., che fanno riferimento all’istituto civilistico dell’impresa, nell’affrontare la prima direttrice della ricerca – che riguarda gli effetti del principio dello sviluppo sostenibile su quello specifico profilo dell’autonomia privata che è l’autonomia contrattuale – l’analisi verrà circoscritta ai contratti di impresa.

In linea generale, l’architettura ordinamentale non consente al giudice ordinario di risolvere le controversie sottoposte alla sua attenzione facendo una diretta applicazione dei principi costituzionali, salvo che manchi una norma applicabile alla fattispecie considerata ovvero, qualora tale norma esista, che essa sia formulata secondo lo schema normativo della clausola generale (caso, quest’ultimo, che integra più propriamente un’ipotesi di mittelbare Drittwirkung, cioè di efficacia riflessa del principio)[42]. Per quanto riguarda il principio dello sviluppo sostenibile, a sgombrare il campo da ogni possibile dubbio è l’assenza, a qualsiasi livello, di una definizione a cui sia stata affidata la fattispecie applicativa[43].

Escluso che il giudice possa operare una sorta di scrutinio di costituzionalità del contratto alla stregua dell’interesse ambientale – prospettiva che, purtuttavia, pare prefigurata da chi ritiene che tale interesse rappresenti un limite interno all’attività di impresa e all’autonomia privata[44] – resta da verificare se il principio dello sviluppo sostenibile possa comunque venir in rilievo, seppur indirettamente, tramite il giudizio di meritevolezza ex art. 1322, comma 2° c.c., con un effetto che verrebbe riflesso attraverso la disciplina codicistica della nullità[45].

Inizialmente concepita come un limite intrinseco consistente nella positiva rispondenza del contratto a scopi di utilità sociale[46], la meritevolezza[47] è stata progressivamente assimilata alla liceità da un’autorevole voce dottrinale, secondo cui il regolamento di interessi divisato dalle parti, se lecito, è di per sé meritevole di tutela, e viceversa[48]. In questa prospettiva, le ricadute si manifesterebbero sul piano della qualificazione della causa del contratto in termini di illiceità, con quel che ne consegue ex artt. 1343, 1° comma e 1418, 2° comma, c.c.[49].

Anche questa ipotesi, tuttavia, non persuade. Sebbene alla tutela dell’ambiente sia stato riconosciuto il carattere di valore costituzionale, essendo espressione del principio solidaristico nonché presupposto per la concreta attuazione del progetto consegnato al comma 2° dell’art. 3 della Costituzione, è da escludere che ciò possa tradursi in una intrinseca restrizione dell’autonomia contrattuale[50]. Nonostante il rango acquisito dal principio dello sviluppo sostenibile, l’adozione di misure limitative dell’autonomia privata è ancora coperta dalla riserva di legge di cui all’art. 41 Cost., fondativo dell’autonomia contrattuale d’impresa.

A ciò si aggiunga che, in ogni caso, la regola del caso concreto andrebbe individuata attraverso la tecnica del bilanciamento, da condurre avendo riguardo anzitutto alla libertà di iniziativa economica e al diritto al lavoro[51]. La natura ancipite del concetto di sviluppo sostenibile – nozione espressiva di un complesso di valori distinti, fra cui quello solidarista e personalista – non fa altro che aggravare le conclusioni a cui si è giunti. Vista l’impossibilità di stabilire in astratto una gerarchia vincolante tra valori, elevare il principio dello sviluppo sostenibile a canone del giudizio di meritevolezza – e, pertanto, a limite interno all’autonomia contrattuale – significherebbe risolvere il momento logico dell’individuazione della regola applicabile al caso di specie in un giudizio di prevalenza il cui esito, tuttavia, dipende solo dal contingente convincimento del giudice.

È stato puntualmente evidenziato come il piano di valori evocato dalla meritevolezza debba essere raccordato con «l’ambito sistematico di disciplina in cui è inserita, che vincola l’interprete chiamato a dare concretizzazione alla clausola generale medesima»[52]. Condurre il controllo sulla meritevolezza degli interessi perseguiti con il contratto alla stregua di un principio, quale è quello dello sviluppo sostenibile, caratterizzato da un elevato grado di vaghezza semantica e indeterminatezza casistica confligge con il principio di certezza del diritto[53]. Ne discende altresì che, sebbene i principi costituzionali siano ovviamente norme imperative, una loro violazione non può condurre alla nullità, neppure virtuale, del contratto, determinando tuttalpiù una responsabilità risarcitoria[54].

4. Sviluppo sostenibile, autoregolamentazione e accountability.

Il primo ordine di conclusioni a cui si è giunti consente di affermare che, almeno per il momento, il principio dello sviluppo sostenibile non costituisce un limite interno all’autonomia delle imprese. Anche sul versante dell’autoregolamentazione e della private regulation in senso più ampio, dal momento che la clausola del “non danno” all’ambiente non si sovrappone né può esaurire il concetto di utilità sociale, sembrerebbe da escludere che il principio dello sviluppo sostenibile costituisca un limite interno alla libertà di iniziativa economica privata[55].

In ottica funzionale, ciò è del tutto coerente con il modello socio-economico europeo, basato sulla Soziale Marktwirtschaft. Il rimedio demolitorio risulta eccentrico rispetto alla ratio ispiratrice del diritto privato europeo, che è un diritto essenzialmente regolatorio, preordinato alla rimozione degli ostacoli che impediscono la piena realizzazione e il corretto funzionamento del modello concorrenziale su cui si fonda una società basata sulle libertà individuali, in primis la libertà d’impresa garantita dall’art. 16 della Carta di Nizza[56].

Esemplari, in tal senso, sono la Dir. 2022/2464 sulla rendicontazione societaria di sostenibilità e, soprattutto, il Reg. (UE) n. 2020/852 sulla c.d. tassonomia europea, che ha istituito un quadro normativo che favorisca gli investimenti sostenibili e, a tal fine, ha introdotto una classificazione delle attività economiche che, sotto il profilo ambientale, sulla base dei criteri uniformi di natura tecnica che saranno adottati negli atti delegati, possano esser reputate tali. Lungi dall’imporre autoritativamente limitazioni all’autonomia delle imprese (come se, in ipotesi, fossero stati introdotti obiettivi cogenti di performance ambientale), la tassonomia – che si configura anzitutto come uno strumento atto ad assicurare un’efficiente allocazione degli investimenti di capitali – mira a incentivare le imprese ad attuare una riconversione ecologica del proprio modello economico operando unicamente sul piano della trasparenza del mercato[57].

Al contrario, rimettendo all’autorità giudiziaria l’attuazione di un principio che, stando al suo significato normativo primario, non è nemmeno concepito per disciplinare rapporti tra privati si rischierebbe di rendere l’esercizio dell’attività di impresa irragionevolmente (e imponderabilmente) più oneroso per alcuni soggetti anziché altri, arrecando una lesione all’autonomia privata e causando anche significative distorsioni del mercato interno[58].

Quest’impostazione sistematica spiega perché, in materia ambientale, al progressivo distacco dal modello del command and control sia seguita la ricerca di approcci diversi, che favorissero l’intervento (auto)regolatorio degli attori privati[59], considerati i meglio in grado di definire le regole in alcuni specifici ambiti, in cui vengono in rilievo profili tecnici che esigono il possesso delle necessarie competenze. È questa, forse, una delle ragioni per cui il legislatore europeo, che ha velatamente mostrato una propensione per la concezione istituzionale dell’impresa, ora si muove nella direzione degli strumenti di c.d. accountability e trasparenza[60], nell’ambito di una strategia di responsabilizzazione dell’impresa.

È il caso della recente proposta di direttiva sulla Corporate Sustainability, che prevede l’introduzione di un set di norme che impongano alle società di grandi dimensioni operanti nel mercato interno il rispetto di una serie di obblighi di due diligence finalizzati a identificare, prevenire e mitigare gli impatti negativi (effettivi o potenziali) della loro attività, lungo tutta la c.d. catena del valore, su diritti umani e ambiente[61]. In particolare, l’art. 15 prevede in capo alle imprese che rientrano nell’ambito applicativo della disciplina in parola l’obbligo di adottare un piano che, indicata «la misura in cui i cambiamenti climatici rappresentano un rischio per le attività della società ovvero un loro possibile impatto», garantisca «che il modello di business e la strategia aziendale perseguiti siano compatibili con la transizione a un’economia sostenibile e con la limitazione del riscaldamento globale a 1,5 ºC in conformità dell’accordo di Parigi»[62].

Queste norme, che pure si configurano come regole di trasparenza, superano il modello della pura disclosure (adottato, per esempio, nella recente Corporate Sustainability Reporting Directive, entrata in vigore il 5 gennaio 2023) poiché contribuiscono a plasmare la fisionomia dei doveri degli amministratori in punto di gestione del rischio e, in tal modo, finiscono inevitabilmente per incidere anche sulle modalità di esercizio dell’attività di impresa[63].

  1. Conclusioni.

Nella prospettiva adottata, in cui centrale è la accountability delle imprese, la questione si trasla sul distinto piano della responsabilità – sociale o, meglio, ambientale[64] – della società[65]. Come anticipato, una soluzione al problema delle esternalità prodotte dall’attività di impresa sugli interessi (potenzialmente divergenti) dell’ampia platea degli stakeholder può esser cercata nella direzione delle regole di organizzazione dell’attività. Sul piano della corporate governance a venir in rilievo sono soprattutto gli artt. 25-26 della proposta di direttiva citata, che intervengono sul perimetro dei doveri fiduciari degli amministratori delle società ivi considerate introducendo in capo a questi ultimi un “dovere di sollecitudine” in relazione alle conseguenze a breve, medio e lungo termini delle proprie decisioni in punto di sostenibilità, il quale si riflette, tra l’altro, nell’obbligo di vigilare sulla implementazione delle misure che devono venir predisposte in attuazione dei previsti obblighi di due diligence[66]. Se fallisce la tutela preventiva e, a causa del mancato rispetto di questi obblighi, si verifica un danno, la società ne è responsabile (a prescindere da quella che è la legge applicabile in base alle norme di diritto privato internazionale).

Questa previsione normativa, tuttavia, impone una riflessione sulla idoneità dello strumento risarcitorio a garantire un rimedio effettivo, capace di soddisfare l’esigenza di protezione degli interessi di cui è portatrice la vasta platea di terzi suscettibili di venir danneggiati dalle esternalità negative prodotte dall’attività di impresa. In un ambito in cui il reale pericolo è che non vi sia la possibilità di ripristinare il bene oggetto dell’interesse soggettivo diffuso – quello alla protezione del sistema climatico e, più in generale, degli ecosistemi e dell’ambiente – emerge infatti tutta l’inadeguatezza, in punto di effettività, di un rimedio successivo. Per realizzare gli obiettivi di tutela perseguiti a vari livelli dal legislatore è allora auspicabile e, forse , necessario che tale strumento ceda il passo a una struttura rimediale operante in chiave preventiva[67].

 

[*]  Lo scritto riproduce, con alcune modifiche e l’aggiunta delle note, il contenuto del paper presentato il 3 dicembre 2022 all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, in occasione dell’8° Convegno Associativo ADDE.

[1] Si tratta del Sesto Rapporto di Valutazione, reperibile sul sito Internet www.ipcc.ch, che mette in luce la relazione praticamente lineare tra le emissioni antropiche di CO2 e il riscaldamento globale, con un aumento di 0,45 °C della temperatura superficiale globale ogni 1000 GtCO2.

[2] Il dato trova conferma nell’ultimo rapporto dell’ISPRA sugli indicatori del clima in Italia nel 2021, in cui è illustrato l’andamento del clima nel nostro Paese nell’anno di riferimento alla luce dei dati ricavati dall’attività di monitoraggio di temperatura e precipitazioni, che si avvale degli indici elaborati dall’Expert Team on Climate Change Detection and Indices, un gruppo di lavoro istituito in seno alla Organizzazione Meteorologica Mondiale, un’agenzia delle Nazioni Unite.

[3] Così il Summary for Policymakers dell’IPCC (p. 5), che sintetizza il contenuto del Sesto Rapporto di Valutazione: «The likely range of total human-caused global surface temperature increase from 1850-1900 to 2010-2019 is 0.8°C to 1.3°C, with a best estimate of 1.07°C. It is likely that well-mixed GHGs contributed a warming of 1.0°C to 2.0°C, other human drivers (principally aerosols) contributed a cooling of 0.0°C to 0.8°C, natural drivers changed global surface temperature by -0.1°C to +0.1°C, and internal variability changed it by -0-2°C to +0.2°C. It is very likely that well-mixed GHGs were the main driver of tropospheric warming since 1979 and extremely likely that human caused stratospheric ozone depletion was the main driver of cooling of the lower stratosphere between 1979 and the mid-1990».

[4] Nel rapporto del 2021 intitolato Transizione ecologica aperta: dove va l’ambiente italiano? l’ISPRA segnala che, in Italia, il consumo di energia proveniente da combustibili fossili genera tuttora l’80% delle emissioni nazionali, sebbene ci sia stata una loro riduzione grazie alla elettrificazione dei consumi finali e all’aumento del consumo di energia proveniente da fonti rinnovabili, che si sono accompagnate a una diminuzione del fabbisogno energetico a parità di PIL e, quindi, di produzione. Contribuiscono sensibilmente all’aumento delle emissioni di gas serra anche l’industria zootecnica, per via del metano prodotto dalla fermentazione enterica e dalla gestione delle deiezioni, e quella agricola, per via dei processi di degradazione biologica dei fertilizzanti azotati; inoltre, la deforestazione e il degrado delle foreste, naturali pozzi di assorbimento del carbonio, rappresentano una concausa dell’aumento della concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera (basti pensare che, nel 2019, le emissioni globali di CO2 hanno superato di oltre tre volte la capacità totale di assorbimento dell’insieme dei pozzi naturali). Indicazioni più dettagliate sulle fonti delle emissioni nazionali di gas serra e le relative percentuali sono rinvenibili nel National Inventory Report, un documento redatto dall’ISPRA – l’ultima edizione risale al 2021 – che analizza anche i fattori che ne determinano l’andamento.

[5] J. Rockstörm et al., Planetary Boundaries: Exploring the Safe Operating Space for Humanity, in Ecology and Society, 2009, 2, ha identificato nove aree cruciali per la stabilità dell’ecosistema della Terra – cambiamento climatico, perdita di biodiversità, variazioni del ciclo biogeochimico di azoto e fosforo, uso del suolo e dell’acqua, acidificazione degli oceani, deplezione dell’ozono, emissione di aerosol in atmosfera e inquinamento chimico – e, per ciascuna di esse, una variabile di controllo il cui intervallo di incertezza non deve essere oltrepassato.

[6] È quanto emerge dal rapporto Counting the Costs of Industrial Pollution (2021) dell’Agenzia europea dell’ambiente (p. 1), in cui si sottolinea « the societal costs or “externalities” of air pollution from large industrial facilities are high and include impacts on human health, ecosystems, infrastructure and the climate». Secondo il rapporto, basato sui dati dell’European Pollutant Release and Transfer Register, in Italia si trovano 13 dei 204 siti responsabili del 50% dei costi sociali riferibili alle emissioni degli agenti inquinanti citati (due dei quali rientrano anche nella lista dei trenta siti europei più inquinanti nel periodo 2013-2017).

[7] L’obiettivo è rendere l’economia europea pulita, climaticamente neutra e competitiva ed efficiente nell’uso delle risorse, con ricadute positive sull’occupazione e, in generale, sulla crescita: in tema C. Pèlegrin, Écologie ou croissance: faut-il choisir?, in Le Grand Continent.eu, 2019, 1.

[8] Si fa riferimento al Reg. (UE) n. 2021/1119 del 30 giugno 2021.

[9] In questo quadro, il 14 ottobre 2020 la Commissione europea ha pubblicato la comunicazione COM(2020)667, intitolata Strategia in materia di sostanze chimiche sostenibili. Verso un ambiente privo di sostanze tossiche, che mira a proteggere i cittadini e l’ambiente dalle sostanze chimiche nocive, eliminando gradualmente, soprattutto dai prodotti di consumo, quelle più tossiche. In seguito, con la comunicazione COM(2021)400, ha adottato il piano d’azione Verso l’inquinamento zero per l’aria, l’acqua e il suolo, che va a integrare la precedente strategia e le cui iniziative mirano, entro il 2030, a ridurre del 55% il numero delle morti premature riconducibili all’inquinamento atmosferico – ad oggi stimate in oltre 400.000 l’anno – ed entro il 2050 ad azzerare del tutto le fonti di inquinamento ambientale prese in considerazione. Da ultimo, con comunicazione COM(2022)304, ha reso pubblica una proposta di regolamento sul ripristino della natura, il cui testo definitivo è in corso di negoziazione tra Parlamento europeo e Consiglio europeo dal luglio 2023.

[10] Elaborata dall’Organizzazione delle Nazioni Unite e ratificata da tutti gli Stati membri dell’Unione europea nel 2015, l’Agenda 2030 è un programma d’azione che si articola in diciassette obiettivi interdipendenti il cui raggiungimento dovrebbe garantire uno sviluppo sostenibile sotto il profilo economico, sociale e ambientale.

[11] Raggiunto il 12 dicembre 2015 nell’ambito della COP21 e sottoscritto, fra gli altri, dall’Unione europea e da tutti i suoi Stati membri, l’Accordo di Parigi, entrato in vigore il 4 novembre 2016, è un accordo globale sui cambiamenti climatici per il periodo successivo al 2020 che dovrebbe contribuire al raggiungimento del secondo traguardo previsto dall’Obiettivo di Sviluppo Sostenibile n. 13 dell’Agenda 2030, che consiste nell’integrazione delle misure di contrasto ai cambiamenti climatici nelle politiche, nelle strategie e nei piani nazionali. Per l’Unione europea, il contributo nazionale alla riduzione delle emissioni di gas serra richiesto dall’Accordo consiste per l’appunto nella riduzione delle emissioni del 55% rispetto al 1990 entro il 2030 prevista

[12] Così l’art. 2, comma 1° dell’Accordo di Parigi. L’intervallo rispecchia le indicazioni contenute nel Rapporto Speciale dell’IPCC sugli impatti del riscaldamento globale di 1,5 °C al di sopra dei livelli preindustriali (2018), il quale evidenzia che le proiezioni mostrano «significative differenze nelle caratteristiche climatiche regionali tra il momento attuale e quello in cui il riscaldamento globale arriverà a 1,5 °C e tra 1,5 e 2 °C», scenario in cui gli estremi di calore raggiungerebbero più frequentemente soglie critiche per la salute e l’agricoltura e aumenterebbero ulteriormente i rischi per la sicurezza alimentare e le scorte d’acqua (di questo rapporto, consultabile all’indirizzo https://www.ipcc.ch/sr15/, è disponibile la traduzione italiana, realizzata dalla Società Italiana per le Scienze del Clima, che è reperibile all’indirizzo https://www.sisclima.it).

[13] Dal Rapporto Speciale dell’IPCC emerge che, sebbene tecnicamente sia ancora possibile contenere il riscaldamento globale entro questi limiti, di fatto i percorsi che implementano gli obiettivi di mitigazione dichiarati a livello nazionale «non limiterebbero il riscaldamento globale a 1,5 °C nemmeno se rafforzati dopo il 2030 con aumenti molto impegnativi, sia in termini di scala che di obiettivo delle riduzioni». Per dare un’idea, si consideri che, per limitare l’aumento a 1,5 °C, bisognerebbe ridurre le emissioni globali annuali di gas serra al di sotto delle 35 GtCO2-eq entro il 2030, mentre gli obiettivi citati condurrebbero, in quello stesso anno, a un totale che varia da 52 a 58 GtCO2-eq. Se, invece, il riscaldamento globale continuasse a crescere al tasso attuale, l’aumento di 1,5 °C verrebbe raggiunto tra il 2030 e il 2052: in questo scenario, per contenere il riscaldamento globale entro il limite convenuto sarebbe necessario che il picco delle emissioni cumulative di gas serra venisse raggiunto, al più tardi, nel 2025, per poi ridursi di circa il 45% rispetto ai livelli del 2010 entro il 2030, arrivando allo zero netto nel 2050 (tuttavia, per dare un’idea della tendenza in atto, nel 2019 le emissioni sono state del 12% superiori rispetto al 2010). Le stesse preoccupazioni sono state espresse dall’IEA nel report Net Zero by 2050. A Roadmap for the Global Energy Sector (2021) e dall’OCSE nel report Climate Change Mitigation: Policies and Progress (2015).

[14] Esemplificativo, in tal senso, è il sistema EU-ETS per lo scambio delle quote di emissione dell’Unione europea, che costituisce uno strumento di mercato per l’implementazione della politica climatica europea e coinvolge un larghissimo numero di imprese ad alto consumo di energia, responsabili di circa il 40% delle emissioni totali di gas serra prodotte in quest’area; il sistema opera secondo un programma di “cap and trade” che, realizzando l’internalizzazione dei costi delle emissioni di gas serra in capo alle imprese, ne consente una riduzione in modo economicamente efficiente. In tema v. C. de Perthuis – R. Trotignon, Governance of CO2 Markets: Lessons from the EU-ETS, in Climate Economics in Progress, P. Geoffron (a cura di), Parigi, 2013, 77; R. Raufer et al., Emissions Trading, in Handbook of Climate Change Mitigation and Adaptation3, M. Lackner – B. Sajjadi – W. Chen (a cura di), Cham, 2022, 3237.

[15] S. Grassi, Procedimenti amministrativi a tutela dell’ambiente, in Codice dell’azione amministrativa, M.A. Sandulli (a cura di), Milano, 2017, 1612, rileva che «a partire dal V programma di azione comunitaria (1993-2000), si è inserita, accanto alla tradizionale politica del command and control, la ricerca di strumenti e pratiche dirette a favorire la partecipazione delle imprese nella strategia dello sviluppo sostenibile e della tutela dell’ambiente. Già nel definire la responsabilità sociale delle imprese, il libro verde pubblicato dalla Commissione europea il 18 luglio 2001 faceva riferimento alla integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche nelle imprese nelle operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate. Con particolare riferimento agli interessi ambientali, la responsabilità sociale implica per l’impresa il superamento della semplice ricerca del profitto, attraverso la realizzazione di un contributo volontario alla tutela dell’ambiente mediante prassi e metodi decisionali capaci di integrare, in maniera armonica e coesa, le istanze sociali ed ecologiche nelle operazioni aziendali e nei rapporti con i vari stakeholder».

[16] Nel presente discorso, il termine “contratti dell’impresa” è utilizzato in funzione descrittiva di una categoria, quantomeno empirica, che comprende sia i contratti attinenti alla costituzione e organizzazione dell’impresa, sia i contratti d’impresa in senso stretto, per tali intendendosi qui contratti attraverso cui si esercita l’attività tipica dell’impresa e che, in quanto tali, si rivelano atti posti e conformati in funzione di un’attività specifica. In tema si veda, per tutti, A. Dalmartello, I contratti delle imprese commerciali, Padova, 1962, 94.

[17] Sul contributo che simili normative danno all’adempimento, da parte degli Stati, dei propri obblighi internazionali in materia di lotta al cambiamento climatico v. A. Bonfanti, Cambiamenti climatici, diritti umani e attività di impresa: recenti tendenze e futuri sviluppi del diritto internazionale in materia di due diligence di impresa, in Le Nazioni Unite di fronte alle nuove sfide economico-sociali 75 anni dopo la loro fondazione, Napoli, 2021, 47.

[18] Così si legge nel rapporto Our common future, redatto nel 1987 dalla Commissione mondiale su ambiente e sviluppo delle Nazioni Unite, all’epoca presieduta da Gro Harlem Brundtland, e approvato dall’Assemblea Generale dell’ONU con risoluzione n. 42/187 dell’11 dicembre 1987.

[19] In questo senso la Dichiarazione di Rio del 1992, sottoscritta all’esito della Conferenza delle Nazioni Unite su ambiente e sviluppo, e la successiva Dichiarazione di Johannesburg sullo sviluppo sostenibile del 2002, su cui v. B. Purivs – Y. Mao – D. Robinson, Three Pillars of Sustainability: In Search of Conceptual Origins, in Sustainability Science, 2019, 681. Si mostrano critici D. Griggs et al., Sustainable development goals for people and planet, in Nature, 2013, 306, che ritiene necessario «to reframe the UN paradigm of three pillars of the sustainable development – economic, social and environmental – and instead view it as a nested concept».

[20] S. Marchisio, Il diritto internazionale dell’ambiente, in Diritto Ambientale, G. Cordini – P. Fois – S. Marchisio (a cura di), Torino, 2008, 12.

[21] In linea con l’impegno assunto dall’allora Comunità europea all’atto della sottoscrizione della Convenzione di Aarhus, approvata con Decisione 2005/370/CE del 17 febbraio 2005. Per maggiori dettagli v. R. Rota, Profili di diritto comunitario dell’ambiente, in Trattato di diritto dell’ambiente, vol. I, P. Dell’Anno – E. Picozza (diretto da), Padova 2012, 151.

[22] Ai sensi dell’art. 3, par. 3, TUE, l’Unione europea «si adopera per lo sviluppo sostenibile dell’Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente». A livello operativo, questo modello di sostenibilità sembra fondarsi sulla idea del decoupling assoluto, ovvero il disaccoppiamento della crescita economica dalle emissioni di gas serra, che dovrebbe realizzarsi attraverso la de-carbonizzazione dell’economia e l’aumento dell’efficienza energetica (tuttavia, sinora nell’Unione europea e nel resto dell’area OCSE si è assistito a un disaccoppiamento solo relativo, vale a dire che l’economia è cresciuta a un tasso maggiore rispetto a quello della crescita di emissioni di gas serra). In tema v. É. Laurent, Faut-il décourager le découplage?, in Revue de l’OFCE, 2012, 235.

[23] Come noto, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (c.d. Carta di Nizza) è stata integrata nel Trattato di Lisbona ed è così assurta al rango di diritto primario dell’Unione europea: ai sensi dell’art. 6 TUE, infatti, essa ha lo stesso valore giuridico dei Trattati.

[24] E, pertanto, non soltanto della politica ambientale, i cui obiettivi generali, tratteggiati dall’art. 191 TFUE, consistono nella salvaguardia dell’ambiente, nella protezione della salute umana, nella promozione di un uso razionale delle risorse naturali e nel patrocinio di misure sovranazionali per far fronte ai problemi ambientali di scala regionale o mondiale, anzitutto il cambiamento climatico.

[25] Y. Jabareen, A New Conceptual Framework for Sustainable Development, in Environment, Development and Sustainability, 2008, 179, parla di «ethical paradox».

[26] R. Leonardi, La tutela dell’interesse ambientale tra procedimenti, dissensi e silenzi, Torino, 2020, 58 sottolinea che il principio dello sviluppo sostenibile è «la sintesi di esigenze opposte, da una parte, quella di assicurare alla società una continua evoluzione delle proprie aspirazioni economiche e sociali e, dall’altra, quella di evitare che il progresso scientifico e tecnologico vada a danno dell’ambiente, delle sue risorse e dei suoi equilibri».

[27] S. Mazzamuto, Il contratto di diritto europeo, Torino, 2020, 153.

[28] R. Rota, L’ambiente come nuova categoria giuridica, in La tutela penale dell’ambiente, P. Amelio – S. Fortuna (a cura di), Torino, 2000, 27.

[29] Prima dell’entrata in vigore della riforma costituzionale, la dottrina riconosceva copertura costituzionale al principio dello sviluppo sostenibile attraverso un’interpretazione evolutiva della clausola della “utilità sociale”, oppure degli artt. 9, comma 2°, 3, comma 2°, 2 e 4, comma 2° della Costituzione: sul punto v. M. Pennasilico, La “sostenibilità ambientale” nella dimensione civil-costituzionale: verso un diritto dello sviluppo “umano ed ecologico”, in Rivista quadrimestrale di Diritto dell’Ambiente, 2020, 22. La giurisprudenza, invece, tutelava l’ambiente in quanto oggetto di un diritto soggettivo – quello a vivere in un ambiente salubre – il cui contenuto era stato enucleato a partire da un’interpretazione estensiva degli artt. 2, 3 e 32 Cost. (ex multis Cass. civ., Sez. Un., n. 5172 del 6 ottobre 1979; Corte cost. n. 210 del 22 maggio 1987 e, da ultimo, n. 85 del 9 maggio 2013).

[30] Si tratta degli stessi principi su cui è fondata la politica dell’Unione europea in materia ambientale, elencati all’art. 191, par. 2, TFUE (che, giova ricordarlo, vincolavano comunque il legislatore domestico per effetto dell’art. 117, comma 1°, Cost.). In argomento P. Dell’Anno, Principi del diritto ambientale europeo e nazionale, Milano, 2004; F. Fracchia, Principi di diritto ambientale e sviluppo sostenibile, in Trattato di diritto dell’ambiente, vol. I, P. Dell’Anno – E. Picozza (diretto da), Padova, 2012, 559; Id., Lo sviluppo sostenibile, Napoli, 2010, 247, secondo cui «lo sviluppo sostenibile è la “chiave di volta” del diritto ambientale, in quanto ne riflette il carattere essenziale (e, cioè, la matrice di doverosità e il vincolo posto in capo alle generazioni attuali a garanzia di quelle future, che si configura come l’unico strumento realistico per garantire gli interessi della specie umana)».

[31] Questo, almeno, è quel che si evince dal Settimo Programma d’azione, presentato il 29 novembre 2012 dalla Commissione europea e significativamente intitolato “Vivere bene, entro i limiti del nostro pianeta”, in cui si legge che «il degrado e l’erosione costanti del capitale naturale rischiano di provocare cambiamenti irreversibili che potrebbero mettere a repentaglio due secoli di miglioramenti del nostro standard di vita». Nella prospettiva dell’Ecological Economics, questa situazione viene riassunta affermando che il capitale naturale, essendo complementare rispetto al capitale prodotto dall’uomo, è un fattore di produzione non fungibile. Secondo i fautori della teoria economica della c.d. sostenibilità forte, ne discende che il capitale naturale e il capitale prodotto dall’uomo devono presentare singolarmente, e non già a livello aggregato, un tasso di crescita positivo o tuttalpiù nullo, poiché è la disponibilità dell’uno a determinare la produttività dell’altro, e che essendo il capitale naturale il più scarso dei due, esso è anche il fattore che limita lo sviluppo. In tema R. Goodland, The Case That the World Has Reached Limits: More Precisely That Current Throughput Growth in the Global Economy Cannot Be Sustained, in Population & Environment, 1992, 167; K.R Wetzel – J.F. Wetzel, Sizing the earth: Recognition of Economic Carrying Capacity, in Ecological Economics, 1995, 12; R. Costanza, The Value of the World Ecosystem Services and Natural Capital, in Nature, 1997, 253; R. Costanza – H.E. Daly, Natural Capital and Sustainable Development, in Conservation Biology, 1992, 37; H.E. Daly, Toward Some Operational Principles of Sustainable Development, in Ecological Economics, 1990, 6; Id., Towards an Environmental Macroeconomics, in Land Economics, 1991, 255; Id., Beyond Growth: The Economics of Sustainable Development, Boston, 1996; R. Goodland – H.E. Daly, The Missing Tools (for Sustainability), in Planet Under Stress: the Challenge of Global Change, C. Mungall – D.J. McLaren (a cura di), Toronto, 1990, 269; Iid., Environmental Sustainability: Universal and Non-Negotiable, in Ecological Applications, 1996, 1002.

[32] P. Dell’Anno, Il ruolo dei principi del diritto ambientale europeo: norma d’azione o di relazione?, in La forza normativa dei principi (il contributo del diritto ambientale alla teoria generale), D. Amirante (a cura di), Padova, 2006, 117.

[33] In questo senso G. Morbidelli, Profili giurisdizionali e giustiziali nella tutela amministrativa dell’ambiente, in Ambiente e diritto, S. Grassi – M. Cecchetti – A. Andronio (a cura di), Firenze, 1999, 90; F. Fracchia, Introduzione allo studio del diritto dell’ambiente, Napoli, 2013, 118; Id., Lo sviluppo sostenibile, Napoli, 2010, 247, secondo cui «lo sviluppo sostenibile è la “chiave di volta” del diritto ambientale, in quanto ne riflette il carattere essenziale (e, cioè, la matrice di doverosità e il vincolo posto in capo alle generazioni attuali a garanzia di quelle future, che si configura come l’unico strumento realistico per garantire gli interessi della specie umana)»; R. Leonardi, op. cit., 54, considera il principio dello sviluppo sostenibile «punto di incontro tra ambiente e salute proprio perché la protezione dell’ambiente, nelle sue varie componenti, è stata riconosciuta come condizione necessaria alla stessa sopravvivenza del genere umano. L’idea di sviluppo sostenibile, infatti, ancorché forse non intervenga sull’idea di ambiente in modo diretto, ne determina sicuramente la rilevanza, concependo proprio la tutela dell’ambiente, nella sua dinamicità, come termine dell’equilibrio intergenerazionale insieme alla crescita economica e alla coesione sociale».

[34] V. Barral, Sustainable Development in International Law: Nature and Operation of an Evolutive Legal Norm, in European Journal of International Law, 2012, 377.

[35] G. D’Amico, Problemi (e limiti) dell’applicazione diretta dei principi costituzionali nei rapporti di diritto privato, in Giust. civ., 2016, 448.

[36] Ovvero l’operazione con cui l’interprete, scelto un certo parametro di giudizio, determina il significato del termine valutativo e ne risolve l’indeterminatezza semantica: cfr. V. Velluzzi, Le clausole generali. Semantica e politica del diritto, Milano, 2010, 55 ss. e, spec., 63 e, per quanto riguarda la questione dell’indeterminatezza semantica, L. Lombardi Vallauri, Norme vaghe e teoria generale del diritto, in Ars interpretandi, 1998, 155.

[37] Questa peculiarità non caratterizza soltanto i principi generali, ma anche altre tecniche di normazione, come quella per concetti indeterminati o interpretativi e per clausole generali. In questa sede non è possibile affrontare la complessa questione del rapporto che intercorre tra principi del diritto e clausole generali (per tali intendendosi quei «termini o sintagmi di natura valutativa caratterizzati da indeterminatezza, per cui il significato di tali termini o sintagmi non è determinabile se non facendo riferimento a criteri, parametri di giudizio, interni e/o esterni al diritto, tra loro potenzialmente concorrenti», così V. Velluzzi, op. cit., 78) e tra queste ultime e i concetti interpretativi (per tali intendendosi quei concetti che dipendono dal riferimento a valori, come chiarito da R. Dworkin, Justice in Robes, Cambridge, 2006, trad. it. a cura di S.F. Magni, Roma-Bari, 2010, 10). Per quanto riguarda il primo profilo, si rinvia a V. Velluzzi, op. cit., 74 e C. Luzzati, Clausole generali e principi, oltre la prospettiva civilistica, in Principi e clausole generali nell’evoluzione dell’ordinamento giuridico, G. D’Amico (a cura di), Milano, 2017, 15. Sul rapporto fra clausole generali e concetti indeterminati si vedano F. Di Marzio, Ringiovanire il diritto? Spunti su concetti indeterminati e clausole generali, ivi, 117, nonché M. Libertini, Clausole generali, norme di principio, norme a contenuto indeterminato. Una proposta di distinzione, in Riv. critica dir. priv., 2011, 345.

[38] Si pensi ai criteri di vaglio tecnico che, ai sensi del Reg. (UE) n. 2020/852 del 18 giugno 2020 relativo all’istituzione di un quadro che favorisce gli investimenti sostenibili, devono essere fissati dalla Commissione europea per ciascun settore della c.d. tassonomia europea: si tratta di criteri preferibilmente quantitativi, basati su prove scientifiche e calibrati sulla natura e sulle dimensioni dell’attività economica, che servono ad acclarare se un’attività economica dia un contributo sostanziale al raggiungimento di uno degli obiettivi ambientali indicati dall’art. 6 e, nel contempo, che non arrechi un danno significativo a nessuno di essi. Ad oggi sono stati fissati i criteri relativi alla mitigazione e all’adattamento ai cambiamenti climatici nei settori energetico, manifatturiero, dei trasporti e delle costruzioni, contenuti nel Reg. (UE) n. 2139/2021 del 4 giugno 2021.

[39] Nella vasta letteratura in tema di clausole generali è imprescindibile il rinvio a A. Di Majo, Clausole generali e diritto delle obbligazioni, in Riv. critica dir. priv., 1984, 582; L. Mengoni, Spunti per una teoria delle clausole generali, in Riv. Critica dir. priv., 1986, 11, secondo cui «le clausole generali sono norme incomplete, frammenti di norme; non hanno una propria autonoma fattispecie, essendo destinate a concretizzarsi nell’ambito di programmi normativi di altre disposizioni»; C. Castronovo, L’avventura delle clausole generali, ibidem, 27; S. Rodotà, Il tempo delle clausole generali, ibidem, 709; P. Rescigno, Appunti sulle «clausole generali», in Riv. dir. comm., 1988, 1; A. Belvedere, Le clausole generali tra interpretazione e produzione di norme, in Politica del diritto, 1988, 632; G. D’Amico, Note in tema di clausole generali, in In Iure Praesentia, 1989, 426.

[40] Questa icastica espressione è stata utilizzata dal Prof. Vito Velluzzi nel corso della relazione “Semantica e politica del diritto delle clausole generali” svolta il 2 dicembre 2022 nell’ambito dell’8° Convegno Associativo ADDE, dedicato a “Le clausole generali nel diritto dell’economia”.

[41] In tema si rinvia, anche per ulteriori riferimenti bibliografici, a P. Femia, «Drittwirkung», principi costituzionali e rapporti fra privati. Un percorso nella dottrina tedesca, Napoli 2018, ove ampi riferimenti bibliografici. In tema v. anche E. Navarretta, Complessità dell’argomentazione per principi nel sistema attuale delle fonti di diritto privato, in Riv. dir. civ., 2001, 779; Ead., Costituzione, Europa e diritto privato. Effettività e Drittwirkung ripensando la complessità, Torino, 2017; C. Camardi, Il diritto privato tra regole e principi. Uno sguardo sulla complessità giuridica, a partire da un volume recente, in Osservatorio del diritto civile e commerciale, 2019, 115; Ead., Brevi riflessioni sull’argomentazione per principi nel diritto privato, in Riv. dir. civ., 2017, 1130; A. Zoppini, Il diritto privato e le «libertà fondamentali» dell’Unione europea (principi e problemi della Drittwirkung nel mercato unico), in Riv. dir. civ., 2016, 712; F. Piraino, Buona fede, ragionevolezza e “efficacia immediata” dei principi, Napoli, 2017.

[42] G. D’Amico, Problemi (e limiti) dell’applicazione diretta dei principi costituzionali nei rapporti di diritto privato, cit., 448.

[43] C. Camardi, Brevi riflessioni sull’argomentazione per principi nel diritto privato, cit., 1134.

[44] Cfr. M. Pennasilico, La sostenibilità ambientale nella dimensione civil-costituzionale, cit., 27. Nel senso della diretta applicabilità delle norme costituzionali si veda, per tutti, P. Perlingieri, Norme costituzionali e rapporti di diritto civile, in Rass. dir. civ., 1980, 119; Id., Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italo-comunitario delle fonti, Napoli, 2005, 334.

[45] M. Pennasilico, Dal «controllo» alla «conformazione» dei contratti: itinerari della meritevolezza, in Contr. Impr, 2020, 844; Id., La sostenibilità ambientale nella dimensione civil-costituzionale, cit., 29; P. Perlingieri, «Controllo» e «conformazione» degli atti di autonomia negoziale, in Rass. dir. civ., 2017, 211; Id., Persona, ambiente, sviluppo, in Contratto e ambiente, M. Pennasilico (a cura di), Napoli, 2016, 325; A. Jannarelli, Principi ambientali e conformazione dell’autonomia negoziale, ivi, 19.

[46] E. Betti, voce Causa del negozio giuridico, in Noviss. Dig. it., III, Torino, 1957, 33 (e, per una ricostruzione storica, G.B. Ferri, Il Codice civile italiano del 1942 e l’ideologia corporativa fascista, in Eur. dir. priv., 2021, 319).

[47] G.B. Ferri, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, Milano, 1968, 359; Id., Meritevolezza dell’interesse e utilità sociale, in Riv. dir. comm., 1971, 81; Id., Ancora in tema di meritevolezza dell’interesse, in Riv. dir. comm., 1979, 1; Id., Motivi, presupposizione e l’idea di meritevolezza, in Eur. dir. priv., 2009, 366; nella letteratura più recente F. Piraino, voce Meritevolezza degli interessi, in Enc. dir., I tematici, vol. I, Contratto, G. D’Amico (a cura di), Milano, 2021, 667; M. Costanza, Meritevolezza degli interessi ed equilibrio contrattuale, in Contr. Impr., 1987, 423; A. Guarneri, Meritevolezza dell’interesse e utilità sociale del contratto, in Riv. dir. civ., 1994, 814; Id., voce Meritevolezza dell’interesse, in Dig. dir. priv., Sez. civ., vol. XI, Torino, 1994, 329; A. Gentili, La meritevolezza di tutela: da E. Betti ad oggi, in Storia, metodo, cultura, 2022, 283; A.M. Garofalo, Il giudizio di meritevolezza oggi (dialogando con A. Gentili), ivi, p. 325.

[48] G.B. Ferri, voce Ordine pubblico, in Enc. dir., vol. XXX, Milano, 1980, 1043 ritiene che «norme imperative, buon costume e ordine pubblico, costituendo i limiti da non superare, rappresentano anche i criteri per valutare la meritevolezza dell’interesse. Rispetto al comma 2° dell’art. 1322 c.c., l’ordine pubblico è dunque chiamato a svolgere quella stessa funzione “negativa” (di limite, appunto) in cui lo richiamano sia il comma 1° dell’art. 1322 c.c., sia il sistema ad esso collegato, della liceità e dell’invalidità».

[49] U. Breccia, Causa, in Tratt. Bessone, vol. III, Torino, 1999, 97.

[50] A conclusioni non dissimili giunge C. Irti, Gli “appalti verdi” tra pubblico e privato, in Contr. Impr. Eur., 2017, 204.

[51] Cfr. Corte cost., 9 maggio 2013, n. 85.

[52] A. D’Adda, Il contratto tra regole e principi, in Pactum, 2022, 32.

[53] G. D’Amico, Applicazione diretta dei principi costituzionali e integrazione del contratto, in Giust. Civ., 2015, 253.

[54] C. Castronovo, La responsabilità precontrattuale, in Manuale di diritto privato europeo, vol. II, C. Castronovo – S. Mazzamuto (a cura di), Milano, 2007, 343; G. D’Amico, La responsabilità precontrattuale, in Trattato del contratto, vol. II, V. Roppo (a cura di), Milano, 2006, 1004.

[55] M. Luciani, L’iniziativa economica privata nella giurisprudenza costituzionale, Roma, 1981; Id., La produzione economica privata nel sistema costituzionale, Padova, 1983, spec. 131; Id., voce Economia nel diritto costituzionale, in Dig. pubbl., vol. V, Torino, 1990, 375.

[56] M. Libertini, Economia sociale di mercato e responsabilità sociale dell’impresa, in Orizzonti, 2013, 1; P. Sirena, Il diritto dei contratti nello spazio giuridico europeo, in Le “libertà fondamentali” dell’Unione europea e il diritto privato, F. Mezzanotte (a cura di), Roma, 2016, 125; Id., Diritto privato e diritto pubblico in una società basata sulle libertà individuali, in Il declino della distinzione tra diritto pubblico e diritto privato, G.A. Benacchio – M. Graziadei (a cura di), Trento, 2016, 343; S. Mazzamuto, Libertà contrattuale e utilità sociale, in Eur. dir. priv., 2011, 365; C. Camardi, Integrazione giuridica europea e regolazione del mercato, in Eur. dir. priv. 2001, 727.

[57] Una dinamica per certi versi analoga si riscontra in materia di green public procurement, su cui v. C. Irti, op. cit., 205.

[58] A. Zoppini, Il diritto privato e le «libertà fondamentali» dell’Unione europea, cit., 730, rileva (seppur con riferimento, in quel caso, alle norme del Trattato) che a seguito di una loro efficacia orizzontale e diretta «potrebbe ritenersi irrimediabilmente vulnerata l’autonomia privata, in quanto compressa da una regola eteronoma non destinata di per sé a disciplinare un fatto di autonomia, né pensata per limitare il potere dei privati».

[59] S. Grassi, op. cit., 1612 e, in prospettiva più generale, E. Ginevra, Libertà d’impresa, autonomia privata e nuove direttrici per l’interprete, in Dialoghi di diritto dell’economia, 2023, 5.

[60] A. Ramasastry, Corporate Social Responsibility V. Business and Human Rights: Bridging the Gap Between Responsibility and Accountability, in Journal of Human Rights, 2015, 237.

[61] C. Mak, Corporate sustainability due diligence: More than ticking the boxes?, in Maastricht Journal of European and Comparative Law, 2022, 301; C. Corvese, La sostenibilità ambientale e sociale delle società nella proposta di Corporate Sustainability Due Diligence Directive (dalla «insostenibile leggerezza» dello scopo sociale alla «obbligatoria sostenibilità» della Due Diligence), in Banca imp. soc., 2022, 391, ove ulteriori riferimenti bibliografici.

[62] In tema si veda C. Macchi, Business, Human Rights and the Environment: The Evolving Agenda, L’Aia, 2022.

[63] M. Rescigno, «Sostenibilità»: una nuova clausola generale nelle regole dell’esercizio dell’attività di impresa?, in R. Sacchi (a cura di), Il ruolo delle clausole generali in una prospettiva multidisciplinare, Milano, 2021, 431. Al riguardo, si pensi all’impianto argomentativo dell’azione recentemente intentata dall’organizzazione ClientEarth, con il supporto di vari investitori istituzionali, contro i membri del Consiglio di Amministrazione di Shell, accusati di aver adottato misure inadeguate a conseguire la riduzione di emissioni necessaria in vista della transizione energetica in violazione dell’obbligo di gestire i rischi a cui la società è esposta, con il pericolo di comprometterne la competitività nel mercato dell’energia e, pertanto, la redditività del valore delle relative azioni.

[64] Così R. Korn, Tutela ambientale, consumatori e responsabilità sociale d’impresa: i nuovi strumenti della sostenibilità aziendale, in Contr. Impr. Eur., 2012, 695.

[65] In tema si vedano le riflessioni di G.B. Portale, La Corporate Social Responsibility alla ricerca di effettività, in Banca borsa tit. cred., I, 2022, 947 nonché, in senso critico, di L. Bebchuck – R. Tallarita, The Illusory Promise of Stakeholder Governance, in Cornell Law Review, 2020, 91 e B. Sjåfjell – J. Mähönen, Corporate Purpose and the Misleading Shareholder vs Stakeholder Dichotomy, in Bond Law Review, 2022, 69.

[66] In tema P.K. Andersen et al., Response to the Study on Directors’ Duties and Sustainable Corporate Governance by Nordic Company Law Scholars (October 7, 2020), in Nordic & European Company Law Working Paper No. 20-12; B. Sjåfjell – M.B. Taylor, Clash of Norms: Shareholder Primacy vs. Sustainable Corporate Purpose, in International and Comparative Corporate Law Journal, 2019, 40.

[67] F. Sartori, Ideologie e tecniche della (ri)codificazione del diritto privato, in Cardozo L. Rev., 2019, 1; R. Natoli, Attualità del binomio «reintegrazione del diritto – risarcimento del danno»: il principio di precauzione nel diritto privato, in Riv. dir. banc., 2020, 71.

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