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Editoriali

SREP 2019: i business model delle banche al centro delle valutazioni della Vigilanza

17 Febbraio 2020

Mario Comana

Professore Ordinario di Economia degli intermediari finanziari, Università LUISS Guido Carli di Roma

Di cosa si parla in questo articolo

L’esito degli SREP del 2019 pubblicato il 28 gennaio dalla BCE è stato commentato soprattutto nella prospettiva delle singole banche: chi si è visto aumentare il buffer di capitale e chi lo ha visto alleggerire, e nella prospettiva geografica: le banche italiane verso quelle di altri Paesi. Io credo che la lettura più interessante sia invece quella per business model, specialmente perché questa volta le conclusioni della vigilanza europea individuano nella sostenibilità dei modelli uno dei punti chiave da considerare per il prossimo futuro.

L’esito complessivo degli SREP 2019 può dirsi complessivamente soddisfacente, avendo evidenziato un livello di requisiti di capitale allineato a quello dell’anno precedente. Sottostante a questa situazione d’insieme, ci sono però le due maggiori preoccupazioni della vigilanza: la sostenibilità dei business model, come detto, e la governance, ritenuta non adeguatamente efficace, debole nei controlli interni, con scarsa capacità di aggregazione e gestione dei dati e limitata nella capacità di realizzare soluzioni di outsourcing. Di segno positivo invece l’andamento degli NPL’s, rispetto ai quali la BCE si prende il merito di averli sostanzialmente dimezzati da quando ha assunto la responsabilità della vigilanza europea nel 2014.

Se andiamo a vedere lo spaccato per business model dei requisiti complessivi di capitale, anche al netto delle componenti anticiclica e sistemica, emerge immediatamente quali si collocano al di sopra o al di sotto del livello medio. Può sorprendere che sia richiesto il maggior requisito di capitale alle banche specializzate nell’asset management, che per loro natura dovrebbero essere esposti a rischi più contenuti. Per converso, suscita ancora una volta qualche perplessità il fatto che le banche universali, soprattutto quelle di maggiori dimensioni, esprimano un fabbisogno di capitale inferiore alla media, mentre sappiamo che si tratta di intermediari attivi nel global market che comporta l’esposizione a rischi considerevoli, per esempio per la strutturazione dei derivati. Le banche retail, soprattutto quelle di piccole dimensioni, richiedono una dotazione di mezzi propri intorno al valore centrale.

Intanto è bene ricordare che il capitale complessivo interno è la somma dei requisiti derivanti dai rischi di ogni tipologia riscontrati presso il singolo intermediario e tradotti in fabbisogno di copertura mediante l’applicazione delle regole di Basilea. Non è quindi il grado di capitalizzazione misurato in base all’attuale dotazione di mezzi propri disponibili presso la banca. E infatti la differenza fra questi due aggregati (quando la banca deve avere e quanto effettivamente ha) rappresenta il free capital, l’eccesso (si spera!) delle riserve detenute rispetto a quelle calcolate in base alla normativa. Ma è proprio su questo che vogliamo ragionare: perché lo svolgimento dell’attività tradizionale di banca commerciale, per esempio quella delle banche del territorio, richiede una protezione patrimoniale superiore ad altri comparti di attività, come l’investment banking?

Ci sono alcuni elementi che concorrono a spiegare la situazione: la struttura della governance dei rischi; la redditività; il rischio di credito. Sotto il primo profilo emerge che tendenzialmente le banche più grandi sono meglio attrezzate in termini organizzativi e procedurali e questo assicura un presidio dei rischi più efficace. Laddove le strutture operative sono meno vaste, con skill professionali non altrettanto qualificati occorre accresce la capacità di assorbire l’avverarsi di rischi negativi con il patrimonio. Il secondo elemento che si desume dall’esito degli SREP 2019 è che la redditività costituisce un elemento di criticità e di incertezza per la sostenibilità nel tempo dei diversi modelli di business. Infatti, si legge nel comunicato della Bce, “la maggior parte delle significant institutions sono sotto il loro costo del capitale, ciò che compromette la capacità di generare capitale; l’attenzione del supervisore è focalizzata sulla futura resilienza e sostenibilità del loro business model e questi aspetti sono considerati nella valutazione ai fini dello SREP”. Tuttavia se si guarda ai punteggi attribuiti al rischio di modello di business per categorie di banche, si vede che le banche significative a livello globale si collocano prevalentemente nella classe 2 mentre le banche attive nell’asset management e nel custody hanno il maggior numero di elementi in classe 4 (la peggiore). Questo appare un po’ contraddittorio rispetto al quadro che veniva delineandosi sulla base degli elementi più generali e forse attiene al fatto che all’interno di questo gruppo i modelli di business sono maggiormente diversificati ed essendo l’analisi svolta a livello individuale può verificarsi una maggiore dispersione dei risultati. Rimane il fatto che la Bce esprime preoccupazione per la sostenibilità del modello di business di molte banche. Relativamente a quelle che svolgono attività commerciale su scala ridotta (small domestic retail lenders) patiscono fortemente e in misura crescente le difficoltà connesse con la politica dei bassi tassi di interesse, destinata probabilmente a perdurare ancora qualche tempo. Peraltro, il resoconto sugli SREP dà conto anche delle difficoltà di incrementare l’efficienza soprattutto dal lato del contenimento dei costi, imputando il basso livello di efficienza alla sovracapacità produttiva del settore bancario nell’Area Euro. Per le banche che operano con altri modelli, la perplessità della vigilanza è probabilmente riconducibile alla necessità di ricorrere all’assunzione di rischi finanziari superiori per ottenere quei proventi che la gestione ordinaria non produce a motivo ancora del basso livello dei tassi di interesse.

Infine c’è il tema del rischio di credito. Questo vede ancora una volta penalizzate le banche commerciali e la ragione è palesemente riconducibile all’insufficiente riduzione degli NPL’s. Si è detto in apertura che la Bce sottolinea positivamente la riduzione dello stock a circa la metà negli ultimi anni, ma continua a giudicare insufficiente il processo di smaltimento soprattutto presso le piccole banche domestiche. È noto che i crediti deteriorati si sono accumulati in misura superiore in questa categoria di banche non per una minore capacità di selezione del credito ma per la lentezza dei processi di recupero e soprattutto per aver impostato più tardi e con meno efficacia le azioni per la loro cessione.

Quali conclusioni si possono trarre da questa disamina? Intanto permane il dubbio che il sistema di misurazione dei rischi Basilea compliant non catturi pienamente quelli insiti negli strumenti finanziari più complessi, che albergano soprattutto nei bilanci delle grandi banche universali. È probabile che la stessa Bce ne sia consapevole e infatti abbiamo osservato una maggiore attenzione al processo di controllo e alla complessiva organizzazione del sistema di governo dei rischi. Ciò nonostante è difficile sfuggire alla sensazione che vi sia un certo sbilanciamento fra il peso dei rischi finanziari e di quelli creditizi, i quali ultimi sono più evidenti, più facili da evidenziare e da quantificare e più difficili da occultare. Con il risultato di penalizzare le banche che operano con un modello di business più tradizionale.

In relazione a questo si deve anche sottolineare quanto la Bce osserva in questo rapporto circa il grado di efficienza operativa delle banche. L’idea di fondo, coerente con quanto espresso in molte altre occasioni da Francoforte, è la necessità di un recupero di efficienza attraverso la contrazione della capacità produttiva. Ciò è associato anche all’evoluzione del modello di fruizione dei servizi bancari sempre più telematico e meno fisico. Questa tendenza è certamente vera e consentirà una razionalizzazione dei costi. Ma non possiamo pensare a una scomparsa del banking tradizionale, soppiantato completamente da transazioni online. È più ragionevole aspettarsi una ricomposizione dei ruoli, certamente a vantaggio di queste ultime e con un profilo temporale non così accelerato. Forse l’idea di cancellare, o quasi, il domestic retail banking è un’inopportuna fuga in avanti.

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