Con la pronuncia la Suprema Corte coglie l’occasione per delineare in maniera chiara i principi che regolano e risolvono le interferenze tra il procedimento fallimentare e il sequestro penale preventivo dei beni dell’impresa fallita.
Nel caso di specie, in particolare, la creditrice ricorrente era riuscita ad ottenere, da parte del Tribunale competente, la dichiarazione di fallimento di una società sua debitrice. La creditrice, tuttavia, era stata sottoposta a sequestro preventivo da parte del Tribunale, poiché il suo titolare, soggetto legato alla criminalità organizzata, risultava disporre di risorse finanziarie di cui non era riuscito a giustificare la provenienza. Anche la società fallita era stata a sua volta colpita da analogo sequestro, ma unicamente con riferimento al capitale sociale: la gestione delle quote sequestrate all’amministratore delegato, infatti, era stata affidata ad un amministratore giudiziario. Quest’ultimo, conseguentemente, aveva proposto ricorso per Cassazione contro la sentenza che aveva dichiarato il fallimento della società della quale egli gestiva le quote.
La Cassazione, anzitutto, fa chiarezza su quali siano le condizioni in base alle quali una società assoggettata ad amministrazione giudiziaria possa chiedere il proprio fallimento o il fallimento di un’altra società sua debitrice. Nello specifico, a parere della Corte, ad essere legittimato a presentare l’istanza è unicamente l’amministratore della società nominato dall’assemblea. L’amministratore giudiziario, pertanto, non deve proporre alcuna istanza, non essendo egli un contraddittore necessario: questi, infatti, avendo votato la nomina dell’amministratore delegato e, quindi, esercitato le facoltà derivanti dalle quote azionarie di cui è custode, ha fatto sì che fosse l’amministratore stesso ad avere la rappresentanza legale della società sequestrata. Ecco quindi che, tra i poteri dell’amministratore delegato, rientra anche quello di promuovere apposita richiesta per la dichiarazione di fallimento del debitore insolvente, richiesta per la quale, peraltro, non risultano necessari né uno specifico mandato dell’assemblea, né un ulteriore intervento dell’amministratore giudiziario, né l’autorizzazione del giudice delegato.
Per gli Ermellini, infatti, la dichiarazione di fallimento di un’impresa sottoposta a sequestro risulta legittima, ragion per cui il creditore, nel caso in cui il vincolo riguardi solo le quote sociali, può richiederla anche senza dare prova della propria buona fede, come previsto dal Codice Antimafia. Considerando infatti che il sequestro e la relativa confisca colpiscono unicamente il capitale sociale, ne consegue che il patrimonio aziendale risulterà libero da gravami e potrà essere destinato a soddisfare le pretese dei creditori, dovendosi in tal caso rispettare unicamente le disposizioni in materia fallimentare e non quelle di cui al Codice Antimafia.
La Suprema Corte, infine, ha precisato come lo stato di insolvenza di un’impresa sottoposta a misura di prevenzione debba essere accertato nella sua portata oggettiva, in base alle regole di cui all’art. 5 L. Fall. L’intervento della misura, infatti, non assume valenza esimente né rappresenta un factum principis che può precludere l’accertamento dell’incapacità dell’impresa di ripianare la propria esposizione debitoria.