La società contribuente ricorreva avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale che confermava la sentenza di primo grado nell’ambito di una controversia avente ad oggetto un avviso di accertamento relativo ad una operazione di prestito di azioni (stock lending).
Detto contratto consiste nel prestito di titoli da parte del mutuante(lender), contro il pagamento di una commissione (fee) da parte del mutuatario (borrower) e contestuale costituzione, da parte di questi, di una garanzia dell’obbligo di restituzione dei titoli ricevuti, rappresentata da denaro o da altri titoli di valore complessivamente superiore a quello dei titoli ricevuti in prestito (collaterale).
L’Agenzia delle Entrate emetteva un avviso di accertamento nei confronti della società borrower,contestando che tale operazione fosse finalizzata ad ottenere un duplice vantaggio fiscale: la variazione in diminuzione del risultato economico derivante dall’esclusione da tassazione, ex art. 89 del d.P.R. 22 dicembre 1986 n. 917, dei redditi di partecipazione in società nella misura del 95 per cento e la deducibilità dall’imponibile Ires dei costi sostenuti per il pagamento della commissione a favore del soggetto lender, di misurasostanzialmente equivalente ai dividendi ricevuti.
I giudici di appello ritenevano, innanzitutto, conformandosi alla tesi sostenuta dall’Amministrazione finanziaria, che,data la commisurazione della commissione annuale ai dividendi provenienti dai tioli in prestito, il contratto fosse da qualificarsi come contratto atipico a carattere aleatorio, in quanto basato sul verificarsi o meno di un evento incerto individuato nella distribuzione dei dividendi sui titoli in prestito, e non un contratto di mutuo, come diversamente sostenuto dalla società borrower.
. Essendo l’ottenimento di vantaggi fiscali la vera causa del contratto sottoscritto, quest’ultimo risulta essere nullo, appunto, per mancanza di causa, non potendosi peraltro individuare alcun elemento di aleatorietà nella distribuzione dei dividendi da parte di una società della quale il lender poteva prevederne i risultati di gestione (i titoli in prestito erano riconducibili ad una società detenuta al 100% , ed il perfezionamento del contratto di prestito titoli si era verificato immediatamente prima della chiusura dell’esercizio della controllata).
Per quanto di interesse, la ricorrente deduceva la violazione e falsa applicazione del Regolamento n. 1553/89/CE del Consiglio del 29 maggio 1989, nonché degli artt. 37-bis, 39, 42 del D.P.R. 20 settembre 1973, n. 600, dell’art. 10, comma 3 della l. 27 luglio 2000, n. 212 e degli artt. 1325, 1343, 1344 e 1345 c.c. e 12 delle preleggi, sostenendo che la violazione delle disposizioni di carattere fiscale non comporta mai la nullità del contratto posto in essere dal contribuente, in quanto l’Amministrazione finanziaria, per eccepire l’inopponibilità degli effetti di tale contratto, è tenuta altresì a dimostrare l’aggiramento di specifici divieti ed obblighi tributati, nonché il conseguimento di un vantaggio fiscale indebito perché ottenuto in elusione di tali divieti ed obblighi.
Inoltre, la ricorrente denunciava anche la violazione e falsa applicazione degli artt. 1325, 1343, 1344, 1345, 1362, 1367, 1414, 1418, 1814, 1815 e 1933 c.c. per aver i giudici di secondo grado, interpretando il contratto in modo difforme alla comune intenzione delle parti, negato di poterlo sussumere nella tipologia del mutuo ex. art. 1815 c.c., e ritenuto configurare, invece, un contratto atipico a carattere aleatorio.
La ricorrente affermava che la circostanza che la commissione annuale fosse commisurata ai dividendi percepiti dai titoli in prestito non mutava, di per sé, la natura del contratto da quella tipica di prestito di azioni a quella atipica di scommessa, essendo ben possibile nel contratto di mutuo la pattuizione di un corrispettivo non prefissato, ma variabile.
A parere della Suprema Corte di Cassazione tali motivi di ricorso sono da ritenersi infondati, ma in virtù di una diversa motivazione rispetto ai giudici di merito.
La Corte ricorda che, come ha già avuto modo di rilevare in fattispecie analoga a quella in esame,(Cfr. Cass. 11872/2017) risulta del tutto irrilevante ricondurre la fattispecie in esame a figure negoziali nulle sotto il profilo civilistico […], poiché l’operazione, da inquadrarsi nel contratto di stock lending di cui si è detto, è piuttosto finalizzata a consentire l’applicazione ai dividendi del citato art. 89 del TUIR, con conseguente concorso alla formazione dell’imponibile nella sola misura del 5 per cento degli utili, ed a realizzare un indebito risparmio di imposta discendente dalla integrale deduzione dei costi di commissione, in violazione dell’art. 109, comma 8, del d.P.R. n. 917 del 1986, ratione temporis applicabile, con conseguente variazione dell’imponibile IRES, che costituisce l’autentico fondamento del recupero a tassazione.
I giudici di legittimità, pertanto, ribadendo che l’operazione di stock lending realizza il medesimo fenomeno economico dell’usufrutto di azioni, affermano l’indeducibilità del costo di commissione in virtù dei limiti previsti dall’art. 109, comma 8, il quale dispone che non è deducibile il costo sostenuto per l’acquisto del diritto d’usufrutto o altro diritto analogo relativamente ad una partecipazione societaria da cui derivino utili esclusi ai sensi dell’articolo 89.
Non si tratterebbe di interpretazione (impropria) estensiva, perché la disposizione fa riferimento a diritti analoghi, tra cui possono annoverarsi quelli derivanti dal prestito di titoli.
La Corte, dunque, individua un parallelismo tra la deducibilità del costo dell’usufrutto su azioni e l’imponibilità dei dividendi derivanti dalla sottostante partecipazione e rigetta le contrarie argomentazioni del ricorrente circa la deducibilità ex art. 109, comma quinto del TUIR, in ragione di una più generica correlazione tra onere sostenuto e ricavi o proventi concorrenti o esclusi dalla formazione del reddito.