1. Il caso
Qui si parla di un’impugnativa di delibera assembleare di società per azioni e del suo infelice esito. Di un’impugnativa promossa non, more solito, dal socio dissenziente, assente o astenuto, bensì dai componenti del consiglio di amministrazione contro i quali era stata deliberata la proposizione di azione di responsabilità e contestualmente era stata accertata la revoca automatica dall’ufficio – effetto quest’ultimo, derivante dalla circostanza che la delibera in questione era stata approvata con il voto favorevole di più del quinto del capitale sociale (art. 2393, comma 5, c.c.) –, nonché disposta la loro sostituzione.
Il Tribunale di Roma, con sentenza n. 3099 del 22 gennaio 2021, rigetta le domande e rileva il difetto di legittimazione degli amministratori impugnanti in quanto, nonostante tutti avessero impugnato la delibera che li revocava dalla carica, lo avevano fatto con due atti distinti di citazione.
A dire del Tribunale di Roma, tale impugnazione doveva essere fatta «con il medesimo atto, contestualmente dal consiglio di amministrazione».
2. Il quadro normativo
Com’è noto, l’art. 2377 c.c. disciplina l’annullabilità delle deliberazioni assembleari stabilendo che le delibere prese in conformità della legge e dell’atto costitutivo vincolano tutti i soci, ancorché non intervenuti o dissenzienti. Lo stesso art. 2377 c.c. stabilisce, altresì, che le deliberazioni che non siano state prese in conformità della legge o dello statuto possono essere impugnate dai soci assenti, dissenzienti od astenuti, dagli amministratori, dal consiglio di sorveglianza e dal collegio sindacale.
Quanto alla legittimazione all’impugnazione, la riforma del 2003 innova rispetto al passato quanto alla posizione del socio astenuto, ora esplicitamente equiparata a quella del socio assente o dissenziente e, quanto a quella dell’organo di controllo, perché, ora, la legittimazione spetta testualmente al “collegio sindacale”, con ciò creando una netta frattura linguistica con il precedente testo dell’art. 2377 c.c. ove si parlava di “sindaci”. Aggiunge, altresì, che legittimato è il “consiglio di sorveglianza” – non il singolo componente, dunque –, tema che non si poneva prima della riforma del 2003.
Quanto all’organo amministrativo ed alla sua legittimazione, invece, l’attuale formulazione dell’art. 2377 c.c. contiene lo stesso termine – “amministratori” – adoperato nella precedente versione della stessa disposizione, rendendo legittimo il dubbio se il singolo amministratore sia personalmente legittimato all’impugnativa della delibera assembleare.
Al di là dell’equivocità della lettera dell’art. 2377 c.c., vi è ampio, quasi unanime, consenso in dottrina[1] ed in giurisprudenza[2] intorno al fatto che tale potere, in caso di pluralità di amministratori (riuniti dunque in un consiglio di amministrazione), spetti al consiglio e non al singolo amministratore. Unica eccezione a tale regola si dà nell’ipotesi di delibera assembleare lesiva di un interesse personale di un singolo amministratore, ossia un interesse diverso ed ulteriore rispetto a quello sociale[3]. Caso classico è la delibera relativa al compenso dell’amministratore o, ancor più, quella che lo revoca dalla propria carica prima della scadenza determinata[4].
L’attribuzione della legittimazione all’impugnativa all’organo e non ad ogni suo componente viene talvolta spiegata alla luce di quanto disposto dall’art. 2380, comma 3, c.c., secondo cui «Salvo che sia diversamente stabilito, le disposizioni che fanno riferimento agli amministratori si applicano a seconda dei casi al consiglio di amministrazione o al consiglio di gestione». Va notato, però, che se sostituissimo alla parola “amministratori” l’espressione “consiglio di amministrazione” ogni qualvolta non è disposta l’inapplicabilità della citata regola linguistica, i risultati sarebbero disastrosi (si provi, ad esempio, a simulare tale modifica nel disposto del secondo comma dell’art. 2385 c.c. in tema di cessazione degli amministratori per scadenza del termine).
L’equivocità della formulazione dell’art. 2377, comma 2, c.c. va dunque risolta con argomenti più sistematici che letterali. Scartato – perché, a nostro avviso, di scarsa incisività – l’argomento[5] che fa leva sulla necessità di adottare per gli amministratori una soluzione coerente con quanto previsto per i sindaci, ove il potere di impugnativa è certamente collegiale; scartata tale tesi, si diceva, la legittimazione in capo al consiglio discende invece dalla titolarità in capo allo stesso, e non al singolo socio, del potere di gestire l’impresa (art. 2380 bis c.c.) e – in questo caso, assieme ai sindaci – del dovere di tutelare l’interesse sociale e di garantire la legalità dell’azione sociale, dunque anche di quella che è stata attuata attraverso delibere assembleari[6]; non quello di prevenire una responsabilità dell’amministratore per aver dato esecuzione ad una delibera invalida, visto che, al momento dell’esecuzione, la delibera – pur se claudicante perché viziata – esprime pur sempre la volontà sociale. Questa è, ad avviso di chi scrive, la ragione della collegialità del potere di impugnativa.
La collegialità del potere implica che l’impugnativa dovrà essere supportata da una deliberazione consiliare, che non potrà ridursi ad una presa d’atto delle condizioni di illegittimità della delibera assembleare, ossia ad un atto dovuto e squisitamente formale, ma dovrà essere il frutto di una valutazione (non già arbitraria ma pur sempre) discrezionale che tenga conto, soppesandoli con i vantaggi, anche degli effetti negativi (ad esempio, di tipo economico, a causa dei costi dell’azione) dell’impugnativa[7].
3. La posizione del Tribunale di Roma
Sulla base di tali coordinate è possibile, ora, esaminare il caso in esame, risolto dal Tribunale di Roma nel senso che gli amministratori revocati dall’ufficio a seguito dell’approvazione della delibera che autorizzava l’esercizio dell’azione di responsabilità con il quorum qualificato dell’art. 2393, comma 5, c.c. non erano legittimati, a propria tutela, ad impugnare in proprio tale delibera pur ritenendola illegittima.
Il Tribunale di Roma non nega che, in via generale, tale delibera possa essere impugnata dagli amministratori, però precisa che tale potere è posto a presidio della legalità societaria, non già della sfera individuale dell’amministratore revocato. Da tale considerazione consegue, secondo il Tribunale, l’anzidetta natura collegiale di tale potere; a nulla rileva, aggiunge, che tutti gli amministratori revocati abbiano impugnato la stessa delibera o che i due giudizi siano stati riuniti. Ciò che conta, conclude, è la mancata adozione di una decisione in sede collegiale e da ciò non può che conseguire il difetto di legittimazione dell’amministratore e il rigetto della sua domanda.
Il Tribunale di Roma è costretto però a prendere in considerazione l’obiezione che chiunque, leggendo questa ricostruzione, solleverà: com’è possibile che abbia natura collegiale l’impugnazione contro una delibera che ha prodotto la revoca di un amministratore per circostanze relative alla sua condotta?
Il Tribunale di Roma ammette che, in linea generale, anche l’amministratore revocato possa impugnare la delibera di revoca[8] ma rileva che, nel caso concreto, la revoca non è l’oggetto della delibera ma un effetto automatico di legge. Aggiunge poi che l’amministratore revocato non ha l’interesse (e, dunque, nemmeno la legittimazione) ad impugnare in proprio la delibera ogni qualvolta, come nel caso in esame, egli abbia fatto unicamente valere vizi procedimentali della delibera e non una lesione della propria individuale posizione giuridica soggettiva. La rimozione di vizi procedurali di una delibera, secondo il Giudicante, pertiene alla sfera dell’interesse sociale, non di quello dell’amministratore in proprio. Ergo, essanon può avvenire in conseguenza di scelte individuali.
4. Nostre osservazioni
La decisione del Tribunale di Roma appare ineccepibile dal punto di vista formale ma non convincente nel suo passaggio conclusivo. Assumiamo pure che non possa essere contestato il fatto che, nel caso concreto, le impugnative si siano fondate su vizi procedurali e non sostanziali ed attinenti alla sfera giuridica (asseritamente lesa) dell’amministratore. Assumiamo, altresì, che un eventuale interesse sociale alla rimozione della delibera illegittima debba essere fatto valere in sede collegiale, dunque dal nuovo consiglio di amministrazione (seppure sia evidente il conflitto di interessi nel quale si muoverebbero i nuovi amministratori). Non è invece condivisibile l’affermazione secondo cui la rimozione di vizi procedurali di una delibera pertiene alla sfera dell’interesse sociale ma non di quello dell’amministratore in proprio. La sentenza in questione, ad avviso di chi scrive, sovrappone due concetti diversi tra loro: quello del vizio della delibera, ossia della ragione giuridica dell’impugnazione, e quello dell’interesse tutelato con la domanda giudiziale, ossia il bene della vita tutelato dall’impugnazione. Fermo il fatto, quindi, che vi può ben essere coesistenza tra interesse sociale all’annullamento ed interesse individuale (ossia, la delibera illegittima può ledere sia l’interesse della società sia quello dell’amministratore), non si può negare che l’unico interesse dell’amministratore la cui personale sfera giuridica sia stata lesa da una delibera assembleare illegittima sia l’annullamento di quella delibera. Che ciò possa avvenire anche solo per vizi procedimentali (ossia, di legalità societaria) non ha alcun rilievo perché anch’essi, come le questioni più propriamente di merito, mirano a realizzare quell’effetto (l’annullamento) che identifica il nucleo fondante dell’interesse dell’amministratore.
[1] In tal senso, si v. G. Grippo e C. Bolognesi, L’assemblea nella società per azioni, in P. Rescigno (dir. da), Trattato di Diritto Privato, II ed., Utet, 2011, vol.16***, p. 156; R. Lener, L’invalidità delle deliberazioni, in R. Lener eA. Tucci, Società per azioni. L’assemblea, Giappichelli, 2012, p. 238; F. Chiappetta, sub art. 2377, in P. Marchetti, L.A. Bianchi, F. Ghezzi e M. Notari, Commentario alla Riforma delle Società – Assemblea, Giuffrè – Egea, 2008, p. 272;S. Sanzo, sub art. 2377, in G. Cottino, G. Bonfante, O. Cagnasso e P. Montalenti (dir. da), Il Nuovo diritto societario,Zanichelli, 2004, p. 619; R. Lener, sub. art. 2377, in G. Niccolini e A. Stagno d’Alcontres (a cura di), Società di Capitali. Commentario, vol. I, Jovene, 2004, p. 553; e già G. Zanarone, L’invalidità delle deliberazioni assembleari, in G.E. Colombo e G.B. Portale (dir. da), Trattato delle Società per Azioni, vol. 3.2 – Assemblea, Utet, 1993, pp. 268-270.
[2] In tal senso, si v., ex multis, Cass. civ., sez. I, 12 gennaio 2010, n. 259, massimata in Giustizia Civile Massimario, fasc. 1, 2010, p. 32 s.; e già Cass. civ., sez. I, 5 giugno 2003, n. 8992, in Il Foro Italiano, fasc. 11, I, 2003, pp. 3007 ss.; Cass. civ., sez. I, 2 agosto 1977, n. 3422, in Banca Borsa Titoli di Credito, fasc. 1, II, 1979, pp. 69 ss.; e Cass. civ., sez. I, 24 aprile 1963, n. 1084, in Il Foro Italiano, fasc. 7, I, 1963, pp. 1425 ss. Questa è la prima decisione dove viene espressamente ha esclusa la legittimazione all’impugnativa del singolo amministratore per la dichiarata esigenza di coerenza con quanto affermato dalla richiamata Cass civ., sez. II, 21 ottobre 1958, n. 3398, in Il Diritto Fallimentare e delle Società Commerciali, II, 1956, p. 112, che aveva affermato la legittimazione all’impugnativa del collegio sindacale, non dei singoli sindaci. Con riferimento alla giurisprudenza del Tribunale di Roma si v., recentemente Trib. Roma, 20 novembre 2018, in Il Foro Italiano, fasc. 5, I, pp. 1815 ss.; Trib. Roma, sez. XVI, 4 aprile 2018, in ilsocietario.it; Trib. Roma, sez. spec., 10 dicembre 2017, in Giurisprudenza Commerciale, fasc. 3, II, 2019, pp. 597 ss., con nota di M. Tola, Legittimazione dell’amministratore a impugnare la propria revoca e «diritto a un ricorso effettivo», pp. 601 ss.
[3] Si v. Trib. Palermo, 18 maggio 2001, in Giustizia Civile, fasc. 7-8, I, 2001, I, pp. 1944 ss., ove si è affermata la legittimazione dell’amministratore non socio ad impugnare una delibera assembleare relativa all’azione di responsabilità definita «deliberazione che investe, con potenzialità lesiva, un suo particolare interesse» (pp. 1944 e 1949); Trib. Milano, 21 ottobre 2005, Giurisprudenza Italiana, fasc. 6, I, 2006, pp. 1208 s., con nota di A. Monteverde, Primi passi della giurisprudenza nel nuovo universo dell’invalidità delle delibere: con qualche riflessione su nullità e inesistenza, pp. 1209 s.,ove il principio viene affermato, ma per escludere che vi fosse lesione di interessi individuali dell’amministratore (qui revocato); Trib. Milano, 8 febbraio 2006, n. 1466, così massimata in Giustizia a Milano, fasc. 2, 2006, p. 13, secondo cui «Solo eccezionalmente la giurisprudenza ha riconosciuto la legittimazione del singolo amministratore a impugnare la delibera nel suo personale interesse (ove l’organo amministrativo sia previsto come collegiale), e in particolare nel caso in cui il deliberato assembleare involga la sua revoca prima della scadenza naturale del mandante, o comunque determini una lesione o una messa in pericolo di personali interessi». In arg., si v. anche Trib. Milano, 26 gennaio 1987, in Il Diritto Fallimentare e delle Società Commerciali, fasc. 1, II, 1988, p. 94; nonché Trib. Verona, 30 giugno 1995, in Il Foro Italiano, fasc. 1, I, 1996, I, pp. 303 ss., che riconosce la legittimazione dell’amministratore nel caso di delibera assembleare che lo revoca ante tempus.
[4] Caso classico ma la cui soluzione non è lineare, come ben spiegato da L. Benedetti, La legittimazione dell’amministratore a proporre l’azione di annullamento contro la delibera di revoca della carica, nota a Trib. Palermo, 24 gennaio 2013, in Giurisprudenza Commerciale,2016, fasc. 1, II, pp. 164 ss.
[5] Tesi questa originariamente proposta da V. Salafia, L’invalidità delle deliberazioni assembleari nella riforma societaria, in Le Società, fasc. 9, 2003, p. 1177, secondo cui: «La legittimazione degli amministratori è riferita all’intero collegio, se la società è amministrata da un consiglio di amministrazione, come induce a pensare il fatto che gli organi di controllo, rispetto ai quali una regola diversa sarebbe ingiustificata, sono legittimati alla stessa impugnazione nella loro integrale compagine». Condivisibilmente, l’A. prosegue affermando che «Il riferimento agli amministratori e non al consiglio di amministrazione ne è giustificato dal fatto che non in tutte le società l’organo amministrativo ha struttura collegiale; la forma lessicale usata ha, quindi, la funzione di comprendere nella previsione tutti gli organi amministrativi, qualunque sia in concreto la loro struttura, e non quella di attribuire la predetta legittimazione a ciascun componente dell’eventuale organo collegiale». Nello stesso senso, R. Lener, L’invalidità delle deliberazioni, cit., p. 238; e Id.,sub. art. 2377, cit., p. 553.
[6] In arg., si v. R. Lener,sub. art. 2377, cit., p. 552, che sottolinea come, alla luce di quanto detto, «appare senz’altro ammissibile l’impugnazione di amministratori e sindaci anche di deliberazioni assunte con il concorso di tutti i soci». Si v. anche G. Grippo eC. Bolognesi, op. cit., pp. 156 s.; F. Chiappetta, op. cit., p. 273;e C. Zanarone, op. cit., pp. 268-270.
[7] Così anche In tal senso, R. Lener, sub art. 2377,cit.,p. 552; e C. Zanarone, op. cit., pp. 269 s. Contra sembrerebbe G. Guerrieri, sub. art. 2377, in A. Maffei Alberti (a cura di), Il Nuovo Diritto delle Società, vol. I, Cedam, 2005, pp. 533 s., spec. nt. 84, che parla di «dovere di attivarsi per fare accertare l’illegittimità delle deliberazioni adottate dall’assemblea».
[8] Nello stesso senso, si v. anche Trib. Palermo, 24 gennaio 2013, in Giurisprudenza Commerciale,2016, fasc. 1, II, p. 162 ss., con nota di L. Benedetti, op. cit., pp. 164 ss.; Trib. Milano, 11 settembre 1989, in Giurisprudenza di Merito, fasc. 6, 1990, pp. 960 ss.; e già Cass. civ., 1° marzo 1973, n. 562, in Giurisprudenza Italiana, I, 1973, pp. 729 ss.