Il caso
La Corte di Cassazione – con due recenti sentenze, vale a dire la n. 4737 del 21 febbraio 2020 e la n. 11984 del 19 giugno 2020 – ha riconosciuto l’assoggettabilità a fallimento della società scissa, cancellata dal Registro delle Imprese per effetto della scissione totale (a condizione che ricorrano i requisiti soggettivi ed oggettivi di fallibilità della scissa medesima, nonchè i requisiti temporali di cui all’art. 10 l.f.)[1].
La soluzione a cui perviene la Suprema Corte trova fondamento nel principio secondo cui “nel vigente sistema normativo, un fenomeno di riorganizzazione societario – quale, tra gli altri, è la scissione – (…) non può, come principio, realizzare una causa di sottrazione dell’impresa dalla soggezione alle procedure concorsuali”.
Le questioni giuridiche
Per giungere ad una simile conclusione la Corte di Cassazione ha sviluppato articolati passaggi argomentativi, invero non sempre del tutto lineari.
La Corte Regolatrice ha, anzitutto, dovuto affrontare la questione, assai dibattuta, attinente alla natura dell’operazione di scissione, ossia se – come sostenuto dalle ricorrenti – la stessa dia luogo ad un fenomeno meramente evolutivo e modificativo del contratto sociale, con conseguente fallibilità delle sole società beneficiarie nelle quali continuerebbe la scissa; ovvero ad un fenomeno successorio ed estintivo del soggetto che effettua la scissione, con conseguente applicabilità alla società scissa dell’art. 10 l.f.
Sul punto la Corte, senza entrare pienamente nel merito della questione, ha piuttosto chiarito che il tema dell’assoggettabilità a fallimento della società scissa non attiene propriamente al piano dell’organizzazione societaria, bensì a quello dell’operatività dell’impresa e dei suoi rapporti coi terzi, contraenti e creditori.
In questa prospettiva, pur coesistendo effetti modificativi ed effetti traslativi derivanti dalla scissione, si è evidenziato come quest’ultima determini un rapporto di successione tra soggetti distinti, con la conseguenza che non è preclusa la dichiarazione del fallimento della scissa entro il termine di un anno dalla sua cancellazione dal Registro delle Imprese.
Né potrebbe escludersi che la scissione societaria, nella specie totale, abbia effetti traslativi-successori sulla base di un argomento letterale, tratto dall’impiego del termine “assegnazione” di cui all’art. 2506 c.c. La stessa Suprema Corte ha infatti rilevato come, nel lessico dei codici, il termine in questione assume il prevalente significato di “trasferimento” di uno o più beni dal patrimonio di un soggetto a quello di un altro (cfr. artt. 2798 e 2925 c.c., art. 509 c.p.c. e artt. 588 c.p.c. ss.).
Rilevante a questo proposito si manifesta, piuttosto, la disposizione dell’art. 2506, comma 3, c.c., che prevede che la società scissa possa alternativamente “continuare la propria attività” oppure “attuare il proprio scioglimento senza liquidazione”: in questo secondo caso, tipicamente nell’ipotesi di scissione totale, stante l’assenza di elementi patrimoniali residui in capo alla scissa, allo scioglimento della scissa fa seguito la cancellazione della stessa dal Registro delle Imprese e il correlato effetto estintivo della società ai sensi dell’art. 2495 c.c.
Rigettata la tesi secondo cui la scissione rappresenterebbe un fenomeno meramente evolutivo-modificativo del contratto sociale tale da escludere in radice la fallibilità della società scissa, con riferimento all’applicabilità dell’art. 10 l.f. la Cassazione ha precisato che il relativo presupposto altro non è che la cancellazione dell’imprenditore dal Registro delle Imprese, non anche la cessazione dell’attività d’impresa su un piano oggettivo. Ai fini dell’applicabilità dell’art. 10 l.f., pertanto, risulta irrilevante la circostanza che l’attività di impresa non sia cessata, in quanto proseguita per mezzo delle società beneficiarie.
Fatte queste premesse, il Supremo Collegio si è infine domandato se, alla luce della disciplina speciale dettata in materia di scissione societaria, sussistano ulteriori ostacoli al riconoscimento della fallibilità della società scissa a seguito di scissione totale ovvero il legislatore abbia inteso escludere il permanere di qualsivoglia responsabilità della scissa per i debiti anteriori alla scissione.
Al riguardo, la Corte di Cassazione ha escluso che la responsabilità delle beneficiarie per i debiti propri della società scissa di cui agli artt. 2506 bis, comma 3, e 2506 quater, comma 3, c.c.possa valere ad eliminare la responsabilità della società scissa medesima. In particolare, la Corte ha osservato che la distinzione tra scissione totale e scissione parziale (nell’individuazione dei soggetti solidalmente responsabili per i debiti della scissa) posta dalla norma di cui all’art. 2506 bis, comma 3, c.c. – ai sensi della quale, qualora la destinazione degli elementi del passivo non sia desumibile nel progetto di scissione, delle relative passività rispondono in solido le società beneficiarie, in caso di scissione totale, e la scissa e le società beneficiarie, in caso di scissione parziale – non vale ad esprimere la volontà del legislatore di negare la persistente responsabilità della scissa per i propri debiti, nè la fallibilità della stessa in caso di scissione totale. E ciò in quanto “nel nostro sistema … l’esonero dalla responsabilità patrimoniale, come pure le limitazioni della stessa – e così pure, quindi, la liberazione del debitore durante il corso di rapporto – suppongono una espressa previsione normativa a corredo (cfr. la norma dell’art. 2740 c.c., comma 2)”, del tutto inesistente con riferimento al caso di scissione totale.
Del resto, in assenza di una responsabilità della scissa, potrebbe anche verificarsi il caso di debiti della scissa per cui nessuno venga (più) a rispondere illimitatamente. In effetti, nell’ipotesi di debiti della scissa la cui destinazione non sia desumibile dal progetto di scissione ai sensi dell’art. 2506 bis, comma 3, c.c., nessuna beneficiaria è tenuta a farsene carico illimitatamente e la responsabilità solidale delle beneficiarie è limitata al “valore effettivo del patrimonio netto attribuito” a ciascuna di esse. In siffatta ipotesi, i creditori della scissa finirebbero, pertanto, per perdere una parte della garanzia patrimoniale. A ben vedere, i creditori della scissa incontrano limitazioni all’aggressione patrimoniale anche nell’ipotesi in cui l’assegnazione degli elementi del passivo sia desumibile nel progetto di scissione, posto che l’art. 2506 quater, comma 3, c.c. prevede che costoro possano rivolgersi alle altre beneficiarie solo allorchè non siano stati soddisfatti dalla “società a cui fanno carico” e che queste risponderanno pur sempre nei limiti del valore effettivo del patrimonio netto loro attribuito.
Per altro verso, non può essere considerato fattore di ostacolo alla dichiarazione di fallimento della società scissa il fatto che nessuno dei suoi creditori abbia fatto ricorso allo strumento dell’opposizione alla scissione previsto dall’art. 2503 c.c., a cui fa rinvio l’art. 2506, comma 5, c.c. La tutela prevista dalle disposizioni della disciplina societaria della scissione, infatti, non preclude – in assenza di una espressa previsione normativa in tal senso – il ricorso ai rimedi generali: lo strumento dell’opposizione dei creditori alla scissione va inteso come un rimedio non “sostitutivo e necessario”, ma solo “aggiuntivo”.
Le questioni applicative
La soluzione adottata dalla Corte di Cassazione è condivisibile, anche in considerazione della utilità pratica dell’assoggettamento a fallimento della società scissa.
“Del resto, diversamente ragionando [i.e. escludendo la fallibilità della società scissa] si potrebbe correre il rischio di favorire operazioni negoziali volte proprio, in prossimità della decozione e della dichiarazione di fallimento delle società, a determinare la trasformazione, pur consentita dall’ordinamento, di quest’ultime in enti ovvero altre entità giuridiche non fallibili, non consentendo l’apertura del concorso dei creditori sui beni della società debitrice”[2].
Per contro, il fallimento della società scissa rende possibile l’attivazione di rimedi volti alla reintegrazione della garanzia patrimoniale del relativo ceto creditorio, pregiudicato – come si è visto – per effetto della scissione totale (stanti il frazionamento del patrimonio della scissa tra le società beneficiarie e le limitazioni della responsabilità di queste ultime per i debiti della scissa)[3].
Da un lato, l’apertura della procedura fallimentare consente al curatore della scissa di esercitare le azioni revocatorie previste dalla disciplina di diritto concorsuale, al fine di rendere privi di effetti gli atti compiuti dalla scissa prima della scissione (e.g. vendite, pagamenti) lesivi della parità di trattamento tra i creditori. Più dubbia è invece la revocabilità della scissione in quanto tale e, dunque, delle assegnazioni compiute nell’ambito della stessa. Sul punto va ricordato che – nonostante l’opinione contraria, alla luce del principio di irretrattabilità degli effetti della scissione, della dottrina maggioritaria e di parte della giurisprudenza di merito – la giurisprudenza di legittimità ha riconosciuto l’ammissibilità dell’azione revocatoria dell’atto di scissione societaria, quale rimedio generale non sostituito da – e compatibile con – quelli speciali previsti dalla disciplina societaria, non determinando alcuna invalidità dell’atto impugnato, bensì una sua semplice inefficacia relativa a beneficio del creditore pregiudicato[4].
Dall’altro lato, il fallimento della società scissa consente di agire, sia civilmente che penalmente, nei confronti degli organi sociali della società scissa. Si tratta, in particolare, dellapossibilità di perseguire gli ex amministratori e sindaci per il reato di bancarotta fraudolenta per atti distrattivi del patrimonio sociale[5], nonché di far valere la responsabilità degli stessi verso la società scissa e/o i creditori della stessa ai sensi degli artt. 2394 bis o 2476 c.c.
[1] Per un primissimo commento cfr. Spolidoro, Fallimento della società scissa nella scissione totale (con uno sguardo alla fusione), in Soc., 2020, 6, 673 ss. Si vedano, altresì, i commenti alla pronuncia del precedente grado di giudizio, emessa dalla Corte d’Appello di Torino in data 26 luglio 2016, in Soc., 2017, 6, 695 con nota di Boggio, e in Fall., 2017, 6, 771 con nota di Cavanna.
[2] La Corte ha altresì evidenziato l’assurdità della tesi delle ricorrenti, secondo cui all’esclusione dalle procedure della società scissa dovrebbe senz’altro corrispondere – e in via del tutto automatica – la fallibilità delle società beneficiarie, in via indipendente dalla connotazione soggettiva specifica a ciascuna di esse. Ciò porterebbe al fallimento di soggetti non fallibili, cosa del tutto inammissibile, non rinvenendosi una simile regola nell’apparato normativo vigente.
[3] Restano aperte alcune questioni di carattere pratico, non affrontate nelle pronunce in esame, circa l’opportunità di ricorrere ad una fictio iuris che postuli la riviviscenza del soggetto societario ormai estinto (analogamente a quella già affermata dalla giurisprudenza per poter dichiarare il fallimento di una società cancellata ex art. 2495 c.c.) oppure ad una separazione patrimoniale in capo alle società beneficiarie (analogamente a quella prevista in caso di fallimento dell’imprenditore individuale defunto) (cfr. Boggio, cit., p. 706).
[4] Cfr. Cass., 4 dicembre 2019, n. 31654, e Corte di Giustizia UE, 30 gennaio 2020, sezione II, 394/18.
[5] Cfr. Cass., 17 aprile 2018, n. 17163.