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Giurisprudenza

Sulla nullità parziale del contratto di fideiussione bancaria omnibus redatto secondo il modello ABI

18 Novembre 2019

Stefano Montalbetti, DLA Piper

Cassazione Civile, Sez. I, 26 settembre 2019, n. 24044 – Pres. Bisogni, Rel. Tricomi

Di cosa si parla in questo articolo

Introduzione

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 24044 del 26 settembre 2019, è tornata a pronunciarsi sul tema della validità del contratto di fideiussione bancaria omnibus, conforme allo schema contrattuale “standard” predisposto dall’Associazione Bancaria Italiana (ABI), rispetto alla prospettata violazione della libertà concorrenziale (art. 2 della Legge n. 287/1990).

In particolare, la questione rilevante posta all’attenzione della Corte Suprema attiene al profilo dell’invalidità totale ovvero parziale (ossia inerente le clausole considerate lesive del mercato della libera concorrenza se applicate in modo uniforme) del negozio fideiussorio sottoscritto tra la banca e il garante.

Il contesto in cui si inserisce tale interrogativo concerne l’ipotetica invalidità del rapporto contrattuale a “valle” tra garante e istituto di credito rispetto all’intesa bancaria a “monte” considerata restrittiva della concorrenza, il cui fondamento è da rinvenirsi nell’inscindibilità tra la suddetta intesa e i negozi che ne diano esecuzione, aderendo così alla teoria della c.d. “nullità derivata”[1].

La fideiussione omnibus e la tutela della libera concorrenza

La fideiussione omnibus, strumento sovente impiegato nella prassi finanziaria, si distingue per l’ampiezza del suo oggetto, venendo infatti il fideiussore a prestare garanzia per tutte le obbligazioni, presenti e future, del debitore. Un argine alla problematica relativa alla presunta nullità di tale forma contrattuale per indeterminabilità del suo oggetto è stato posto con l’introduzione dell’art. 10 della Legge n. 154/1992, che ha novellato l’art. 1938 c.c., stabilendo la necessità di prevedere un importo massimo a garanzia del debito.

In merito ai profili di illegittimità di un siffatto negozio rispetto alla normativa antitrust, è opportuno ricordare che l’art. 2 della Legge n. 287/1990 vieta le intese tra imprese che abbiano quale effetto quello di “impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante” attraverso diverse modalità, tra cui, inter alia, quelle di determinare, direttamente o indirettamente, le condizioni contrattuali da applicare ai consumatori. Destinatario della predetta normativa è chiunque abbia un interesse al mantenimento di un mercato competitivo, tenendo in considerazione che, dinnanzi a un’intesa distorsiva della concorrenza, il consumatore finale vede elidersi il proprio diritto a una libera scelta di prodotti tra di loro in concorrenza e, in tale prospettiva, il rapporto a “valle” si pone come effettiva esecuzione dell’intesa vietata, idoneo ad attuarne gli effetti.[2]

I profili riportati sono passati al vaglio anche della Banca d’Italia – che sino al 2006 operava come autorità garante della concorrenza tra gli istituti di credito -, la quale ha focalizzato la propria attenzione, in particolare, sul contenuto di alcune clausole inserite nel modello di fideiussione omnibus a garanzia di operazioni di natura bancaria, adottato dall’ABI nel 2003, addivenendo all’emanazione di un rilevante provvedimento nel 2005[3], da cui è emerso che dette clausole, ove oggetto di un’adozione uniforme e generalizzata da parte dei vari istituti, potrebbero creare effetti anticoncorrenziali.

Le clausole di cui si discute, che impongono maggiori oneri a carico del garante, riguardano: la c.d. “reviviscenza” della garanzia dopo l’estinzione del debito principale (art. 2 dello schema ABI), che impegna il fideiussore a tenere indenne la banca dalle vicende successive all’avvenuto adempimento, anche quando il garante, confidando nell’estinzione del debito principale, abbia trascurato di procedere alla tutela delle proprie ragioni di credito nei confronti del debitore; l’art. 6 dello schema ABI, che, in deroga al disposto di cui all’art. 1957 c.c., esonera la banca dall’obbligo di continuare le proprie istanze contro il debitore entro il periodo prescrizionale stabilito dalla disposizione codicistica; e l’art. 8 dello schema ABI, che estende la garanzia anche agli obblighi di restituzione del debitore scaturenti dall’invalidità del negozio principale, con ciò rendendo la fideiussione “insensibile” rispetto ai vizi del rapporto debitorio principale. Al riguardo, la Banca d’Italia ha affermato come clausole analoghe a quelle sopra menzionate, avendo quale fine quello di far sopportare al fideiussore le conseguenze negative dell’inosservanza degli obblighi di diligenza della banca, laddove applicate in modo uniforme, sono da considerarsi in contrasto con l’art. 2, comma 2, lett. a), della Legge. n. 287/1990.

La sentenza n. 24044 del 26 settembre 2019 e la tematica della nullità parziale

Con l’ordinanza n. 29810 del 12 dicembre 2017 la Cassazione ha chiarito come il giudice di merito non possa escludere la nullità del patto fideiussorio esclusivamente sull’assunto che lo stesso sia stato realizzato in epoca precedente il dictum dell’Autorità indipendente, dal momento che a detto provvedimento non può attribuirsi una valenza regolamentare. Ciò che rileva è che l’intesa a “monte” sia antecedente rispetto alla negoziazione a “valle”, sicché tale illecito anticoncorrenziale non potrà che travolgere il negozio concluso in conformità allo stesso[4].

Tale pronuncia non si è tuttavia soffermata sul tipo di patologia che potrebbe sorgere. Un chiarimento in tal senso è stato fornito da una recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 24044/2019) che, di fronte all’alternativa tra nullità assoluta e parziale, ha optato per la seconda. I giudici di legittimità hanno precisato che, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, dall’ordinanza del 2017 non possa desumersi una soluzione di nullità totale del contratto di fideiussione contenente le clausole dello schema ABI, in quanto tali disposizioni non sarebbero contrarie a norme imperative. In conformità al principio di conservazione del negozio contrattuale, dovrebbe pertanto trovare applicazione l’art. 1419, comma 1, c.c. “laddove l’assetto degli interessi in gioco non venga pregiudicato da una pronuncia di nullità parziale, limitata alle sole clausole rivenienti dalle intese illecite”. Risulta altresì rilevante l’osservazione per cui dette clausole fossero assolutamente funzionali ad assecondare l’interesse della banca e non dei fideiussori e, quindi, in conformità con il disposto del primo comma dell’art. 1419 c.c., il fideiussore avrebbe senz’altro stipulato il contratto senza la presenza di tali clausole.

In contrasto con tale posizione si è schierato chi, non potendo ricostruire la “volontà del fideiussore”, dal momento che le parti dell’intesa a “monte” non coincidono con quelle che negoziano il contratto a “valle”, ha escluso l’applicabilità della nullità parziale, sostenendo come da violazioni gravi come quelle di cui si discute non possa che derivare una nullità dell’intero contratto[5].

Quanto sostenuto dalla recente sentenza della Cassazione trova comunque conferma in alcune pronunce di merito che, enfatizzando il principio di conservazione degli effetti del contratto e l’economia complessiva dell’affare, hanno ritenuto di aderire a tale tesi, sostenendo come pare innegabile che sia per il garante che per la banca[6] la volontà sarebbe stata quella di concludere quel contratto anche in assenza delle suddette clausole[7].

La pronuncia in oggetto mostra pertanto di accogliere una soluzione che si dimostra, oltre che fondata su solide basi giuridiche, coerente con la natura dei rapporti di finanziamento, evitando soluzioni estreme che avrebbero potuto comportare ripercussioni rilevanti sull’intero sistema economico.



[1] Cass., Ord., 12 dicembre 2017, n. 29810, in Giur. comm., 2019, 3, II , 571, secondo cui “nel dichiarare la nullità delle intese vietate, l’ art. 2, l. n. 287/1990 prende in considerazione non solo il negozio giuridico posto all’origine della violazione, ma tutta la serie dei fatti distorsivi della concorrenza, anche successivi a quel negozio. Ne deriva che la nullità si riferisce anche ai contratti ″a valle”; Cass., SS. UU., 4 febbraio 2005, n. 2207, in Giur. it., 2005, 1675; Cass., 1 febbraio 1999, n. 827, in Giur. it., 1999 , 1223.

[2] Cass., SS. UU., 4 febbraio 2005, n. 2207, cit.

[3] Provvedimento n. 55 del 2 maggio 2005 “ABI – Condizioni generali di contratto per la Fideiussione a garanzia delle operazioni bancarie”.

[4] Principio avallato anche da Cass., 22 maggio 2019, n. 13846, in Giust. civ. mass., 2019.

[5] Trib. Salerno, 23 agosto 2018; si veda altresì App. Roma, Ord., 26 luglio 2018; App. Firenze, Ord., 18 luglio 2018, App. Bari, 21 marzo 2018, n. 526.

[6] Anche per la banca risulta, infatti, più conveniente rinunciare ai vantaggi di quelle clausole, piuttosto che all’aumento della garanzia patrimoniale generica sui cui fare affidamento in caso di inadempimento del debitore principale.

[7] Trib. Roma, 3 maggio 2019, n. 9354, secondo cui “l’illiceità di tali intese, seppur accertata dalla Banca d’Italia, non è idonea a determinare la nullità dell’intero contratto stipulato a valle, in primis perché non vi è prova che le intese di cui sopra siano confluite nel contratto in questione ed in secondo luogo poiché non vi è prova della lesione della libertà contrattuale del fidejussore”; App. Brescia, 29 gennaio 2019; Trib. Padova, 29 gennaio 2019; Trib. Mantova, Ord. 16 gennaio 2019; App. Napoli, 20 giugno 2018, n. 3045.

 

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