Con la sentenza che qui si commenta, la Seconda Sezione del Tribunale di Milano offre pregevoli spunti di riflessione in merito ai rapporti tra le operazioni di scissione e l’ambito di applicazione dei reati di bancarotta.
Come si può leggere nelle motivazioni, il Tribunale esclude che tale operazione possa in prima battuta configurare l’ipotesi di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione ex art. 216 l.f.
Nell’escludere ogni natura distrattiva in capo all’operazione, la sentenza rileva infatti – si legge a p. 114 – che “difetta in radice la possibilità di intravedere nella scissione un atto dispositivo del patrimonio dell’impresa”.
Anche volendo prescindere dal mero dato letterale di cui all’art. 2506 c.c., nella scissione – a differenza dello scorporo, precisa la sentenza – “ad essere separato non è il patrimonio ma la stessa entità sociale (o, con parole più semplici, il contenitore e non il contenuto), che viene con ciò suddivisa in due realtà (nuove o preesistenti)”.
Del resto, la contropartita dell’operazione di scissione viene attribuita esclusivamente ai soci (che usualmente ricevono un numero di azioni della beneficiaria proporzionale a quelle possedute nella scissa), senza che vi sia alcuna norma civilistica (nulla dispone in tal senso l’art. 2506-bis c.c.) che imponga all’imprenditore che effettui una scissione, l’obbligo di attribuire alla beneficiaria un’eguale proporzione di attività e passività.
Se si argomentasse in senso contrario, infatti, ogni operazione di scissione sarebbe sempre finalizzata a conferire una porzione del patrimonio aziendale nell’ambito di finalità extra-imprenditoriali, finendo (di fatto) per censurare “non già alcune operazioni di scissione che, alla luce degli indici rammentati dalla Cassazione, si rivelino distrattive nel singolo caso ma l’Istituto in sé, per come previsto dal Legislatore” (p. 115).
Sempre in tal senso, prosegue la Seconda Sezione: “sul piano dell’offensività l’operazione di scissione si rivela aliena al paradigma distrattivo” (p. 116), dal momento che le norme civilistiche (artt. 2501-septies, 2502-bis, 2503, 2503-bis, 2504, 2505-ter, 2506-bis, 2506-ter, 2506-quater c.c.) prevedono una serie di tutele formali finalizzate a consentire la piena informazione del socio, dell’obbligazionista e dei creditori cosicché questi possano verificare la regolarità dell’operazione di scissione e presentare, se del caso, opposizione.
In particolare, i creditori della scissa possono, da un lato, opporsi alla scissione, qualora essa possa pregiudicare la possibilità di soddisfazione del credito, “rivolgendosi al Tribunale e arrestando il progetto, salvo che la società presti idonea garanzia ex art. 2445 u.c.” (p. 116).
Sotto altro versante, invece, i creditori possono, in ogni caso, rifarsi anche sul patrimonio della beneficiaria anche dopo la scissione, stante la solidarietà tra la scissa e la beneficiaria per le obbligazioni sorte prima della separazione.
In altre parole, “il complessivo ammontare del patrimonio (che costituisce garanzia generica per i creditori) resterebbe invariato, seppure contabilmente suddiviso in due società, tra loro solidalmente responsabili, di tal che o, all’epoca dell’operazione, il patrimonio della società si palesava adeguato a controbilanciare l’entità delle passività, cosicché l’operazione straordinaria non intacca minimamente detta congruità globale, ovvero lo stesso era insufficiente già allora e la scissione non muta i termini della questione” (p. 117).
In questo senso, nessun pregio riveste la (prevedibile) obiezione secondo cui “i creditori potranno trovarsi nella condizione di dover concorrere con i portatori di crediti nel frattempo maturatisi nei confronti delle società beneficiarie, con la concreta possibilità che tanto riduca le possibilità di un effettivo soddisfacimento delle loro pretese” (p. 117); in ogni caso, il creditore è esposto “agli commoda et incommoda derivanti dagli atti di gestione dell’impresa successivi al sorgere del credito”.
Parimenti, non può assumere rilevanza neppure la circostanza secondo cui “i creditori sarebbero onerati dalla ricerca dei beni della beneficiaria su cui soddisfarsi”; a tal proposito, è solo il caso di rilevare che “il creditore è sempre chiamato alle ricerche propedeutiche al pignoramento, anche rispetto ai beni della società con cui il credito è sorto”.
In conclusione, quindi, “la ricerca di un pericolo, anche astratto, per la garanzia dei creditori che sia direttamente ricollegabile all’in sé dell’operazione di scissione finisce per risultare vana: ci si deve arrendere alla constatazione che l’operazione, presa isolatamente, è per il ceto creditorio resa neutra dalle disposizioni previste dagli artt. 2506 e ss. c.c.” (p. 117).
Di conseguenza, non potendo inquadrare l’operazione di scissione nel novero delle condotte in sé e per sé distrattive, “risulta […] logicamente errato e foriero di un’eccessiva semplificazione probatorie ridurre il paradigma della bancarotta fraudolenta patrimoniale all’intenzione dell’agente di frodare i creditori” (p. 118).
Piuttosto, e qui si passa alla disamina dell’ipotesi di bancarotta impropria per causazione del fallimento mediante operazioni dolose ex art. 223 l.f., pare più conforme all’attuale assetto normativo valutare l’operazione di scissione non in sé e per sé ma all’interno e nell’ambito di una frode avente più ampio respiro.
In quest’ultima ipotesi, infatti, lungi dal rivestire assoluta irrilevanza penale, l’operazione potrebbe costituire l’antecedente logico e cronologico di successive condotte di bancarotta o l’atto conclusivo di una più ampia frode (cfr. p. 118) e, di conseguenza, potrebbe integrare gli estremi della fattispecie di bancarotta impropria ex art. 223 l.f., sotto un duplice profilo.
In primo luogo, puntualizza la sentenza, “perché è espressamente prevista […] l’ipotesi di cui agli artt. 223, comma 2 n. 1 l.fall. con riferimento all’ipotesi di cui all’art. 2629 c.c. (rubricata, appunto, “operazioni dolose in frode ai creditori”, la quale incrimina “gli amministratori che, in violazione delle disposizioni di legge a tutela dei creditori, effettuano riduzioni del capitale sociale o fusioni con altre società o scissioni, cagionando danno ai creditori” (p. 118).
Sotto altro versante, poi, “l’ipotesi paradigmatica di una creazione di una good company, cui attribuire i business remunerativi, e di una bad company, nella quale relegare gli asset affatto remunerativi e la gran parte dei debiti della società, risponderebbe al paradigma del cagionamento doloso del fallimento, laddove ovviamente la scissa non sia dotata dei mezzi per proseguire la propria attività o quantomeno per un’ordinata liquidazione. Ugualmente, nell’ipotesi in cui la scissione, ancorché corretta sotto il profilo formale, costituisca uno dei passaggi formali di una più complessa operazione, compiuta dagli amministratori con abuso dei poteri inerenti la carica e dannosa per il patrimonio sociale, e propedeutica, sul piano causale, al fallimento della scissa, sarà facile richiamarsi alla bancarotta per effetto di operazioni dolose” (p. 118).
In estrema sintesi, se da un lato, l’operazione di scissione non può di per sé rientrare nel paradigma della bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione, sotto altro versante questa potrà comunque integrare gli estremi del delitto di bancarotta impropria, a condizione che la scissione non venga in sé e per sé considerata ma si ponga in “uno stretto nesso di consequenzialità tra l’operazione fraudolenta di scissione e il successivo dissesto/fallimento” (pp. 118-119).