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Giurisprudenza

Stock options: criteri di inclusione nel reddito di lavoro dipendente

1 Marzo 2021

Luca Cicozzetti, Avvocato, Studio Legale Tributario EY

Cassazione Civile, Sez. V, 27 ottobre 2020, n. 23504 – Pres. Locatelli, Rel. Federici

Di cosa si parla in questo articolo

Nell’ambito di un piano di stock options conferite ad un dipendente, in applicazione dell’articolo 51, commi 1, lettera g-bis) e 2-bis del TUIR, applicabili ratione temporis, la differenza tra il valore delle azioni al momento della loro assegnazione (con contestuale cessione a terzi), e l’ammontare corrisposto dal dipendente stesso per l’esercizio del diritto di opzione concorreva a formare il reddito di lavoro dipendente imponibile assoggettabile aliquote ordinarie applicabili.

Nel caso di specie, il contribuente impugnava il silenzio rifiuto opposto dall’Agenzia delle Entrate alla richiesta di rimborso delle ritenute alla fonte eseguite dalla società di cui era dipendente, per la tassazione di operazioni di assegnazione di azioni a seguito dell’esercizio di una stock option.

La vicenda traeva origine dall’acquisizione da parte del dipendente, nel 2004, di diritti di opzione, non cedibili, per l’acquisto di azioni della controllante lussemburghese della società per la quale lavorava, al prezzo corrispondente al valore delle azioni al momento dell’offerta della stock option, con possibilità di esercizio del suddetto diritto ad una scadenza determinata.

Il contribuente provvedeva a rivalutare il valore delle azioni opzionabili nel 2005; successivamente, nel 2006 esercitava l’opzione, vendendo contestualmente le partecipazioni ad un prezzo pari al valore nominale degli strumenti partecipativi in quel momento, ben superiore a quello rivalutato.

Il datore di lavoro assoggettava l’operazione al regime fiscale più rigoroso vigente a quella data, non riscontrandosi i nuovi requisiti per l’esclusione dal reddito previsti dall’articolo 51, comma 2-bis, novellato dal D.L. n. 262/2006, con conseguente applicazione dell’aliquota ordinaria IRPEF al reddito di lavoro dipendente del contribuente.

Le ritenute, versate poi all’Erario, erano operate sull’importo corrispondente alla differenza tra il valore delle azioni al momento del conseguimento della stock option, senza considerazione del valore rivalutato, e quello al momento dell’esercizio dell’opzione.

Il contribuente, in sede di giudizio, sosteneva da un lato, l’applicabilità del meno rigoroso regime fiscale antecedente – disciplinato dall’art. 51, co. 2, lett. g), del d.P.R. n. 917/1986 –, consistente nell’esenzione dalla tassazione della differenza di valore sopra esposta e, dall’altro, l’applicazione dell’aliquota del 12,50% sulla plusvalenza conseguita al momento della successiva cessione a terzi, quale capital gain.

La commissione provinciale rigettava il ricorso del contribuente, e questi adiva la commissione regionale, che accoglieva parzialmente l’appello, limitatamente all’assoggettabilità all’aliquota del 12,50% della plusvalenza, nella misura della differenza tra il prezzo di vendita ed il valore rivalutato delle partecipazioni.

Pertanto, l’Agenzia delle Entrate proponeva ricorso per Cassazione, sostenendo, per quanto di interesse, la violazione e falsa applicazione dell’articolo 51, commi 2 lettera g-bis) e 2-bis del TUIR, nell’avere il giudice d’appello ravvisato due distinte fattispecie impositive, quelle dell’acquisto delle azioni mediante l’esercizio del diritto di opzione e quello della rivendita dello stesso pacchetto azionario a terzi.

Questa distinzione, ad avviso della ricorrente, non sarebbe stata ravvisabile nella disciplina ratione temporis applicabile.

Tale assunto veniva condiviso dal Collegio di Legittimità adito che, con la pronuncia in commento, accoglieva il ricorso presentato dall’Amministrazione finanziaria.

Secondo il parere della Corte, infatti, il giudice regionale aveva erroneamente scisso le due operazioni, riconducendo nell’alveo delle plusvalenze i maggiori guadagni conseguiti dal contribuente con la cessione delle medesime azioni opzionate a terzi ed applicando a questi l’aliquota del 12,50%.

Tuttavia, le operazioni di esercizio del diritto di opzione, di acquisto delle azioni e di cessione delle stesse a terzi erano state contestuali.

I giudici di legittimità, richiamando un recente orientamento (cfr. Cass. n. 19393/2018), sottolineavano che in tema di IRPEF, l’art. 48, co. 2, lett. g-bis), del d.P.R. n. 917/1986 (successivamente art. 51 del TUIR), relativo ai criteri di tassazione delle stock options, prevedeva la regola generale dell’assoggettamento del valore conseguito dal lavoratore mediante l’esercizio del diritto di opzione al regime di imposizione ordinario previsto per i redditi di lavoro dipendente, salva l’esclusione dal reddito imponibile nell’ipotesi in cui al lavoratore stesso l’opzione fosse stata riconosciuta al valore corrente delle azioni al momento dell’offerta.

l legislatore, infatti, perseguiva l’obiettivo di evitare che, con l’attribuzione del diritto di opzione a prezzi inferiori al valore di mercato delle azioni, fossero corrisposti al dipendente compensi non soggetti a tassazione.

In generale, i regimi agevolativi che si sono succediti nel tempo, non hanno mai pregiudicato la riconduzione a tassazione ordinaria dei proventi generati dai piani di stock option; hanno bensì determinato alcuni regimi agevolativi, al fine di perseguire specifiche finalità, regimi fruibili dal dipendente al ricorrere di individuati requisiti.

Con la riforma intercorsa nel 2006, ai sensi del comma 2-bis dell’art. 51 del TUIR, dovevano ricorrere congiuntamente le seguenti condizioni per usufruire dell’agevolazione fiscale: che l’opzione fosse esercitabile non prima che fossero scaduti tre anni dalla sua attribuzione; che il beneficiario mantenesse, almeno per i cinque anni successivi all’esercizio dell’opzione, un investimento nei titoli oggetto di opzione non inferiore alla differenza tra il valore delle azioni al momento dell’assegnazione e l’ammontare corrisposto dal dipendente.

Tali condizioni, secondo il parere dei giudici di legittimità, non erano state rispettate dal contribuente.

Pertanto, risultava corretto il rifiuto da parte dell’Amministrazione finanziaria del rimborso d’imposta invocato dal contribuente, in quanto era stato correttamente tassato l’importo corrispondente alla differenza tra il valore delle azioni al momento della loro assegnazione con contestuale cessione a terzi, e l’ammontare corrisposto dal dipendente per l’esercizio del diritto di opzione.

Avendo il dipendente ceduto le azioni a terzi all’esatto valore di riscatto delle azioni, a giudizio della Suprema Corte non vi era, nel caso di specie, alcuna plusvalenza da tassare.

 

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